«Non si può credere che i problemi del parlamento, gravi e denunciati in questi anni da tutti, possano essere risolti con il taglio di quelle che qualcuno chiama, erroneamente e rozzamente, “poltrone”. Per quel che mi riguarda, non intendo scendere sul terreno di chi parla di “poltrone”, “seggi” o “strapuntini”. Il vero problema che andrebbe affrontato è quello della perdita di ruolo delle assemblee legislative, che si è determinata a partire dall’inizio degli anni Novanta». Con Gaetano Azzariti, docente di diritto costituzionale all’università La Sapienza di Roma, ragioniamo sul referendum confermativo prossimo venturo – si terrà il 20 e 21 settembre – che chiamerà gli italiani a pronunciarsi sulla riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, portando i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Un taglio netto che, chissà per quale arcano motivo, dovrebbe restituire lustro al parlamento.
Professor Azzariti, non ritiene che con l’election day il dibattito sul tema referendario sarà mortificato, soffocato dalla campagna elettorale per i Comuni e le Regioni? Da un recente sondaggio Ipsos, emerge che solo il 28% degli elettori sa che a settembre si terrà il referendum costituzionale. A conferma, se ce ne fosse bisogno, di quanto gli elettori siano poco informati della posta in gioco.
Il referendum rappresenterà l’ultimo atto di tutta una riforma costituzionale che è stata caratterizzata, da un lato, da molta superficialità, dall’altro, da una dose massiccia di tatticismo. Per quanto riguarda la data sono assolutamente consapevole della situazione di emergenza determinata dal coronavirus e sono stato del tutto concorde sulla necessità di rinviare questo voto, perché non si poteva certo andare alle urne in piena emergenza sanitaria. Ma proprio per questo sarebbe stato opportuno separare votazioni di natura essenzialmente diversa: da un lato le scelte di politica contingente, che sono sì importanti, ma riguardano la vita ordinaria dello Stato, dall’altro la riforma costituzionale che investe il futuro del nostro Paese e il suo grado di democrazia, non soltanto le prossime elezioni. Aver mischiato questi due diversi generi di votazioni in un sol giorno con l’insopportabile argomento demagogico dei risparmi, è un atto, se non di malafede, senz’altro di una grave superficialità. Si stanno mettendo le mani su uno dei cuori pulsanti della Costituzione, ovvero il parlamento, e la cosa viene fatta passare come se fosse ordinaria amministrazione. Chi si curerà di spiegare, in pieno agosto, agli elettori, la natura del quesito referendario e quello che comporterà il sì?
Verrebbe da dire che nel 2016 il dibattito referendario sulla cosiddetta riforma Renzi, almeno fu intenso e partecipato. Le forze politiche che hanno detto sì alla riduzione dei parlamentari appaiono sostanzialmente silenti.
Guardi, si poteva pensare tutto il male possibile delle riforme costituzionali precedenti, soprattutto dell’ultima, fortissimamente voluta da Matteo Renzi. Bisogna però dare atto ai promotori di quella riforma, che è poi stata bocciata sonoramente dagli elettori, che vi fu nel Paese una impegnata e anche appassionata discussione sulla Costituzione, una discussione che non si vedeva da decenni. E parte dell’esito finale fu determinato, oltre che dalla personalizzazione che l’allora segretario del Pd volle dare alla competizione, anche da un dibattito sul merito delle modifiche costituzionali che si volevano introdurre. Oggi questa discussione – temo – non ci sarà. E non ci sarà anche per un certo imbarazzo di chi, il Partito democratico e Liberi e uguali, per ben tre letture aveva ripetutamente votato contro il provvedimento nei suoi primi passaggi parlamentari, e con la nascita del nuovo esecutivo con il Movimento 5 Stelle ha cambiato fronte, sacrificando le sue precedenti opinioni e sostenendo che il “contesto” era cambiato. E questo, francamente, impressiona un po’.
I sondaggi dicono che sarà un referendum scontato, che il sì vincerà a piene mani….
Questo rischio c’è, è inutile nasconderselo. È possibile e altamente probabile che prevarrà l’impulso sulla ragione. E perciò dovremmo sin da ora porre a tema tutte le questioni del dopo referendum, cercando di rivendicare la nostra coerenza rispetto alle scelte opportunistiche che stanno prevalendo. Sin da ora dobbiamo dire alle forze politiche che hanno messo mano alla revisione costituzionale che, dopo il referendum, non avranno più scuse. Dicono di voler un parlamento più efficiente. Bene. Se però non intervengono, oggi, sui regolamenti, sui rapporti tra parlamento e governo; se non restituiscono alle Camere l’autonomia di cui hanno bisogno come l’aria; se non eliminano i tempi contingentati, gli impedimenti che si sono accumulati in questi anni e che feriscono il parlamento e impediscono una discussione degna di questo nome; se non daranno uno stop all’abuso delle questioni di fiducia, ebbene dimostreranno che questo referendum aveva un altro scopo: neppure tanto i risparmi e il taglio di “poltrone”, che sono categorie che col diritto costituzionale non hanno nulla a che fare, ma espressamente un ulteriore passo verso l’avvitamento della crisi del parlamento e l’allontanamento di strati sempre più larghi di cittadini dalla partecipazione alla vita politica del Paese. Se c’è qualcuno che pensa che agitando le forbici taglia poltrone si potrà rilegittimare davanti ai propri elettori e riguadagnare qualche punto in più nei sondaggi, noi dovremmo sfidarlo a discutere del merito delle proposte. Di tale discussione sugli effetti che conseguono all’approvazione del quesito referendario dovrebbero essere interessati in primo luogo i riformatori della Carta. Il fatto invece che siano sostanzialmente silenti evidentemente fa sorgere il sospetto che la bontà di questa revisione costituzionale sia in realtà solo uno slogan, pura demagogia, e che i mali del parlamento non saranno assolutamente risolti dall’esito del referendum. Le poltrone così come i presunti risparmi che si otterranno dalla riduzione del numero dei parlamentari sono falsi problemi, demagogia allo stato puro. Perché tutti sanno che la crisi del parlamento ha radici molto più profonde e diverse. Tutti sanno cioè che la crisi del parlamento è dovuta al fatto che è stato espropriato dei suoi poteri, in parte dal governo e in parte dall’Europa.
Molti costituzionalisti ritengono che il taglio dei parlamentari comporti un vulnus alla democrazia. Lo pensa anche lei?
No. Io non penso questo. Sarei anche a favore di una riduzione del numero dei parlamentari che si riflettesse sulle funzioni del parlamento. Aver scollegato il numero dei parlamentari dalla crisi di Camera e Senato e dalle loro funzioni: questo è stato l’errore imperdonabile dei promotori. E glielo dimostro.
Prego.
Il Senato degli Stati Uniti d’America, che certamente è un organo legislativo autorevole che ha più poteri del suo omologo italiano, conta appena 100 membri. Un numero molto ridotto. Uno dei parlamenti più importanti e significativi in Europa, il Bundestang, la Camera bassa tedesca, è composto da 700 parlamentari. Entrambi questi parlamenti svolgono egregiamente il loro lavoro al di là della loro grande differenza numerica, 100 e 700. Quello che li caratterizza sono le funzioni che esercitano. In quei Paesi la discussione parlamentare ha un suo rilievo, che nessuno si sogna di mettere in discussione: discutono animatamente e responsabilmente votano. Il nostro parlamento, al contrario, è in crisi perché, sommerso dai decreti legge, non svolge più attività legislativa; non svolge più attività di controllo, perché invece di sottoporre a controllo gli atti dell’esecutivo è, semmai, esso stesso che viene sottoposto a controllo dal governo che gli impone a raffica le questioni di fiducia. Negli ultimi due anni la legge finanziaria è stata approvata in pochissimi giorni senza uno straccio di discussione. I parlamentari hanno votato a comando, verrebbe da dire ad occhi chiusi. E, per concludere, le assemblee legislative non svolgono nemmeno attività di interlocuzione con l’Europa, che è la vera altra grande funzione che dovrebbe esercitare un parlamento soprattutto di questi tempi. Il nostro Presidente del Consiglio, per citare una questione all’ordine del giorno come il Mes, il Meccanismo europeo di solidarietà, si è presentato davanti alle Camere limitandosi a fornire una comunicazione, per evitare ogni discussione e un voto eventualmente sgradito. Questo è il segno forte della crisi delle istituzioni rappresentative. È evidente che così si svilisce il ruolo del parlamento, lo si riduce ad una semplice funzione notarile. Certo, verrebbe da dire con una provocazione, che un parlamento così umiliato poco importa se ha 1.000 rappresentanti o 100. Per un parlamento ghettizzato e ridotto ad un ruolo ancillare anche i 400 deputati e 200 senatori sono ridondanti; come qualcuno propose in passato, bastano i capigruppo! Dubito che questo svuotamento di funzioni delle assemblee elettive possa trovare soluzioni solo grazie alla riduzione dei seggi. Eppure vediamo che il taglio del numero dei parlamenti apre e chiude tutto il ragionamento, è diventato l’alfa e l’omega dei novelli riformatori.
Insomma, professore, all’interno di una discussione vera sulle funzioni del Parlamento, e che da questo tema parta, lei sarebbe favorevole ad una riduzione del numero dei parlamentari?
Lo ritenevo nel passato e lo ritengo tuttora: bisognerebbe fare una riforma radicale del parlamento e passare dal bicameralismo perfetto ad un sistema monocamerale. Questa è una ipotesi su cui gli studiosi più avvertiti si confrontano da anni. Ricordo che in Assemblea costituente il tema del monocameralismo fu affrontato con competenza e passione. A riproporlo negli anni 80, di fronte ai primi scricchiolii del bicameralismo perfetto, fu un politico autorevole come Pietro Ingrao e uno studioso raffinato come Stefano Rodotà. Ma certo non agitavano sulla piazza forbici di cartone, partivano, al contrario, dalla necessità di riproporre con forza la centralità e rivitalizzazione del parlamento.
Pd e Leu hanno giustificato la nuova posizione con il fatto che comunque il via libera alla riduzione dei parlamentari era subordinato ad una serie di correttivi al testo da approvare successivamente, ovvero: l’abbassamento a 25 anni dell’elettorato passivo e a 18 di quello attivo per il Senato; il superamento della base regionale per l’elezione del Senato, in favore di una base circoscrizionale; la riduzione da 3 a 2 i delegati regionali che partecipano all’elezione del presidente della Repubblica. Ad oggi quei correttivi ancora non sono stati approvati. Li ritiene comunque sufficienti?
Voglio essere chiaro. I contrappesi che sono stati richiesti dalle opposizioni di ieri, oggi maggioranza, per cambiare opinione a me sembrano assai deboli. Quei correttivi non garantiscono il pluralismo politico e istituzionale. Una legge costituzionale che interviene sulle circoscrizioni del Senato eliminandole, e una modifica del numero dei delegati regionali per le elezioni del capo dello Stato, portandoli da 3 a 2, difficilmente possono essere sbandierate come delle conquiste. Ma soprattutto, insisto, che c’entrano queste misure con le funzioni del parlamento? Nulla. Se proprio ci si voleva mettere sulla strada della riduzione dei parlamentari si poteva e doveva affrontare finalmente la questione delle funzioni parlamentari e chiedere una rigorosa legge elettorale proporzionale. Se tu riduci il numero dei parlamentari così sensibilmente è chiaro che le ragioni di ingovernabilità, sempre agitate, non reggono più. A questo punto avrebbero dovuto prevalere le ragioni di rappresentatività contro il mito della governabilità.
Invece che è successo?
La legge elettorale su cui hanno trovato – e sarà poi tutto da vedere – un accordo, sostanzialmente prevede sì una distribuzione proporzionale, ma con sbarramento al 5 per cento. Non sono contrario in via di principio a uno sbarramento finalizzato ad eliminare un eccesso di frammentazione politica. Ma insisto sul termine “eccesso”. Sottolineo inoltre che sbarramenti elevati come quello del 5 per cento possono operare in sistemi con un numero di parlamentari molto esteso. Il caso classico è quello tedesco; in Germania c’è lo sbarramento al 5 per cento, ma per l’elezione di oltre 700 parlamentari. Lo stesso sbarramento del 5 per cento con i numeri che uscirebbero dal referendum diventerebbe proibitivo per tutte le formazioni politiche, non solo piccole ma medio-piccole, a tutto vantaggio dei partiti maggiori. Questo è tanto vero che – nella consapevolezza che si sta sacrificando fortemente la rappresentanza politica – è stato previsto il diritto di tribuna. Ma il diritto di tribuna non è un diritto di rappresentanza.
C’è poi l’abbandono del collegio uninominale per la generalizzazione delle liste bloccate.
Anche qui mi interrogo su cosa voglia dire questa modifica ai fini della garanzia del pluralismo istituzionale e della rappresentanza. E la riposta che mi do è che la generalizzazione delle liste bloccate in qualche modo è uno strumento non di rappresentanza popolare ma che rafforza le scelte dei partiti politici. Tra l’altro ponendo delle criticità costituzionali da cui potrebbero un domani sortire sorprese dalla Consulta. Liste bloccate troppo lunghe sono incostituzionali perché espropriano la scelta degli elettori e di fatto con questa legge eliminando i collegi uninominali tutte le elezioni saranno con liste bloccate.
La debolezza del parlamento non è figlia anche della selezione al contrario della classe politica in questo Paese che premia i mediocri e gli yes man?
Questo è un problema reale. Bisognerebbe fare critica e autocritica e parlare finalmente e con coraggio del fallimento di quella che è stata chiamata democrazia maggioritaria, che ha mosso i suoi passi a partire dal 1993 e che ha avuto tra i suoi effetti perversi quello di addivenire non ad un parlamento più autorevole, ma del tutto marginale e sostanzialmente irresponsabile. La democrazia maggioritaria con lo strascico di sistemi elettorali a liste bloccate ha portato al “parlamento dei nominati”, dove quello che contava non era la competenza, il rapporto col territorio, ma il gradimento del capopartito, quasi capobastone. Certo, non si può rimettere il dentifricio nel tubetto, non è immaginabile tornare alle scuole di formazione politica di un tempo, modello Frattocchie, ma tutti dovrebbero prendere atto che è urgente è necessaria una selezione della classe politica su basi nuove e che lo slogan uno vale uno non solo è sostanzialmente demagogico, ma non è nemmeno espressione del principio di eguaglianza. Il principio di eguaglianza deve in qualche modo essere articolato e misurato anche con le capacità della politica. Max Weber diceva che la politica è una professione e una vocazione. Ora mi sembra che tutto dimostri come la nostra classe politica non abbia grande vocazione e ancora meno abbia una preparazione.
Pubblicato giovedì 2 Luglio 2020
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