La sala della Protomoteca, una delle più prestigiose del Campidoglio, gremita come solo nelle grandi occasioni per celebrare a Roma l’8 settembre e così l’inizio della Resistenza.
Più di trecento persone ieri hanno partecipato all’iniziativa promossa da Roma Capitale e dal Comitato provinciale dell’Anpi: un grande concerto dedicato al compianto Massimo Rendina, il Comandante Max, Capo di Stato Maggiore della Prima Divisione Garibaldi, in Piemonte, e presidente dell’Anpi provinciale Roma, sua residenza di adozione, scomparso nel 2015. Un tributo a una personalità di spicco, per riassumere il contributo alla lotta di Liberazione di tutti le partigiane e i partigiani capitolini, qualcuno recentemente scomparso, come “la pasionaria” Tina Costa.
Se numerosi tra i presenti in sala indossavano al collo il fazzoletto dell’Associazione dei partigiani, colpiva la presenza di tantissime donne e giovani, di intere famiglie con i loro figli, adolescenti e bambini. Plasticamente a documentare un bisogno di impegno e di memoria antifascista della società civile.
A precedere l’esibizione musicale sono state le testimonianze dei partigiani Iole Mancini e Massimo Pradella e gli interventi dello storico Davide Conti, del presidente dell’Aned romano, Aldo Pavia, del vice presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, introdotti dal presidente provinciale Anpi, Fabrizio De Sanctis.
Illustrando il valore simbolico della giornata, nel 75° della Liberazione della Città, De Sanctis ha ricordato il riconoscimento, della Medaglia d’Oro al Valor Militare attribuito a Roma nel 2018 e ha rammentato come proprio nel primo giorno della Liberazione della caput mundi, il 4 giugno 1944, sul colle capitolino è nata l’Anpi. Il presidente provinciale Anpi si è poi soffermato sulla figura di Massimo Rendina, il Comandante Max, coraggioso combattente e maestro di democrazia. Nato a Venezia nel 1920, cattolico, lontano dalla retorica fascista comincia a scrivere per i giornali di Bologna, dove studiava.
Nel 1943, reduce dalla campagna di Russia, giornalista al Resto del Carlino, dove conobbe Enzo Biagi, alla notizia dell’armistizio fece la sua scelta, dichiarando ad alta voce in riunione di redazione la sua intenzione di non collaborare con fascisti e tedeschi, e prendendo subito la strada della montagna. Poi nel dopoguerra fu giornalista all’Unità e nel 1957 direttore del primo telegiornale RAI. Infaticabile testimone della Resistenza, Rendina operò tenacemente e ostinatamente per la trasmissione della memoria democratica: nel 2006, l’apertura a Roma della Casa della Memoria e della Storia rappresenta un risultato imitato in altri territori italiani.
Davide Conti, responsabile delle ricerche Roma Medaglia d’Oro, ha rammentato la battaglia che nel settembre 1943, a Porta San Paolo, combattuta spontaneamente da militari e civili, donne, giovani, operai insieme, in una Roma abbandonata a se stessa dai vertici istituzionali, politici e dell’esercito, dette il via alla lotta contro l’occupazione nazifascista del Paese. Citando Rosario Bentivegna, esponente dei Gap, i gruppi di azione patriottica, lo storico ha sottolineato che l’8 settembre non fu, come ancora sostengono alcuni, la morte della Patria ma la morte dell’idea fascista di patria.
Poi ha ripercorso i nove mesi di guerriglia urbana, in cui alle gloriose attività della lotta armata, vanno doverosamente aggiunte quelle della popolazione. «Marisa Musu, Medaglia d’Argento al VM, una quattro ragazze gappiste con Carla Capponi, Lucia Ottobrini e Maria Teresa Regard – ha detto Conti – ha sempre rivendicato il ruolo di combattente di tutta Roma». Rievocando il Comandante Max, lo storico ha spiegato che le divisioni garibaldine venivano numerate seguendo la data di formazione, dunque appartenere alla prima dà la misura della sua scelta.
La parola è poi passata a Massimo Pradella, 95 anni, già direttore dell’orchestra RAI, violinista e pianista, arruolatosi Volontario della Libertà nel neonato Esercito di Liberazione. «Il mio 8 settembre era cominciato ben prima, con l’approvazione delle leggi razziali – ha detto il maestro –. Avevo 14 anni, vivevo ad Ancona, il mio parroco aveva organizzato un concerto e su “La Voce Adriatica” comparve un articolo violento, in cui venivo definito “mezzo sangue” per parte di madre, di cognome Senigaglia. Continuava con accenti provocatori rivolti non solo a me ma agli ebrei in generale. La mia famiglia, preoccupata, si trasferì a Roma. Amo questa città anche perché mi ha salvato. E oggi nonostante gli echi nostalgici, i rigurgiti di quella cupa stagione, temo soprattutto gli indifferenti».
Pradella ha dimostrato la straordinaria intelligenza e autoironia, prendendo in giro la sua opera di testimonianza col racconto della visita di due direttori d’orchestra, uno molto pieno di sé, alla casa di Donizetti. Davanti alla targa in memoria, il direttore più tronfio e vanitoso chiede all’altro: chissà cosa scriveranno sulle nostre case quando non ci saremo più. Risposta: “Affittasi”.
Poi è stata la volta di Aldo Pavia che ha rimarcato la cesura rappresentata dalla Resistenza nella storia italiana. «Non è stata la conclusione del processo unitario risorgimentale, come si sostiene in alcune interpretazioni, ma un inizio senza precedenti. Protagonista una popolazione che pagò più di altre l’occupazione, Roma conobbe una fame nessun’altra città, nemmeno a Milano si soffrirono tanti stenti».
Grande commozione in sala per la testimonianza di Iole Mancini, 99 anni, vedova del partigiano Ernesto Borghesi. La partigiana ha raccontato con voce affaticata ma al contempo energica di quando, sposata da appena un mese, venne incarcerata a via Tasso, sede della Sicherheitspolizei e torturata dalle SS per proteggere il marito, evaso dal carcere Regina Coeli di Roma e ricercato dai nazisti.
All’alba del 4 giugno due camion arrivano all’ingresso della sede della Gestapo, Iole con altre compagne di prigionia viene caricata su uno degli automezzi che però si ruppe mentre l’altro partì.
Poche ore dopo, l’arrivo degli Alleati. «Non è possibile dimenticare la felicità per la libertà di poter parlare, camminare, guardare le persone intorno. È la più bella conquista della nostra lotta, da valorizzare anche oggi ogni giorno». Scoprì di essere stata protetta dal destino, Iole quel 4 giugno ’44. I prigionieri saliti sull’altro camion, con loro anche il sindacalista Bruno Buozzi, vennero tutti assassinati a La Storta.
A concludere gli interventi, Gianfranco Pagliarulo, vicepresidente nazionale dell’Anpi. Dopo aver portato il saluto dell’Anpi nazionale, il dirigente nazionale dei partigiani si è soffermato sull’8 settembre e su una significativa coincidenza: quella data – ha fatto notare Pagliarulo – è anche «il giorno del proclama Badoglio, quando, scrive Beppe Fenoglio, “nemmeno l’ordine hanno saputo darci”, “resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi”, il giorno dello sbandamento, è in quel giorno che simbolicamente nasce la Resistenza».
Un altro riferimento cronologico deve far riflettere: il 9 settembre, quando «il re, la regina, Badoglio e altre autorità dello Stato maggiore fuggono da Roma, segnando in modo irreversibile la credibilità e il destino della dinastia Savoia in Italia. Nello stesso giorno al largo dell’Asinara, attorno alle 16, viene ripetutamente colpito dai bombardieri tedeschi l’incrociatore “Roma” che affonda tragicamente. Periscono più di 1.300 uomini tra ufficiali, sottufficiali e marinai». Era una nuova guerra, senza quartiere, fra gli italiani e i nazifascisti, la guerra dei ragazzi e delle ragazze, come la definiva Massimo Rendina, riferendosi all’età media dei combattenti nella Resistenza. Pagliarulo, già componente della Commissione del Ministero della Difesa che ha conferito a Roma la massima decorazione al Valor Militare, ha letto alcuni passaggi della motivazione: “diede inizio alla Resistenza e alla guerra di Liberazione nazionale” e “per 271 giorni contrastò l’occupazione di un nemico sanguinario e oppressore con sofferenze durissime”.
Ha poi detto: «Oggi più che mai è da chiedersi: ne è valsa la pena? E oggi più che mai, davanti ai pericoli che corre quel sistema di libertà e di liberazioni, quell’idea di civiltà e di cultura, quel modo di guardare l’altro e di riconoscerlo in se stesso, che abbiamo chiamato democrazia, abbiamo il dovere civile e il coraggio esistenziale di dire: sì, ne è valsa la pena, ed ogni qual volta chiunque dovesse mettere sotto scacco quella idea, noi siamo pronti a difenderla, nel nome di quei ragazzi che presero le armi per inseguire un sogno di felicità comune». Ancora: «se dovesse avvenire, ce la faremo? E ancora, la risposta è sì».
Ad un’unica condizione, tuttavia, ha indicato il vicepresidente nazionale Anpi: «Solo se saremo uniti, così come ce la fecero allora, quando Massimo Rendina era un ragazzo, perché, è vero, c’erano tante brigate partigiane con tanti colori diversi, ma erano unite. Abbiamo occhi per vedere quello che sta avvenendo nel mondo che ci circonda e spesso ci soffoca; fascismi, razzismi, nazionalismi, sempre in forme particolari, territoriali, specifiche, cercano di tornare; e questo ribadisce l’assoluta modernità dell’antifascismo». Già, perché «l’antifascismo non è un’ideologia; è un’idea che accomuna, e che perciò, per sua natura chiama un grande fronte unitario, un’unità di popolo, di associazioni, di organizzazioni diverse e distinte, ma unite in questa battaglia collettiva. Ed infine unità di generazioni. Perché si possono usare le parole di Primo Levi nella sua poesia: “In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo. Ritroviamoci”. “Come allora, staremo di sentinella perché nell’alba non ci sorprenda il nemico”. Ma anche quelle nella canzone di Italo Calvino: “Tutto il male avevamo di fronte, tutto il bene avevamo nel cuore, a vent’anni la vita è oltre il ponte, oltre il fuoco comincia l’amore”».
Poi ai discorsi sono subentrate le note del concerto dove ad esibirsi e a dirigere l’Ensamble keplero e la cantante lirica Laura Pugliese è stato Angelo Colone, chitarrista di spicco nel panorama musicale italiano, interprete di autori contemporanei. Un omaggio a Massimo Rendina che Colone ha personalmente conosciuto in occasione del lavoro di testimonianza nelle scuole del Comandante Max. Dopo il Preludio dalla Suite BWV997, di Johann Sebastian Bach; di Fratres, di Arvo Part; della Ballata dall’esilio, di Mario Castelnuovo Tedesco; i presenti hanno potuto ascoltare la Ballata partigiana per soprano, archi e chitarra, composizione di Alessandro Annunziata e parole di Massimo Rendina.
Quasi un testamento di memoria e un’invocazione-appello all’impegno democratico, attualissimo:
Fischia il vento/ e la nostra canzone/ venuta da lontano,/scarpe rotte/ eppur bisogna andar/ dalle steppe gridavate/come noi/libertà. /Pensate/ sulle montagne, nelle città/ pronti a colpire e a morire/ per poterci tutti quanti/ chiamare fratelli/ dopo di noi/ e sempre/ mai più armi in pugno/ uno Sten calato dal cielo,/ un mitra strappato/ ai briganti neri./ Il bacio a un fiore/ come ultimo addio/ una parola scritta/ col sangue sul muro/ Cancellati i nomi,/ quelli veri nelle bottiglie/ sepolte nella terra/ consegnate alla fortuna/ per non sparire/ per sempre./ Fate cerchio intorno a noi/ nella preghiera mentre lontano/ muoiono innocenti/ come allora/ uccisi da altri/ briganti neri/ Dio fa che l’urlo/ di pace e libertà/ risuoni ancora/ non si perda nel vento.
Pubblicato lunedì 9 Settembre 2019
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