La giurista Olivia Bonardi, docente di diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano, ha fatto parte del gruppo di lavoro coordinato dal presidente emerito dell’Anpi Carlo Smuraglia, che fin dall’indomani dell’esito del referendum sulla riforma della Costituzione ha voluto riflettere sull’attuazione della Carta entrata in vigore nel 1948. Se infatti il pretesto dei ripetuti tentativi di stravolgimento della legge fondamentale della Repubblica italiana e dei suoi princìpi è stato proprio l’aggiornamento alle esigenze del presente, l’Associazione dei partigiani ha sempre sostenuto che il vulnus era, al contrario, la mancata applicazione del dettato costituzionale. Da qui i seminari, le lectio magistralis e gli incontri pubblici, un impegno lungo mesi i cui risultati sono stati raccolti per la Viella edizioni nel volume a cura di Carlo Smuraglia “La Costituzione, 70 anni dopo” pubblicato nel marzo di quest’anno. E dunque quale migliore interlocutore della professoressa Bonardi per capirne di più su quanto sta accadendo oggi in materia di lavoro?
I casi Whirpool a Napoli, l’Ilva a Taranto, confermano quanto sia lontana l’attuazione della Carta fondamentale della Repubblica italiana “fondata sul lavoro”.
Nella Costituzione c’è un preciso impegno verso il progresso sociale e il lavoro è indicato come via maestra per condurre un’esistenza libera e dignitosa, il suo spirito è intriso di etica del lavoro e dà degli indirizzi, stabilisce che l’iniziativa economica deve essere orientata all’utile sociale e al contempo sancisce garanzie nei confronti dei lavoratori. Il testo costituzionale nacque però in un contesto molto diverso. Oggi la globalizzazione, la liberalizzazione dei commerci, e dei capitali soprattutto, hanno portato a una corsa al ribasso e a una concorrenza tra Stati: si parla di law shopping: imprese e multinazionali si trasferiscono nei Paesi dove hanno maggiore convenienza. È un problema generale, e deve essere affrontato nelle sedi internazionali in cui il commercio è regolato e non da un singolo Stato. Tuttavia, i valori fondanti della Costituzione italiana possono essere portati nel dialogo all’interno delle istituzioni internazionali che governano l’economia mondiale. È lì che occorre far sentire la propria voce affinché si arrivi a elaborare standard internazionali.
In questo potrebbe avere un ruolo anche l’Unione Europea?
Senza dubbio, anche se oggi l’Unione Europea vive le stesse crisi delle istituzioni nazionali. Va precisato però che l’esistenza delle istituzioni internazionali non impedisce agli Stati di adottare politiche capaci di imporre alle imprese straniere un comportamento coerente rispetto agli accordi presi e rispettoso del diritto. Almeno laddove percepiscano finanziamenti, benefici pubblici, sgravi contributivi e fiscali per svolgere le attività, il “prendi i soldi e scappa” può essere evitato. Dunque ritengo condivisibile la norma contenuta nel Decreto dignità che prevede misure in questo senso. Ma per rilanciare l’occupazione è necessario elaborare politiche economiche più ampie e da questo punto di vista siamo molto lontani dalla realizzazione di condizioni di pieno impiego, anzi le misure paventate in questi giorni vanno in direzione opposta. E preoccupa la sospensione del Codice degli appalti.
Si riferisce al decreto Sblocca cantieri? Quali sono le sue perplessità?
Già di per sé è un terreno normativo molto complesso perché deriva da una articolata direttiva europea finalizzata a garantire la libera concorrenza delle imprese La storia italiana degli appalti e del diritto del lavoro testimonia i tentativi di inserire nelle norme sulle gare per le concessioni le cosiddette clausole sociali, cioè regole capaci di imporre almeno i minimi standard di tutela dei lavoratori, a cominciare dall’articolo 36 dello Statuto dei lavoratori si è giunti alla formulazione vigente del Codice degli appalti pubblici. Ma se si torna a un sistema in cui vige la regola del massimo ribasso, l’offerta più bassa vince, e la convenienza economica dell’offerta troppo spesso dipende dal risparmio sul costo del lavoro e dal ricorso a forma di lavoro illegale e sommerso. Se a questo aggiungiamo tutti i problemi di legalità e i rischi di infiltrazioni mafiose che ci sono nel settore ci rendiamo conto che, per quanto sia necessario “sbloccare i cantieri”, una regolamentazione e un controllo su chi svolge attività di interesse pubblico è fondamentale. Nel testo presentato dal governo invece, il pericolo corruzione è altissimo. Sono giurista, quindi per me la forma è sostanza. Le procedure sono fondamentali nelle attività pubbliche e private per garantire un indirizzo economico e un diritto sociale, la salvaguardia dei diritti fondamentali delle persone sul posto di lavoro, che altrimenti non potrebbero essere realizzati. Oltretutto gli appalti pubblici sono tra i sistemi individuati dalle istituzioni internazionali per assicurare sia il rispetto degli standard minimi di regolazione, sia il miglioramento delle condizioni di lavoro. Si tratta dell’idea di appalto pubblico destinato a promuovere imprese o enti che sostengano i livelli di tutela più alti, in altre parole di operare sul mercato una selezione dei soggetti che dal punto di vista della gestione del lavoro adottino comportamenti più virtuosi. Purtroppo l’urgenza spesso fa più danni di quanti sono i benefici e questo credo che sia proprio uno di quei casi.
La giurista Bonardi come valuta il reddito di cittadinanza introdotto dal governo?
Si può discutere sulle modalità e in quale contesto si cala lo strumento di un reddito minimo, ma l’idea di fondo è assolutamente condivisibile e necessaria. Quanto più il lavoro si fa precario e instabile, tanto più occorre garantire un sostegno di base alle persone.
La sinistra però è critica, eppure dovrebbe rappresentare le ragioni e le necessità dei più deboli.
Lo è per ragioni che storicamente si possono comprendere, ma non sono più valide alla luce dei cambiamenti in atto. Le perplessità, se non le ostilità, di alcuni settori del mondo sindacale e della sinistra derivano da un problema storico del nostro welfare che ha faticato a trovare parziali, sottolineo parziali, soluzioni. Il sistema infatti nasce sulla base dei modelli bismarckiani, cioè assicurativi-previdenziali, e le prestazioni destinate ai lavoratori sono finanziate con i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e non con la fiscalità generale. L’Inps però gestisce anche le misure di assistenza sociale ai cittadini, che dovrebbero essere finanziate dalla fiscalità generale. Riuscire a tenere distinte le prestazioni di previdenza e quelle di assistenza ha finora costituito un problema perché con i soli contributi dei lavoratori si sono storicamente finanziate anche le misure di assistenza. In altre parole, i lavoratori si sono pagati le proprie prestazioni previdenziali ma hanno sostenuto anche quelle dei non lavoratori, di tutti i cittadini, e financo dei lavoratori più privilegiati, le cui casse previdenziali andavano in debito. Da qui l’esigenza di tenere conti separati per non doversi trovare a tagliare prestazioni pagate dai lavoratori al fine di garantire assistenza alla parte di popolazione che non ha contribuito. L’assistenza va garantita a tutti, sia chiaro, ma va sostenuta dalla fiscalità intera. Ora, a leggere i bilanci dell’Inps, quei timori non hanno più ragion d’essere. Ovviamente è imprescindibile il rispetto della legalità e dei regimi fiscali soprattutto da parte delle imprese, perché in un sistema di evasione fiscale generalizzato, in cui proliferano condoni e sconti normativi che in cui mancano controlli effettivi si torna al punto di partenza: la fiscalità generale è sostenuta di fatto unicamente da pensionati e dai lavoratori. Bisognerebbe ragionare sulla tassazione progressiva. Una flat tax non fa che riportarci al punto di origine.
Altro tema caldo dell’agenda politica è il salario minimo garantito. La Costituzione italiana stabilisce il diritto a una retribuzione dignitosa.
In Italia le retribuzioni sono molto basse soprattutto nei settori in cui sono impiegati i lavoratori più vulnerabili, cioè le donne e i migranti. Secondo il dettato costituzionale, i giudici in caso di rivendicazioni di lavoratori che lamentano un salario molto basso fanno riferimento ai minimi stabiliti dai contratti collettivi. Questo però avviene solo ex post però, cioè solo dopo che il lavoratore è stato sottopagato, magari per anni, e solo su sua iniziativa. Ed è il lavoratore a dover dimostrare l’esistenza del rapporto di lavoro, quanto ha lavorato, quanto ha percepito e quindi il solo riconoscimento giudiziale del diritto a una retribuzione sufficiente è un’arma spuntata. Se poi aggiungiamo i tempi lunghi dei processi è facile capire che ottenere la giusta retribuzione per via giudiziale non è semplice né scontato. L’accesso alla giustizia e la conoscenza dei diritti del lavoro hanno fatto molti passi indietro in questi anni. Ormai siamo tutti consapevoli della necessità di un provvedimento mirato.
Perché allora il dibattito è così acceso?
La discussione riguarda soprattutto se il salario minimo debba essere quello stabilito dai contratti collettivi oppure se vada stabilito in cifra fissa dalla legge. La terza alternativa è il salario minimo in cifra fissa da applicare laddove non si applicano i contratti collettivi. Inoltre pesa la debolezza o addirittura l’assenza della contrattazione collettiva in numerosi settori del mondo del lavoro, molte imprese dettano unilateralmente parametri e regolamenti. In aggiunta si teme che non tutte le imprese siano in grado di sostenere il costo economico che deriverebbe dall’introduzione di un salario minimo e che questo possa determinare la chiusura di aziende oppure il passaggio a forme di lavoro illegale o addirittura all’economia sommersa. Io sono dell’idea che sia necessaria l’imposizione di un salario minimo stabilito dalla contrattazione collettiva ma protetto dalla definizione di una soglia minima per legge. Questo sosterrebbe anche la contrattazione collettiva nell’ottenere condizioni di lavoro dignitose. Del resto una soglia minima è già stabilita nel nostro ordinamento: si tratta dei 10 euro l’ora, quelli del libretto famiglia e dei buoni di lavoro occasionale, il minimo del nostro ordinamento. La contrattazione collettiva è importante perché tiene conto delle specificità di ciascun settore e consentirebbe ai settori in maggiore difficoltà di arrivare all’obiettivo, seppure in un arco di tempo più lungo. Le difficoltà nell’applicare un salario dignitoso non possono impedirci di risolvere il problema, è necessario mettere in campo gli strumenti efficaci anche utilizzando leve fiscali. Si tratta di pensare e immaginare, ma una soluzione va trovata.
Sui tema dell’accoglienza e dell’inclusione dei migranti tutte le democrazie europee sembrano in grande difficoltà, avanzano i populismi.
Nel nostro Paese, il bilancio del contributo che gli stranieri “regolari” danno al nostro sistema economico è in attivo, cioè gli oneri da loro versati, tasse e contributi previdenziali, sono maggiori dei benefici ricevuti. E non mi ha mai convinto l’idea che “rubino lavoro agli italiani”. Vero pure che gli stranieri spesso accettano condizioni di lavori che gli italiani rifiutano, ma la colpa è di chi li costringe a lavorare a quelle condizioni. E così torniamo al tema della legalità. Per di più, analisi e studi dimostrano che i mercati del lavoro non funzionano come vasi comunicanti: togli lavoro agli italiani e lo trovano gli stranieri. Allo stesso modo se lasci a casa gli anziani non crei occupazione per le nuove generazioni. Stiamo affrontando da tempo il grave problema della disoccupazione giovanile, ma la situazione è analoga e drammatica per gli ultracinquantenni e per le donne. Insomma, se un’economia funziona c’è lavoro per tutti, diversamente non ce n’é per nessuno.
Purtroppo quando si ha la percezione che la coperta sia troppo corta, e quindi si prova a tirarla da una parte o dall’altra, si scatenano guerre tra poveri: i più deboli contro i pallidamente garantiti, che a loro volta se la prendono con chi, ritengono, ha qualche tutela in più. E così si perde di vista il problema fondamentale: l’incremento in tutto il mondo e dunque anche in Italia della diseguaglianza sociale, cioè il divario tra chi trae profitto dalle attività economiche e chi contribuisce a svolgerle. Inoltre si sono affermate nuove forme di guadagno da parte delle imprese e nuove forme di sfruttamento di chi ha un’occupazione: il furto del tempo, cioè le pause non retribuite, oppure gli impieghi dove si utilizzano le tecnologie digitali in cui tutti i rischi di impossibilità di svolgimento della prestazione che storicamente erano a carico dell’imprenditore, cioè colui che trae profitto dall’attività lavorativa, oggi sono interamente scaricati sui lavoratori. Nei magazzini della logistica i lavoratori si devono presentare mezz’ora prima lavoro per ricevere istruzioni di incarico, orario non remunerato. Poi ci sono gli stage, le attività gestite interamente da volontari come nel caso di Expo 2015 e il lavoro di pubblica utilità, adesso rivitalizzato con l’introduzione del reddito di cittadinanza.
E poca o niente crescita, dunque.
Sul tema crescita, io ho una visione minoritaria. Ritengo sia prevalsa una lettura riduttiva del concetto di crescita, conteggiata solo in termini di avanzamento del Pil. Siamo ossessionati dalla crescita in questo senso, mentre fior di studi di premi Nobel spiegano, e da decenni ormai, che misurare così il Pil non ha senso. Ricordo, a titolo di esempio, l’inserimento nel computo del Pil di attività illegali e del gioco d’azzardo che non portano alcun vantaggio alla collettività. Si dovrebbe piuttosto ragionare in termini di crescita del benessere, inserendo ben altri indicatori, e indirizzare quindi l’attività economica verso il miglioramento di indicatori ben diversi dal semplice aumento di produzione del Paese. Siamo intossicati da una quantità di prodotti inutili, dannosi per l’ambiente e inseguiamo stili di vita insostenibili, promossi proprio in nome della crescita.
Poca sensibilità anche del centrosinistra?
Ogni volta che si pone la questione ambientale entra in gioco il paradossale conflitto tra tutela dell’ambiente e occupazione, eppure anche in questo caso fior di studi ci dicono che l’investimento nella sostenibilità ambientale potrebbe essere potenzialmente in grado di creare molti più posti di lavoro di quanti se ne perdano, e addirittura risolvere in buona parte il problema della disoccupazione. I “Friday for the future”, con migliaia di giovani che scendono in piazza per salvare il pianeta, sono un buon segnale di cambiamento di approccio. C’è una invece una sorta di miopia sia da parte di molte imprese, alla ricerca di immediati profitti, sia della politica. Accade da tempo e accade ancora. Si gestiscono i problemi in termini emergenziali, arrabattandosi. Per esempio non è stata fatta cessare la produzione dell’Ilva a Taranto, nonostante l’inquinamento del territorio e i rischi per la salute di lavoratori, in nome dell’occupazione. E ora i nodi sono venuti al pettine. Insomma manca, e sistematicamente, una visione chiara e di lungo periodo, piani sull’autosufficienza energetica sono assenti o fanno acqua da tutte le parti, non ci sono possibilità di investimento in settori rilevanti. Al contrario della Germania. Non si crea occupazione con la flessibilità del fattore risorse umane ma con politiche economiche generali e coerenti che portino il Paese a un certo tipo di sviluppo. Diseguaglianza sociale e questione ambientale vanno di pari passo perché hanno le medesime radici, credo siano le priorità politiche su cui oggi è indispensabile concentrarsi per uscire da una situazione economica molto molto grave.
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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