Nazzareno Ciofo, scomparso nel 2008, nei giorni dell’armistizio era militare della Divisione “Venezia” operante nei Balcani. La Divisione “Venezia” con la Divisione “Taurinense”, l’8 settembre ’43, rifiutando la resa a tedeschi e fascisti, costituirono la Divisione Italiana Partigiana “Garibaldi” che partecipò alla lotta di Liberazione nella ex Jugoslavia. Dei 22.000 uomini che costituivano le due divisioni, circa la metà caddero combattendo o vennero dichiarati “dispersi”. Nella ex Jugoslavia operarono con la Resistenza anche la Divisione Partigiana “Italia” e la Divisione “Garibaldi Natisone” e, oltre ad esse, altre venticinque circa brigate, per un totale di 40.000 uomini.
A distanza di tanti anni è ancora vivo in me il ricordo del momento storico dell’annuncio dell’armistizio. Ero a Berane, una cittadina del Montenegro, ed ero in forza alla 76ª Compagnia Artieri della Divisione di Fanteria “Venezia”, addetto al carro-officina del reparto.
Non mi lasciai prendere da facili ottimismi e mi resi subito conto della nuova situazione, soprattutto nei confronti della gente del luogo che chiaramente ci era ostile. Anche i tedeschi si fecero sentire con il lancio di manifestini di propaganda e con bombardamenti aerei. Una mattina, alle prime luci dell’alba, ci accorgemmo che il presidio di Berane era accerchiato da migliaia di Cetnici (nazionalisti montenegrini), che, senza ombra di dubbio, dimostravano chiaramente di volere le nostre armi per combattere contro i partigiani di Tito.
Non sono né uno scrittore né uno storico ma mi affido al ricordo con lo spirito di un garibaldino che dopo l’8 settembre fece parte della gloriosa Divisione partigiana «Garibaldi». Di quei drammatici giorni ricordo che insieme al Ten. Pelagalli, responsabile del carro-officina del reparto, dove io stesso prestavo la mia opera, ci prodigammo, facendo l’impossibile per riparare un grosso compressore abbandonato da chi sa quale ditta italiana nei pressi del nostro carro-officina. Portato a termine, con successo, il lavoro, ci unimmo ad altri genieri e col prezioso ausilio del compressore cominciammo subito a lavorare per il livellamento di un vasto campo allo scopo preciso di trasformarlo il più presto possibile in un campo dl aviazione di fortuna.
Infatti, come era stato previsto, ci fu di grande utilità, perché dopo un paio di giorni vi atterrò un aereo proveniente da Bari portando ordini e documenti diretti al Comando di Divisione. Purtroppo poco dopo piombò sul campo un caccia tedesco che lo mitragliò danneggiandolo, però solo leggermente.
Subito dopo il pilota del nostro aereo, il Ten. Pelagalli ed il sottoscritto andammo a constatare i danni subiti e poiché era stato danneggiato il condotto dell’alimentazione lo smontammo per ripararlo in officina. A lavoro ultimato, mentre ci accingevamo a rimontare il pezzo, altri due caccia tedeschi comparvero improvvisamente nel cielo accanendosi ancora sui nostro aereo, completando l’opera che avevano iniziato e distruggendolo completamente. Ci salvammo riparandoci dietro le ruote d’acciaio del compressore, che per nostra fortuna stava ancora ai bordi del campo, coprendoci dal mitragliamento degli aerei diretto anche verso di noi. Ricordo ancora gli ultimi giorni di permanenza a Berane, prima che la nostra unità prendesse la via delle montagne per iniziare la lotta contro il nazifascismo. Fu allora che presi l’iniziativa di costruire delle grosse bombe in lamiera di ferro, grazie ai mezzi reperiti nel carro-officina, all’aiuto dei miei compagni e soprattutto al tritolo che era in giacenza nella polveriera del reparto.
Nei combattimenti che seguirono, le usammo sia noi che i partigiani jugoslavi, ed ebbero successo anche contro mezzi di trasporto tedesco, per la potenza dirompente che sprigionavano.
Forse è interessante spiegare, anche sommariamente, le caratteristiche tecniche della bomba per comprendere l’innata capacità degli italiani a risolvere con pochi mezzi i più difficili problemi. Si immagini un cilindro costruito in lamiera di ferro dalle dimensioni di dodici centimetri di diametro e quindici di altezza, ripieno di tritolo nella parte inferiore e nell’altra metà di ferraglie di piccole dimensioni; il cilindro era predisposto alla sua sommità per l’innesto di una bomba a mano, di formato piccolo, come la “romanina”, e alla base per il fissaggio di un manico di legno molto solido che serviva per lanciarlo. Una volta scagliata sul bersaglio, l’esplosione della piccola bomba provocava a sua volta lo scoppio della grande, causando enormi danni su tutto ciò che colpiva.
Nel giorni successivi giunse l’ordine di lasciare il presidio di Berane per raggiungere altre mete attraverso le montagne del Montenegro, affrontando spesso aspri combattimenti contro i nazifascisti. Fu una lunga odissea.
Per me finì dopo circa un anno, il 2 settembre 1944, nei pressi di Gaska in Erzegovina, quando rimasi ferito ad una gamba da due pallottole esplosive per cui, dopo le prime cure fui trasportato in barella, dai miei compagni, per un lungo tragitto, sino al campo di aviazione da dove in aereo raggiunsi l’Italia.
(da Patria indipendente n. 14 del settembre 1982)
Pubblicato sabato 7 Settembre 2019
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