“Insorgiamo”, lo striscione con il motto degli operai della Gkn in piazza san Giovanni a Roma lo scorso 16 ottobre

Spiragli. Ma dopo le prove di forza e il licenziamento dei 422 operai della sede toscana della Gkn Driveline annunciato dalla multinazionale il 9 luglio scorso con una mail, anche uno spiraglio è cosa rilevante. Il 7 ottobre si è tenuto al ministero dello Sviluppo economico un incontro tra sindacati e azienda, cui ha partecipato anche il governatore toscano Eugenio Giani, risultato diretto della mobilitazione dei lavoratori e del ricorso in tribunale presentato dalla Fiom. Il giudice ha riconosciuto il comportamento antisindacale dell’azienda e ha disposto la revoca dei licenziamenti alla Gkn di Campi Bisenzio.

Paolo Solimeno (giuristidemocratici.it)

“Una sentenza importantissima – spiega a Patria Indipendente Paolo Solimeno, uno dei legali che in queste settimane, assieme ad altri giuristi progressisti, ha lavorato gomito a gomito con gli operai al fine di elaborare un documento di indirizzo in otto punti per una legge contro le delocalizzazioni – perché, al di là della vicenda del licenziamento via mail, il giudice sottolinea che l’azienda ha impedito al sindacato “di esercitare al meglio le proprie funzioni, ivi compresa quella di condizionare (con le ordinarie e legittime modalità di confronto ed eventualmente di contrasto) le future determinazioni e scelte gestionali dell’azienda”. Quella sentenza riconosce la centralità e l’attualità dello Statuto dei lavoratori.

La Gkn di Campi Bisenzio (FI)

Nella riunione al Mise del 7 ottobre le sigle sindacali hanno chiesto alla società controllata dal gruppo d’investimenti britannico Melrose di non riaprire la procedura di licenziamento e di ritirare la messa in liquidazione per consentire una ripresa del confronto libero tra le parti. Alla fine è stato ottenuto che il ministero si farà garante di un percorso d’incontri in sede istituzionale, in cui l’azienda si è impegnata a favorire la continuità produttiva e occupazionale del sito di Campi Bisenzio.

Il segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile automotive, Michele De Palma (fiom-cgil.it)

Impegno tutto da verificare, come ha sottolineato Michele De Palma, segretario nazionale Fiom-Cgil e responsabile automotive. Il sindacato preme sul governo affinché si apra un confronto (e rapidamente) sul decreto antidelocalizzazioni, anche perché la società ha ribadito la volontà di voler lasciare lo stabilimento toscano. Comunque dopo l’incontro al Mise le acque si sono mosse e sembra che si stia cercando un acquirente per la Gkn. Esattamente quello che chiedono i lavoratori da settimane.

Protesta dei lavoratori lo scorso settembre (fiom-cgil.it)

Li ha frequentati ogni giorno da Ferragosto in poi per iniziative comuni contro l’illegittimo licenziamento. Qual è oggi la situazione?

Sanno benissimo che dopo la sentenza del Tribunale che ha disposto la revoca dei licenziamenti non possono certo tirare i remi in barca. Capiscono che si è vinta una battaglia importante ma non la guerra. E sono anche determinati a non mollare, a continuare la mobilitazione. Ne sono talmente consapevoli che in queste settimane si sono fatti promotori di una vertenza che ha superato i confini della Toscana e forse dell’Italia. Una lotta, la loro, che si è sostanziata in una proposta di legge per il contrasto alle delocalizzazioni e alle crisi occupazionali. E che, se fatta propria dal governo, potrebbe assumere la forma del decreto legge, permettendo di intervenire direttamente anche sulla loro vicenda, senza andare ad arrampicarsi sulla retroattività.

(Imagoeconomica)

A suo giudizio, il quadro politico attuale rende possibile questa soluzione?

Secondo me sì. Intanto i partiti che precedentemente avevano proposto una legge – pur insufficiente – per contrastare le delocalizzazioni hanno la maggioranza alla Camera e su un tema essenziale come questo potrebbero esercitare una pressione forte sul governo. E la destra che dice sempre “prima gli italiani” avrebbe l’occasione per dimostrare di non fare solo facile propaganda. Sappiamo bene che i loro slogan sono “chiacchiere” e in realtà difendono il liberismo transnazionale, ma sarebbe l’occasione buona per metterli alla prova: hic Rhodus, hic salta dicevano i latini: dimostrino le loro affermazioni qui e ora.

Mario Draghi in visita alla sede nazionale Cgil testimonia solidarietà al segretario generale del sindacato Maurizio Landini dopo l’assalto del 9 ottobre (Imagoeconomica)

Scusi se faccio l’avvocato del diavolo. A palazzo Chigi siede Draghi…

I lavoratori si rendono conto che stiamo parlando di un governo guidato da un ex banchiere centrale, convinto liberista che ha sempre predicato la stabilità della moneta. Però va detto che Draghi ha anche fatto in questi ultimi anni un percorso nuovo. Assieme ad altre figure europee, le più lucide, ha introdotto molte deroghe all’austerità. È vero, lo hanno fatto considerandole temporanee, però hanno anche riconosciuto che i principi del liberismo (come il mantra dell’occupazione che viene dopo la stabilità della moneta) in tempi di crisi non contano, devono essere sospesi. E oggi dovremmo finalmente riconoscere che anche la mobilità dei capitali non è adeguata a far fronte ai diritti dei lavoratori.

In piazza a Roma il 16 ottobre

Nessuna legge sulle nostre teste, ma una legge che sia scritta con le nostre teste hanno scritto i lavoratori Gkn. Non è più solo una protesta. Ha varcato i cancelli della fabbrica, proponendo un modello di sviluppo diverso.

Con la loro mobilitazione gli operai di Campo Bisenzio si sono fatti classe dirigente, un salto di qualità incredibile. Che guarda non solo all’Italia ma all’Europa intera. È un passo avanti nell’elaborazione di una rete di tutele giuridiche dei lavoratori che superi i confini nazionali. Parlo alla testata dei partigiani, che porta nel nome il termine Patria. E la Patria cui tutti noi facciamo riferimento non si fonda sui muri, ma sui diritti, sull’internazionalismo, sull’accoglienza, su uguali tutele; è pronta a cedere sovranità in favore di organizzazioni che riconoscono i diritti fondamentali delle persone. Oggi succede che le pur esigue – perché rosicchiate negli anni della sbornia liberista – tutele dei diritti non valgono più al di fuori dei confini nazionali. La Patria che vogliamo è quella fondata sulla Costituzione, che all’articolo 4 dice espressamente che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Oggi invece registriamo purtroppo che, mentre le imprese si muovono sullo scacchiere europeo e mondiale con grande spregiudicatezza, smantellando con un colpo di penna il tessuto produttivo di un territorio, indifferenti ai destini delle persone, dall’altra parte non si sia attrezzati a sufficienza per tutelare questi diritti. E la vicenda Gkn ce lo dimostra chiaramente. Senza un intervento di Bruxelles i tentativi di contrastare le delocalizzazioni rischiano di rivelarsi effimeri.

(Unsplash)

Sulla tutela dei diritti dei lavoratori l’Europa però ancora arranca. Si veda la questione del salario minimo europeo.

L’Eurostat ha certificato recentemente che il valore complessivo degli stipendi nell’Unione ha subito una flessione dell’1,9%. In Italia del 7,5. In buona sostanza nel nostro Paese il livello degli stipendi è tornato indietro ai livelli del 2016. La riduzione dell’occupazione nella manifattura nei Paesi occidentali della Ue – Francia, Italia, Spagna – a favore dei Paesi dell’Est europeo reclama un intervento comunitario. È in discussione da tempo l’idea di fissare, da un lato, un salario minimo europeo e, allo stesso tempo, di introdurre una forma di tassazione dei profitti aziendali minima a livello europeo. C’è una proposta della Commissione che però è assai debole. Il primo nodo da chiarire è che il salario minimo non può essere visto come una sorta di sussidio all’interno di un mercato del lavoro piegato dalla logica del profitto. Il salario minimo deve, insomma, in una ipotetica torta aumentare la quota di salario che spetta ai lavoratori. Ecco perché occorrerebbe un livello legislativo e contrattuale europeo valido in tutta l’Unione. Queste due cose, salario minimo nell’accezione che ho cercato di spiegare e tassazione dei profitti a livello transnazionale, ridurrebbero il rischio delle delocalizzazioni sulla pelle dei lavoratori.

(Imagoeconomica)

Chi è contrario all’introduzione di norme che pongano limiti alle delocalizzazioni sostiene che così si uccide la libertà d’impresa. Cosa risponde?

Che il limite all’impresa è fissato nell’articolo 41 della nostra Carta che al comma 1 dice che “l’iniziativa economica privata è libera” ma subito dopo precisa che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Il secondo comma specifica poi che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. In queste righe è sancito solennemente che il diritto al lavoro non può essere in nessun caso sacrificato sull’altare del massimo profitto.

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi (Imagoeconomica)

A sentire Bonomi sì. E la levata di scudi di Confindustria sta lì a dimostrare che larga parte del mondo imprenditoriale non vuole parlare di limiti.

Certo che il presidente di Confindustria si lamenta e alza al cielo i suoi alti lai! La sua – altro che modernità – è un’idea di impresa vecchia, sa di restaurazione. La versione buona del liberismo ci dice che i lacci e lacciuoli sono la “burocrazia”. La verità è un’altra: quando parlano di lacci e lacciuoli si riferiscono ai diritti dei lavoratori, alle norme puntuali sulla sicurezza e ancora al diritto alla corresponsione di uno stipendio adeguato. Ecco, questi sono lacci sani, lacci da mantenere e semmai rafforzare.

Il ministro del Lavoro Orlando e la viceministra allo Sviluppo economico Todde (Imagoeconomica)

Ad agosto il ministro del Lavoro Orlando e la viceministra allo Sviluppo economico Todde hanno fatto girare una loro proposta che ricalcava la legge Florange, varata nel 2014 dalla Francia per limitare le delocalizzazioni. Come la valuta?

Va nella giusta direzione ma la considero poco efficace; buoni propositi ma poi per arginare le delocalizzazioni ci si limita a mettere delle sanzioni patrimoniali, che però non sono un deterrente per le imprese. La sanzione pari al 2% del fatturato per chi se ne va senza che vi sia una dimostrabile crisi economica e/o produttiva è una cosa facilmente superabile per un colosso finanziario come Melrose che basa i propri guadagni in termini di centinaia di milioni di euro. Il punto è che oggi non si tratta di mitigare gli effetti, spesso devastanti, delle decisioni prese dalle imprese, ma di rovesciare il paradigma ultraliberista che tanti danni ha fatto in questi ultimi decenni.

I lavoratori di Campi Bisenzio partecipano alla manifestazione di sabato 16 ottobre a Roma

Sintetizzando, qual è lo spirito degli otto punti del documento, su cui anche lei ha dato il suo contributo?

Quello di costruire una soluzione che dia continuità produttiva e occupazionale alla realtà di Campi Bisenzio e a tutte le delocalizzazioni simili, cioè a fughe speculative non motivate da crisi produttiva, attraverso un intervento pubblico o di soggetti privati, garantito in ogni caso da un piano approvato dall’autorità pubblica e dalla maggioranza dei lavoratori. Il senso degli otto punti è sostanzialmente questo: lo Stato deve avere il diritto di imporre un procedimento di consultazione con i sindacati, con l’azienda e con il governo in cui si verifichi se c’è una crisi che comporti la necessità di ridurre i posti di lavoro. Se non c’è questa esigenza, i licenziamenti non sono legittimi. A quel punto si cercano le strade alternative. Tra queste, la strada principe è la cessione dell’azienda: se vuol disimpegnare, prende e se ne va, ma deve cedere lo stabilimento.

Il 25 aprile scorso dal presidio Gkn collegamento con il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo e la vicepresidente dell’associazione e presidente dell’Istituto Cervi, Albertina Soliani

La cessione a favore di chi?

Noi suggeriamo – d’accordo con i lavoratori – che la prelazione debba essere data a una cooperativa di lavoratori, che si costituisca apposta e abbia un minimo tempo per proporsi come acquirente. In questa eventualità, lo Stato potrebbe eventualmente entrare nel capitale dell’azienda attraverso la Cassa depositi e prestiti come socio della nuova realtà aziendale. In quegli otto punti c’è in sostanza l’attuazione dell’articolo 41, comma 2 della Costituzione.

Una legge basata sulla piattaforma dei lavoratori sarebbe possibile alla luce del diritto europeo?

Assolutamente sì. Nell’elaborazione degli otto punti il professor Giovanni Orlandini, componente del gruppo di giuristi che si è messo a disposizione dei lavoratori, ha suggerito infatti di evidenziare che – come espressamente riconosciuto dalla Corte di Giustizia – “la circostanza che uno Stato membro preveda, nella sua legislazione nazionale, che i piani di licenziamento collettivo debbano, prima di qualsiasi attuazione, essere notificati a un’autorità nazionale, la quale è dotata di poteri di controllo che le consentono, in determinate circostanze, di opporsi a un piano siffatto per motivi attinenti alla protezione dei lavoratori e dell’occupazione, non può essere considerata contraria alla libertà d’impresa sancita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue”.