Chi siamo? Come siamo? Dove stiamo andando? Sono domande, forse, che attengono alla sociologia, alla filosofia, all’antropologia, ma che suonano di stringente attualità in una fase in cui – ha scritto il filosofo sloveno Slavoi Zizek – “viviamo in tempi interessanti”. Zizek mutua questa frase da un modo di dire – una sorta di maledizione – attribuito ai cinesi, che suona così: “Che tu possa vivere in tempi interessanti!”, e si rivolge con ironia a coloro che in passato si sono “scaldati il cuore” davanti a rivoluzioni lontane, e che oggi devono fare i conti con una crisi generale del loro sistema economico, sociale e politico che ha portato dentro la loro casa contraddizioni laceranti e che, nella difficoltà di interpretare il presente, rende arduo disegnare il futuro. Parlo dell’occidente, cioè di noi, qui ed ora.
Insomma, come ben sappiamo tutti, si naviga a vista.
Demos, Eurispes e Censis
Nelle ultime settimane sono stati diffusi i risultati di vari “rapporti”, fra cui il “Rapporto Demos” su “Gli italiani e lo Stato” (Repubblica del 22 gennaio 2018), il “30° Rapporto Italia” Eurispes e – a dicembre 2017 – il “51° Rapporto sulla situazione sociale del Paese” a cura del Censis.
Pur fra non irrilevanti divergenze fra tali ricerche, emerge un quadro tutto sommato relativamente omogeneo dello stato dell’opinione pubblica e della situazione del Paese.
Colpisce, nell’indice di fiducia verso le istituzioni, l’affidamento verso la Polizia, le Forze Armate, l’Intelligence, la Protezione civile, il volontariato (Rapporto Eurispes). Anche per Demos le Forze dell’Ordine sono ai primissimi posti (seconde solo a Papa Bergoglio). È evidente che questi indici rivelano un fortissimo bisogno di garanzie di sicurezza, specificamente di rassicurazione, e di tutela della vita e dei beni, ed assieme la richiesta di priorità di tali garanzie nei confronti dello Stato. D’altra parte la sicurezza dei cittadini è sempre stata una – secondo alcuni la principale – delle ragioni dell’esistenza stessa degli Stati moderni. Ma il bisogno di sicurezza rivela anche la persistenza della paura, una “paura sociale” che da anni è il convitato di pietra del nostro Paese e che è esplosa con la grande crisi, cioè dal 2008. A dieci anni di distanza il tema della paura, per quanto metabolizzato (“rancore sociale”, dice il Censis), rimane costante e si alimenta di cognizioni imprecise, eccessive o del tutto false. Eurispes rivela infatti che è largamente sovrastimata la presenza di immigrati in Italia. L’incidenza di stranieri sul totale della popolazione è dell’8%, ma più della metà del campione di intervistati la sovrastima: per il 35% del campione gli stranieri sarebbero il 16% del totale della popolazione; per il 25.4% del campione sarebbero addirittura il 24%.
In base allo stesso l’indice di fiducia, secondo Demos, Parlamento e partiti sono agli ultimi due posti: mentre Papa Bergoglio ha un indice 77 e le Forze dell’Ordine un indice 70, il Parlamento ha un indice 11 e i partiti un indice 5. È da notare che tutti i primi e tutti gli ultimi hanno valori decrescenti o stabili rispetto all’anno precedente, il 2016. Chi ha valori crescenti, invece, sono Cgil, Cisl, Uil, le associazioni imprenditoriali e la Regione. Questa circostanza si potrebbe leggere così: mentre nel rapporto Censis la parola chiave è “rancore sociale”, in quello di alcuni anni fa era “solitudine sociale”. C’è da immaginare che per contrastare tale solitudine si sia cercata una relazione e una tutela. I sindacati e le associazioni rappresentano una difesa sociale ed un organismo collettivo che contrasta – appunto – la solitudine sociale; tale solitudine è una modalità della situazione italiana, che incarna l’opinione, la politica (e la profezia) della signora Thatcher, che affermò in un’intervista del 1987 “la società non esiste. Esistono gli individui, gli uomini e le donne, ed esistono le famiglie”. Un’affermazione che in nuce faceva tabula rasa di tutto ciò che era stato conquistato, (e, per quel che riguarda il nostro Paese, costituzionalizzato) dal dopoguerra e rappresentava plasticamente quella gigantesca regressione che è poi puntualmente avvenuta col trionfo del liberismo selvaggio in occidente e, più da vicino, in Italia.
Colleghiamo ora logicamente i dati sulla sfiducia verso Parlamento e partiti con i dati (Demos) sulla “voglia di uomo forte oggi”. Il Paese ha questo bisogno? Molto o moltissimo, risponde il 65%. Poco o per niente il 35%. Ma “la democrazia può funzionare senza partiti politici”? Il 49% risponde di sì, il 44% risponde di no, il rimanente 7% non sa o non risponde. Ed infine il 62% ritiene che la democrazia sia preferibile a qualsiasi altra forma di governo, ma il 17% ritiene che in alcune circostanze possa essere preferibile un regime autoritario e il 21% ritiene indifferente che sia l’uno o l’altro sistema.
Allarme rosso temperato o no?
Che conclusione trarre a mio parere? Forse quella di un allarme rosso forse temperato. Allarme rosso perché l’intera impalcatura costituzionale della democrazia del nostro Paese si fonda sui partiti come collegamento permanente fra Stato e società e sul Parlamento come rappresentanza del popolo, come “specchio” del pluralismo delle opzioni degli elettori. D’altra parte l’attacco al Parlamento e ai partiti è stato il grimaldello tramite cui il fascismo è andato al potere in Italia (“Potevo fare di quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli”, dal primo discorso di Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, alla Camera dei deputati, 16 novembre 1922) e nella sostanza è affine alla politica di Adolf Hitler (“Ci siamo dati un obiettivo, spazzare questi partiti politici fuori dal parlamento”. “Ancora non hanno capito di avere a che fare con un movimento completamente differente da un partito politico”, “Noi non siamo un partito, rappresentiamo l’intero popolo, un popolo nuovo”, da Discorsi di lotta e vittoria, 1932).
Di queste sinistre assonanze si nutrono oggi gruppi e formazioni neofasciste e neonaziste (e per alcuni aspetti anche altri populismi), che ottengono qualche successo elettorale ed inquietanti risultati di rappresentanza fra gli studenti.
Ma tutto ciò, se manifesta una epifania del fascismo nel senso di apparizione e di visibilità – il che costringe e tenere altissima la guardia –, non ci deve necessariamente far pensare ad Annibale alle porte: se allarme rosso c’è, esso può essere temperato sia da una forte maggioranza che ritiene la democrazia insostituibile, sia dalla reazione alla “solitudine sociale”, che si manifesta in un desiderio di partecipazione e di associazionismo, in particolare fra i giovani; si potrebbe forse affermare che è in corso una ribellione contro la signora Thatcher, e cioè, fuor di metafora, verso quella concezione del mondo che ci vuole soli o iscritti esclusivamente nell’istituzione-famiglia, che il liberismo selvaggio non vede come la più elementare cellula di socialità, ma come l’unica autodifesa collettiva in un mondo in cui ogni uomo è lupo degli altri uomini. Insomma la famiglia come una monade, una sorta di stanza senza finestre di collegamento con l’esterno.
Dai vari “Rapporti” citati viene fuori un quadro nel quale i principali protagonisti del disagio sono i ceti medi declassati ed i ceti più bassi precipitati sotto la soglia di povertà. Da questi segmenti sociali in particolare parte una dialettica, meglio, una polemica, che non è più contro la sinistra o contro la destra, ma contro l’alto (élite, oligarchie, “politici”) o contro il basso (migranti, nomadi, omosessuali, praticanti religioni diverse dalla cattolica), confermando ciò che nella prima metà del 2017 ha scritto il sociologo Revelli nel suo volumetto “Populismo 2.0”. Ancora una volta si deve far mente locale all’Italia degli anni precedenti il 1922, quando a causa della Grande Guerra si determinò una pesantissima crisi sociale con un ruolo eversivo della piccola borghesia e dei grandi proprietari terrieri, o alla Germania degli anni precedenti al 1933, quando gli effetti combinati degli accordi di Versailles e delle politiche economiche dei governi precedenti, in particolare dei governi Brüning (prima di “grande coalizione”, poi di centro-destra), determinarono un collasso occupazionale e salariale senza precedenti, alimentato da un’inflazione galoppante.
Lo stato d’eccezione
Insomma, le grandi crisi sociali e quindi il crollo delle sicurezze dei ceti garantiti determinano costanti spinte eversive rispetto all’ordinamento. Quale ordinamento? L’Italia nel 1922 era un Paese – si dice – a democrazia liberale, seppure il suffragio non fosse universale (le donne non votavano), e la Germania del 1933 viveva gli ultimi respiri della repubblica di Weimar. Ma proprio queste esperienze ci insegnano che i “fascismi storici”, pur facendo ricorso permanente e pressoché incontrastato alla violenza, non sono andati al potere con un colpo di stato, ma con passaggi interni ai meccanismi di quelle specifiche democrazie. Scrive il filosofo Giorgio Agamben che “Mussolini era il capo del governo, legalmente investito di tale carica dal re, così come Hitler era il Cancelliere del Reich, nominato dal legittimo presidente del Reich”; “essi lasciarono sussistere le costituzioni vigenti (rispettivamente lo Statuto albertino e la Costituzione di Weimar), affiancando, secondo un paradigma che è stato acutamente definito di “Stato duale”, alla costituzione legale una seconda struttura, spesso giuridicamente non formalizzata, che poteva esistere accanto all’altra grazie allo stato d’eccezione”.
Secondo alcuni, il paradosso della democrazia è proprio questo: se la democrazia è il potere del popolo e la maggioranza vuole una dittatura, la democrazia cessa di esistere; ma se in democrazia, dove decide il potere della maggioranza, si impedisce che la dittatura voluta dalla maggioranza prenda il potere, si nega comunque la democrazia. A me pare – come si vedrà – un paradosso risolvibile. Ma andiamo per ordine: è innegabile che in gran parte dei Paesi dell’occidente, in particolare nell’est, si stiano rafforzando forze di estrema destra, in alcuni casi esplicitamente oscurantiste o propriamente fasciste. Si è così giunti a due regimi – Polonia e Ungheria – che sono ad un passo dal fascismo, ma che fanno parte dell’Ue; va notato che i governi di entrambi i Paesi sono frutto di elezioni, cioè godono di un consenso formalmente maggioritario. C’è poi un terzo regime che non fa parte della Ue ma è da questa visto con esplicita simpatia, l’Ucraina, dove sono o sono state al potere forze di esplicita ispirazione nazista, cioè Svoboda (nome iniziale: partito socialnazionalista) e Pravy Sector, e dove il criminale di guerra, massacratore di ebrei e collaborazionista di Hitler Stepan Bandera è stato riabilitato come eroe nazionale.
A mio avviso tutto ciò prova che il limite della democrazia liberale come si è storicamente incarnata nei vari Paesi è che essa non sempre può, né sempre è in grado di impedire la sua metamorfosi in un regime autoritario o di tipo fascista. In altre parole lo stato d’eccezione – cioè un potere politico dove l’eccezione diventa regola e dove l’esecutivo si espande al punto di assorbire ogni altro potere – è un possibile scivolamento della forma organizzata di democrazia e, quando assume la forma del fascismo o del nazismo, esso diviene una condizione permanente.
La norma che ha consentito l’avvento del nazismo è stata l’applicazione dell’art. 48 della Costituzione di Weimar: “Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153”. C’è da aggiungere che la sua applicazione non inizia col cancellierato di Hitler, ma con quello dei suoi predecessori (Brüning). Con Hitler l’applicazione dell’articolo 48 diventa ininterrotta.
La sovranità popolare
Il paradosso della democrazia scompare quando si definisce la sovranità popolare; la Costituzione italiana prevede l’esercizio di tale sovranità nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa, prevede l’immodificabilità della forma repubblicana (art. 139), una rigorosa procedura (art. 138) relativa alle leggi di revisione della Costituzione, il divieto di ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma (XII Disposizione finale): si tratta di una serie di barriere costituzionali che in quanto tali rendono non impossibile, ma senz’altro molto difficile quello scivolamento della democrazia verso forme autoritarie a cui accennavo, a meno che – ovviamente – l’assunzione di forme autoritarie non avvenga in violazione della Costituzione. Non solo: la Costituzione italiana non si limita a disegnare una repubblica liberale, viceversa impone una repubblica democratica, perché neanche la legge è onnipotente, ma è soggetta ai princìpi fondamentali di una costituzione “rigida”, non modificabile cioè con legge ordinaria e fonte suprema delle altre fonti del diritto. Questo Stato democratico, per di più, ha una fortissima connotazione egualitaria (art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”), e sociale (art. 3 secondo comma: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”).
Se la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione, se la repubblica tratteggiata dalla Costituzione non è una repubblica liberale, ma una repubblica democratica con una natura egualitaria e sociale, se l’insieme dei principi e delle norme costituzionali rappresentano l’esatto contrario dei principi e delle norme dello Stato e della società fascista, il paradosso della democrazia tende ad estinguersi, a condizione, ovviamente, del rispetto della Costituzione.
Infatti la sovranità popolare, senza norme e limiti che la definiscano, rimarrebbe una pura petizione di principio, inattuata e inattuabile. Tali norme e limiti prevedono che essa si eserciti attraverso il Parlamento, i partiti ove i cittadini si associano liberamente, la partecipazione dei lavoratori, la pari dignità sociale e l’eguaglianza davanti alla legge, il controllo di costituzionalità attraverso la Consulta, e così via. Ancora una volta la realizzazione di tutto ciò renderebbe costituzionalmente inattuabile lo scivolamento della democrazia verso regimi autoritari.
Ma le costituzioni possono essere modificate con una serie di strappi e forzature, il che sino ad oggi non è avvenuto in particolare grazie alle scelte referendarie del popolo italiano in occasione degli ultimi due referendum costituzionali. Bisogna sapere che però può avvenire, ove mutassero i rapporti di forza e di potere nella società. Se è vero infatti che uno Stato si definisce in base a tre elementi – potere politico, territorio e popolo – è dalla dialettica interna a questi tre elementi e fra di loro che si può determinare un cambiamento di natura dello stesso Stato. Lo Stato disegnato dal Costituente presuppone una democrazia che progredisce, si espande, si diffonde, si fa prossima, ed anche per questo è uno Stato antifascista. Ma da alcuni decenni è obiettivamente in corso un processo inverso, e cioè una democrazia che si impoverisce, regredisce, si allontana. Ancora: la società democratica è per sua natura solidale e comunitaria, come ha giustamente sottolineato il Presidente della Repubblica alcuni giorni fa. Ma se il dato caratterizzante del Paese in un determinato periodo è la solitudine sociale e di conseguenza il rancore sociale, viene meno progressivamente la vocazione solidale e comunitaria ed il terreno della democrazia diventa carsico, pietroso, arido. La terribile vicenda di Macerata lo conferma: la tentata strage del nazifascista Traini ha avuto un consenso relativamente ampio sia sui social che fra alcuni della popolazione locale. Questa è la novità. Non è una novità l’odio di una comunità verso un’altra comunità (per esempio i rom). È una novità che tale odio si manifesti nella solidarietà ad una persona che ha tentato di ammazzare persone del tutto innocenti, colpite in quanto neri. Nella storia moderna le stragi di comunità accusate delle più varie nefandezze si chiamano pogrom, termine russo che significa devastazione; i pogrom hanno causato migliaia di vittime fra gli ebrei. Disgraziatamente, come scriveva Gramsci, “la storia è maestra, ma non ha scolari”. Tutto ciò ci rappresenta drammaticamente la deriva del rancore sociale e lo smarrimento la vocazione solidale e comunitaria.
La piena attuazione della Costituzione
Il contrasto a questa deriva e la difesa della democrazia si incarna perciò nella piena attuazione della Costituzione.
D’altra parte la Costituzione ha subito reiterati attacchi da quando è stata promulgata e sono sempre più inquietanti i tentativi di legittimare una sorta di presunta Costituzione reale al posto della Costituzione legale, i continui richiami al rafforzamento del potere esecutivo, l’apologia della governabilità a detrimento della rappresentanza. Tutto ciò sul lungo periodo nello spirito pubblico potrebbe costruire un consenso attorno ad una revisione costituzionale de facto.
Abbiamo visto che l’articolo 1 (la sovranità popolare si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) fornisce una chiave necessaria per contrastare le insorgenze neofasciste o comunque autoritarie. Abbiamo anche visto che il contrasto generale più efficace alla deriva “ademocratica” e ai neofascismi è l’attuazione della Costituzione. Vediamo meglio: tanto più, per esempio, l’articolo 3 sarà messo in pratica, tanto meno il neofascismo potrà esercitare un piccolo o grande potere di fascinazione. Ma che vuol dire attuazione della Costituzione? È anche, ma non solo, un adeguamento della legge ordinaria al dettato costituzionale. Facciamo l’esempio del lavoro e dei diritti ad esso collegati: il caso Amazon (i “braccialetti” elettronici ai lavoratori) e il caso Embraco (l’azienda che licenzia circa 500 lavoratori) non solo propongono un’idea di modernità oscena e barbara data la natura multinazionale delle imprese, ma avanza anche una domanda: come si rapporta il potere di uno Stato davanti ad un potere privato globale? Che leggi approva per contrastare legittimamente questo potere in virtù del principio di attuazione della Costituzione? Ed ancora: come sarà il mondo del lavoro con la robotizzazione avanzante? In questo caso l’attuazione della Costituzione – “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” – parte dal presupposto di un pensiero critico, di una politica, di un ruolo del governo, di un ruolo delle istituzioni nazionali e europee in grado di costruire risposte credibili e certe di grandissimo respiro, di realizzare proposte forti, di prevedere il futuro e contrastare giganteschi poteri privati che si comportano in modo “alegale” o illegale in merito – per esempio – al tema del lavoro. In questo caso in sostanza il compito delle istituzioni democratiche, meglio, il loro dovere costituzionale, è trovare le vie per incarnare i valori nei lavori.
Per tutte queste ragioni quando si dice che la Costituzione è un bastione della democrazia non si fa un’affermazione retorica, ma si coglie la sostanza del rapporto fra Costituzione e democrazia. In altre parole tanto più la Costituzione viene applicata, tanto meno si ricorrerà all’eccezione, cioè alla deroga dalla norma e a maggior ragione alla deroga che diventa norma.
Se viceversa la Costituzione non viene integralmente applicata, se crescono le zone d’ombra, se essa non viene vista come un atto liberatorio ma come una gabbia, tutto diventa più difficile. Quanto più si cerca di svuotarla o di demolirla, quanto più l’eccezione alla norma costituzionale diventa la norma reale, tanto più si sterminano gli anticorpi contro ogni tentazione autoritaria e neofascista. Occorre una continua battaglia culturale e formativa che da un lato stimoli il “sentimento costituzionale”, dall’altro faccia conoscere la realtà del ventennio nel nostro Paese, come per esempio previsto dall’articolo 9 della legge Scelba del 1952, ma mai attuato. Torna il tema dell’attuazione.
L’unità antifascista
La costruzione di un consenso consapevole e attivo è la ragione dell’unità antifascista. Questa, oltre ad avere evidenti ragioni storiche (i Cln), ha una radice razionale molto chiara: la Costituzione antifascista è la legge fondamentale e la Repubblica antifascista è il soggetto attraverso e dentro cui si realizza tale legge; la società è formato dai cittadini e dalle formazioni sociali che rappresentano i cittadini o a cui questi partecipano. L’opzione unitaria, che parte dal principio di non esclusione di chiunque si ritrovi nella ragione dell’unità (l’antifascismo), consente la costruzione di una barriera popolare attiva e operante. Non solo: in un progetto unitario è importante la presenza del mondo del volontariato e dell’associazionismo, come testimoni di quella che molti chiamano “società civile”. Per fare un esempio: l’avvio della campagna di raccolta di firme sull’appello “Mai più fascismi” promossa dall’Anpi nazionale e da decine di altre formazioni sociali è un modo per concretizzare l’avvio della costruzione di questa barriera. Dunque i soggetti del contrasto ai fascismi sono molteplici: la Costituzione, lo Stato, la società. Ma nella realtà della società italiana c’è uno spessore reazionario alle volte evidente, altre volte latente, sempre costante. Esso si manifesta più fortemente nelle fasi di crisi. È quel “fascismo eterno” di cui parlava Umberto Eco.
Oggi c’è un precipitare della fiducia verso alcune istituzioni fondamentali della democrazia: partiti e Parlamento. Qualche tempo fa il segretario nazionale di CasaPound, Simone Di Stefano, aveva dichiarato: “Entreremo in parlamento, dove voleranno sedie e schiaffoni per qualche ministro”. Per quanto possano sembrare pittoresche, queste affermazioni non vanno sottovalutate, sia perché non esiste fascismo senza violenza, sia per il senso comune dilagante di dileggio e spesso dispregio delle istituzioni. D’altra parte la ricostruzione di un prestigio e di un’autorevolezza non può che partire dall’impegno delle istituzioni stesse, in altre parole da quella riforma della politica che l’Anpi invoca da anni, e tale riforma non può che partire dai temi della rappresentanza, del progetto, dell’orizzonte di cambiamento, della legalità e dei valori. Se si dovesse rappresentare con un dipinto questa richiesta dell’Anpi, penserei all’”Urlo” di Munch, dove la persona che sta emettendo il grido è irriconoscibile persino nel suo sesso, nei suoi lineamenti e nella sua forma, dunque quella persona sono tutte le persone, siamo noi.
Ecco, quella riforma ad oggi non c’è ed il suo corto circuito con la crisi economica, sociale e culturale spiega come mai, nelle testimonianze giovanili raccolte da Umberto Galimberti nel suo ultimo volume, Marta affermi “Siamo la generazione dei “senza”: giovani senza ambizioni, giovani senza lavoro, giovani senza futuro. Siamo la generazione del condizionale presente”. Eppure Marta, e con lei tanti dell’ultima generazione, si ribella: “Indignatevi con me, diciamo loro tutti insieme: noi ce la possiamo fare, possiamo farvi cambiare idea”.
L’ospite inquietante
Dai Rapporti Censis, Demos, Eurispes, nel generalizzato dato negativo, emergono comunque possibilità e speranze che si possono coltivare solo a condizione che il Paese intero prenda in mano il suo futuro uscendo dalla risacca del giorno per giorno, delle paure, della rassegnazione ed assieme del populismo, della delega all’uomo forte e ritrovando nelle infinite possibilità della democrazia l’energia per troncare il nuovo Leviatano dell’economia, che schiaccia l’umanità su di un presente infinito, che rimuove il passato ed ignora il futuro, che la riduce ad uno strumento docile, passivo ai suoi voleri, condannato all’irrilevanza. E dove si può trovare tale energia della democrazia, se non nella Politica, quella con la P maiuscola, dove la partecipazione e la rappresentanza sono regine?
Galimberti nel recente passato aveva definito il nichilismo “l’ospite inquietante” del nostro tempo; oggi, rispetto a questi giovani, precisa che il loro nichilismo è diventato “attivo”, perché hanno “la determinazione di trovare una strada che consenta loro di uscire da quell’atmosfera di demotivazione e di ignavia che l’imprevedibilità del futuro induce”. In altre parole i giovani oggi si pongono le domande da cui sono partito: chi siamo? Come siamo? Dove stiamo andando? Porsi le domande è già una grande risposta.
È una via stretta, che riguarda in particolare i giovani, ma per esteso l’intera società e forse le istituzioni. Ma è una via, cioè un percorso per attraversare il deserto che ci circonda e ci soffoca, che sembra infinito ma non lo è. E, per dirla con un segno dal fortissimo significato simbolico, le “pietre d’inciampo” di questa via sono alcune parole: socialità, lavoro, antifascismo, Costituzione, democrazia, diritti. È un viaggio e spesso, come si sa, il viaggio è la meta; e la meta non può che essere la scoperta del senso della vita e la ricerca della felicità come realizzazione del sé individuale e del sé come comunità aperta e solidale.
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
Stampato il 23/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/ulisse/riflettendo-sui-rapporti-italia/