Incontrandolo per la prima volta in occasione del 70° della guerra di Liberazione, anno 2015, Clemente Ferrario si lasciò andare a cento ricordi che, forse, con tanto fervore, si condividono solo quando si percepisce la brevità del tempo che resta; quando ogni parola vibra di una struggente lucentezza e acquista il valore di un messaggio affidato al futuro.
Nello studio che lo aveva visto scrivere e lavorare, Ferrario mi disse del bambino che era stato, orfano di padre, cresciuto tra Bognassi, Varzi, Bobbio e Pavia, educato al sentimento della libertà dall’oppressione dai due zii socialisti. Mi narrò come, adolescente, fosse stato ammaliato dalle letture di Tolstoj, forse trovando nelle storie degli “ultimi” del grande romanziere l’eco della sua vita un po’ triste di ragazzo di famiglia povera.
Come deponendo i propri ricordi su un invisibile asse, quasi a replicare l’ordine rigoroso dei propri libri sugli scaffali, tra due inverni e due primavere, mi andò raccontando come, nemmeno diciassettenne, aprì il proprio animo a un compagno di scuola, pronunciando – anno 1942 – la parola proibita per la quale era necessario mettere in gioco la vita: comunismo.
«Il comunismo – mi andò ripetendo – ha bisogno di una organizzazione-partito, ed io, in anni di guerra, clandestinità e paura, proprio quel partito e gli uomini che lo rappresentavano, andavo cercando».
E allora mi raccontò di questi uomini, al fianco dei quali visse il proprio tempo migliore: il rivoluzionario di professione, Beniamino Zucchella, già combattente volontario in difesa della Repubblica di Spagna, che lo volle, studente diciottenne, a Varzi tra i partigiani garibaldini, incaricandolo di amministrare, per dare esempio di onestà e rigore, la repubblica della zona libera; lo studente in filosofia, il comandante partigiano Domenico Mezzadra, cui il ragazzo Ferrario guardava con ammirazione e invidia, essendo l’Americano (questo il nome di battaglia di Mezzadra) l’unico a far fuoco con la mitraglia; il dirigente comunista della vecchia guardia, Carlo Lombardi, detto Remo, accanto al quale il giovane Ferrario nel suo primo comizio a Varzi – 7 novembre 1944 – salutò l’anniversario della rivoluzione leninista; e poi i compagni del partito che, sconfitto il fascismo, cominciava la lunga marcia nelle istituzioni dello Stato borghese, investendo se stesso, e le proprie risorse migliori, nella sfida della democrazia progressiva disegnata da Togliatti sin dalla svolta di Salerno.
Ormai immobilizzato dal male, mi andava indicando i libri di cui era autore, per poterli ancora sfiorare, ad uno ad uno sapendone l’esatta collocazione sugli scaffali che fittamente riempivano lo studio, e la casa.
Mostrava un infantile stupore nello scoprire che già li avevo letti e, quasi riversando tutta la superstite energia in un movimento rapido e lieto delle mani, altrimenti distese sulle gambe malate, si lasciava vincere da una commossa meraviglia, nello scoprire che, nonostante la differenza delle generazioni, non solo ne ricordassi i passaggi, ma ne avessi compreso – così diceva – il «cuore nascosto», tanto che, sedendogli accanto, un pomeriggio dividemmo le lacrime al ricordo del compagno più amato, Carlo Barbieri, Ciro, il partigiano di Rivazza di Montebello, di pochi anni più grande di lui: «più di un amico, il mio fratello dell’anima».
Nato il 25 luglio 1926. Clemente Ferrario ci ha lasciato nel febbraio 2018. Tra queste due date che abbracciano tanta parte della storia del “secolo breve”, Ferrario compie la propria esperienza di vita: da ragazzo antifascista, a giovanissimo partigiano nella libera repubblica di Varzi, a comunista militante iscritto al Partito dal novembre 1943, a dirigente e funzionario del Partito comunista, ad avvocato del più grande sindacato italiano, fino ad impegnare un importante scorcio di vita negli studi, nelle ricerche di storia, nelle opere di scrittura e narrazione.
Queste date però lasciano fuori l’immagine che mi resta di lui: quella del vecchio resistente che mi chiese di salire su uno sgabello per staccare dalla parete, e farmene dono, la foto incorniciata di Ciro Barbieri con l’arma a tracolla, e nel salutarmi – che fosse l’ultima volta non potevamo saperlo – nell’ottobre 2017, levò il pugno chiuso comunista.
Questo saluto altro non era se non un abbraccio fortissimo alla scelta di vita mai rinnegata che aveva fatto di Clemente Ferrario l’uomo che Clemente Ferrario è stato.
Annalisa Alessio, vicepresidente del Comitato provinciale Anpi Pavia
Pubblicato venerdì 1 Marzo 2019
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