Boris Pahor (da https://it.wikipedia.org/wiki/Boris_Pahor#/ media/File:Boris_Pahor_par_Claude_Truong- Ngoc_juin_2015.jpg)

Prosecco (Trieste). È una fresca e assolata mattina di fine aprile sul “suo” golfo e Boris Pahor mi accoglie di buon’ora nella casa affacciata su Trieste, sempre “bella e scontrosa”. C’è il blu del mare, alle spalle la montagna, l’altopiano carsico, e sotto il verde brillante e i colori della fiorita terrazza pendente. Più volte segnalato all’Accademia di Svezia per il Nobel per la letteratura, Pahor è conosciuto anche all’estero come l’autore di Necropoli, lo sconvolgente e crudo memoir sulla sua esperienza nei campi di concentramento nazisti in cui descrive minuziosamente «l’abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana e nella libertà personale». Paragonato dai critici letterari a scrittori come Primo Levi, Robert Antelme e al premio Nobel Imre Kértesz, Pahor ha una produzione vastissima, non solo di opere di narrativa: «sono un autore maturo – scherza – scoperto in Italia una manciata di anni fa».

Boris Pahor ha quasi 106 anni, li compirà in estate, eppure è lucidissimo e la sua verve è brillante, preziosa come di chi anche in poco tempo deve dare tutto se stesso per testimoniare, insegnare all’altro ma senza formalità, anche se la sua aiutante Vera lo chiama sempre professor. «Due anni fa, mio figlio e mia figlia mi hanno proposto un aiuto, perché un giorno sono caduto», quasi si giustifica, però quando lo incontro nel primo mattino ha già scritto una pagina e mezza di riflessioni sul pensiero di Spinoza, alla macchina da scrivere sistemata su di un tavolo della cucina, circondata da fogli e altro materiale. «Questa settimana mi sono stancato per scrivere il mio pensiero su Gesù e sulla religione cattolica». 

Ma è un nuovo libro?

No, per ora. Ho scritto come giudico l’attesa della quaresima, la morte e la resurrezione. Mi attengo al pensiero che già avevo, seguo inoltre Renan che è un filosofo francese molto importante che ha pubblicato 13 edizioni del suo libro della vita di Gesù. Ma in realtà mi voglio concentrare su Spinoza e su quello che ha scritto del Vecchio Testamento, che non riconosce, e degli ebrei. Ho lavorato per un anno e mezzo battendo a macchina e ho scritto molte cose, degli incontri, delle mie giornate. Se poi qualcuno si interesserà a questo materiale e vorrà pubblicarlo ne sarò lieto. Ad ogni modo adesso ho un occhio solo che funziona – dice mentre entriamo in un’altra stanza con una libreria ben fornita e il letto – devo ricordare quello che voglio annotarmi. A Prosecco ho una grande biblioteca che stanno catalogando: mi hanno dato una sala di circa sei metri di lunghezza per mettere tutti i miei volumi. Questi libri che vede qua sono tutti di mia sorella, ci sono foto di me, anche disegni e caricature che lei voleva mettere in biblioteca: io non ho toccato niente. Se ne occuperanno i miei due figli. Una volta erano un regalo le biblioteche, oggi le persone non si interessano più ai libri.

Ha una memoria formidabile professore.

Sì, per il passato. Per le cose che accadono adesso invece la mia vecchiaia toglie via tutto.

Eppure sono qui per un suo commento sui tanti episodi e gesti provocatori – non solo a ridosso del 25 aprile – da parte di gruppi neofascisti italiani o di persone che dicono di ammirare Mussolini ancora oggi, senza conoscere la storia e i crimini del Ventennio. Lei è nato nel 1913 a Trieste, ne sa qualcosa. Abbiamo dimenticato che un secolo fa c’erano i prodromi del periodo fascista… che ne pensa?

Io dico: viva la libertà, viva la giustizia, viva la pace, e viva l’amore perché senza l’amore non si combina niente. I fascisti hanno messo in prigione tutti quelli che erano per la libertà, non per la dittatura. Quindi la principale ragione del fascismo è la dittatura e l’autorità che si dà a uno solo. Un unico padrone del Paese, e tutti gli altri soggetti alla sua autorità: questo è il fascismo. Essere assoggettati a questo tipo di potere quando invece siamo arrivati a essere cittadini liberi è da pazzi. La rivoluzione francese ha eliminato i reami, il popolo è diventato libero, poi di nuovo è arrivato il buio dei fascismi. Oggi dichiarare che noi siamo per un comandante solo che faccia ordine è contro lo sviluppo della libertà umana. Sarebbe giusto fosse proibito un elemento che dice cose del genere, un’autorità pubblica che si richiami così apertamente a un modo di fare autoritario, perciò dico ai cittadini di non accettarla, di non votarla.

I cittadini possono scegliere?

Nei momenti che precedono una presa di potere autoritaria, di solito, le autorità si sono dichiarate rispettose di chi comanda il Paese. Quando l’autoritarismo si compie vuol dire che un uomo solo ha in mano le istituzioni ed è padrone di tutto il potere dello Stato nello stesso istante: chi fa questo distrugge già prima di andare al potere l’autorità del popolo eliminando la libertà. Non si può far altro che esser contro.

 Nel suo capolavoro Necropoli lei scrive: “Già in gioventù ogni illusione ci era stata spazzata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci eravamo gradualmente abituati all’attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico”. Prima che il fascismo fosse riconosciuto come tale.

Il fascismo viene a Trieste in piazza Grande a dichiarare questo suo cambiamento (ben prima delle leggi razziali e del discorso di Mussolini nel 1938 nel capoluogo giuliano, ndr) perché la città dopo la prima guerra mondiale era diventata una città italiana. Non tutta Trieste era italiana, la popolazione parlava un dialetto italiano ma c’erano anche gli altri: noi sloveni, i greci che hanno una bella chiesa, i serbo-ortodossi che hanno un’altra bella chiesa dall’altra parte del canale, poi gli ebrei che hanno una sinagoga tra le più grandi d’Europa. È certo che la dittatura nasce a Trieste, Hitler dice: “Mussolini è stato un maestro per me”. Poi bisogna ricordare un’altra cosa: nel 1929 il Duce firma i Patti lateranensi ed è come se avesse regalato alla Chiesa cattolica un mucchio di soldi; il Papa di allora dichiara Mussolini “un messo mandato da Dio” e coopera con lui, quindi il fascismo viene sostenuto dalla chiesa di Roma, anche attraverso la guerra in Etiopia, per esempio.

Secondo lei gli italiani hanno maturato gli anticorpi al fascismo?

Anche persone molto colte in Italia non sanno bene cosa è stato il fascismo. Quando iniziavo a girare per parlare del mio libro Necropoli (pubblicato in italiano dallo sloveno nel 2005, ndr) tutti ovviamente volevano sapere del nazismo e dei “campi di annientamento” come li chiamo io. Un giorno incontrai una donna che si occupava di editoria e le dissi: lei è venuta da me per parlare di nazismo perché tutti ne parlano, ma io devo cominciare dall’inizio e in principio erat fascismus. Le ho detto: lei mi scuserà ma son sicuro che il fascismo non lo conosce mentre andrebbe conosciuto, invece gli italiani lo lasciano da parte. Quando ho spiegato alla mia interlocutrice del fascismo, di cosa ha fatto a me, di come l’ho vissuto io sloveno a Trieste, dapprima ha avuto una specie di rossore o di vergogna come se io le avessi fatto una iniezione di qualcosa di cattivo, invece poi pian piano mi ha ascoltato.

L’incendio del Narodni dom (Casa del popolo/della nazione) messo a fuoco dalle squadracce fasciste il 13 luglio 1920

Nel 1920 a Trieste i fascisti hanno dato alle fiamme il Narodni Dom (Casa della Cultura slovena) di cui lei scrive in Rogo nel porto e che vive in prima persona da bambino. Contro la minoranza slovena il fascismo per esempio ha compiuto una delle violenze più dure: vietare l’uso della sua lingua materna quindi dell’identità. In Necropoli scrive che “tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri”.

Il divieto della lingua e altre violenze fasciste contro la minoranza slovena mi colpirono come una malattia psicologica. A scuola ero presente ma distratto: mio padre mi iscrisse al biennio commerciale perché avevo fatto con l’aiuto del maestro l’esame di quinta. Alla fine dell’anno però fui insufficiente in tutte le materie e mio padre mi fece ripetere la prima. Non poter parlare la propria lingua madre fu un trauma. Non so cosa dirà lei di me perché io di scoperte nuove non ne ho: può scrivere che Boris Pahor si è sempre interessato alla popolazione slovena. Sono semplicemente un triestino che ha vissuto il fascismo.

La violenza psicologica di stampo fascista che applica il divieto di una lingua o di una cultura è ancora molto attuale in altri posti del mondo.

Sì, questo tipo di azioni le ho spiegate a scuola quando ero professore di italiano. Prenda Dante per esempio, anche lui ne parla, parla di quelli che sono così vigliacchi da amare piuttosto un’altra lingua invece che la lingua italiana: lui non usa il termine lingua ma dice “il mio volgare”. Il volgare infatti è la lingua italiana perché parla al volgo, al popolo e allora lui dice: “la lingua italiana è brutta solo sulla lingua meretrice di questi adulteri”. Dante ama la propria lingua perché i suoi genitori quando si amavano e quando lo hanno concepito parlavano questo volgare. Dante aveva grande rispetto per la lingua madre, lo stesso che ho io. M’han tolto le scuole slovene, hanno tagliato fuori completamente la lingua slovena dalla vita pubblica e io mi sono opposto: avevo 12 anni.

18 settembre 1938, Mussolini a Trieste annuncia le leggi razziali già firmate dal re

Professore, nonostante la violenza fascista vissuta sin da bambino e la deportazione nei campi di concentramento nazisti, lei conserva un approccio positivo nel guardare al mondo. Ha un messaggio da consegnare ai giovani sulla vita?

Ho sempre preso la vita come una cosa positiva, anche se alla fine bisogna aspettare di andare all’altro mondo. Però è essenziale conoscere la verità di questo mondo: l’essere della natura, della vita che, come è dimostrato, nasce dalle piccole cose. Amare la vita è una contraddizione se si vuole, però non si può dire che la vita non sia bella, quando è vissuta senza pericoli e senza attacchi anche di diverse malattie. 

E senza violenza o guerre.

Certo, tutti i grandi re e i grandi comandanti sono stati uomini che hanno ucciso, che hanno portato distruzione. Per me è utile vivere la vita fino a che si è sani o fino a quando si può fare un’attività intelligente, cioè si può insegnare e immaginare che la propria vita sia un bene e un regalo per gli uomini. In molti casi infatti la vita è un regalo per gli altri che si servono delle vicende e delle esperienze altrui, anche dolorose, per imparare.

Antonella De Biasi. Giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale La Rinascita della sinistra. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)