Stamattina gli operai dell’Avio Aero hanno bloccato gli stabilimenti di Rivalta e Borgaretto, nella cintura torinese. Produrre motori d’aereo non è propriamente di “importanza strategica” nella lotta contro il virus. Anzi, rischia di aiutarne la diffusione. Allo stesso modo hanno fatto quelli dell’Alessio Tubi e delle Officine Vica, “con adesioni altissime, per protestare contro le decisioni aziendali di proseguire normalmente l’attività su produzioni che non sono essenziali” (La Repubblica). Così pure stanno facendo i metalmeccanici lombardi, dalla Leonardo alla Ge Avio alla Fata Logistic System, nelle tante realtà in cui gli imprenditori perseverano nel criminale tentativo di mettere a repentaglio la vita dei propri dipendenti per un pugno di euro in più. E per mercoledì è previsto uno sciopero in tutta la regione. Hanno perfettamente ragione.
Dalla notte di sabato, da quando il Presidente del Consiglio ha annunciato le nuove misure, la Confindustria ha iniziato un indecente tiro alla fune per allargare le maglie del provvedimento, promuovendo ad “attività strategica” tutto l’immaginabile e l’inimmaginabile, pur di “tenere aperto”, mostrando un senso del pubblico interesse da trogloditi. Il presidente ancora in carica – quello che fin dal primo giorno dell’emergenza, dal caso n. 1 di Codogno, ha sempre, testardamente frenato su ogni misura di contenimento che toccasse anche solo di striscio le attività produttive – Vincenzo Boccia, intervenendo a Circo Massimo su Radio Capital, ha dichiarato a proposito delle minacce di sciopero: “Onestamente non riesco a capire su cosa”. Ora, a prescindere che la parola “onestamente”, abbinata a lui, dopo le performances di queste settimane, suona come un ossimoro, non capire le ragioni della protesta dei lavoratori equivale a un’assenza totale non solo di empatia – sarebbe troppo – ma anche solo di capacità cognitiva. Decine di migliaia di persone costrette a spostarsi ogni giorno a inizio e fine turno senza un’assoluta e vitale necessità collettiva e a lavorare ammassate in spazi che non permettono il necessario distanziamento, costituiscono un pericolo estremo per sé e per l’intera comunità, da cui l’impresa evidentemente si chiama fuori.
Nel clima cupo di queste giornate, nel quadro delle trasformazioni totali che l’emergenza sanitaria ha già prodotto nel nostro mondo sociale, politico, esistenziale e che minacciano di prolungarsi – come è accaduto per tutte le grandi tragedie storiche – nell’epoca successiva, questa mobilitazione operaia è un segnale di vita. Di cui dovremmo prenderci cura con tutta l’attenzione di cui siamo capaci, perché possa difenderci nel “dopo”. Molto, ma molto meno encomiabili e giustificate altre proteste, che immancabilmente sono piovute appena si è chiusa la diretta del Presidente del Consiglio. Quella dei giornalisti, irritati per il carattere “unidirezionale” della comunicazione (impossibilità di porre domande al termine) che li privava di tribuna e protagonismo. Quella delle “opposizioni” – Salvini, Meloni, (Berlusconi non so, mi è sfuggito) – che rivendicano a gran voce la convocazione H24 del Parlamento: proprio loro, che se potessero il Parlamento lo chiuderebbero memori dell’“aula sorda e grigia” e in nome dei “pieni poteri”. Quella dei soliti guastatori della maggioranza, i “renziani”, che dal basso del loro strutturale culto della personalità chiedono al contrario collegialità e spersonalizzazione del processo decisionale, inconsapevoli della contraddizione che impudicamente mettono in scena. I mugugni dei “Governatori” del Nord, che strepitano sulla necessità di “chiudere tutto” guardandosi bene però dal farlo (potrebbero benissimo, sta nelle loro prerogative) e rinviando invece la palla a Roma, per poter poi, eventualmente, mal che vada, impallinare il “centralizzatore”. Giochi, tutti, di conventicole e corporazioni, che rivelano il volto di una gran brutta Italia, schierata all’opposto di quella che soffre e sopporta e si aspetta, dallo “Stato”, che si faccia tutto l’umanamente possibile per assisterla.
So benissimo che stiamo vivendo nel pieno di una mutazione genetica del nostro sistema di vita, all’insegna di un passaggio epocale al dominio della bio-politica sulla politica (ne parla, in modo esemplare, Renzo Rosso su questo stesso sito). So che questa mutazione reca con sé rischi mortali (salvato il Bios, se si salverà, rischiamo di perdere la Polis). È in corso – in buona parte è già compiuta –, una vertiginosa ri-personalizzazione del comando politico e una spaventosa verticalizzazione della decisione. Ho letto e riletto il discorso di Emmanuel Macron à la nation: ripete per sei volte (sei volte!) “Nous sommes en guerre”, col tono del comandante in capo dell’Armée. Sullo sfondo sembra di sentir risuonare le parole del generale De Gaulle, nel fatidico 6 gennaio del 1961: “En vérité – qui ne le sait ? – l’affaire est entre chacune de vous, chacun de vous, et moi-même”. La “cosa” si gioca tra ciascuna e ciascuno di voi e Me. Perché – è ancora “le Général” – “voi lo sapete, è a me che voi dovrete rispondere… Io mi volgo verso di voi al di sopra di ogni intermediario”. Beh, è questa la logica che si va affermando negli spazi sempre più deserti delle città di tutto il mondo (un miliardo di persone “confinate in casa”), non solo nella Francia della grandeur perduta: Boris Johnson, sia pur nell’improbabilità del suo aspetto, persino Donald Trump nelle sue abissali oscillazioni, naturalmente Xi in Cina, e Narendra Modi in India (ha sperimentato il coprifuoco per più di un miliardo di cittadini), sono sulla stessa lunghezza d’onda. Piccoli padri di popoli smarriti.
Ovunque, d’altra parte, si diffondono codici di comportamento per i medici delle rianimazioni che introducono criteri di selezione spaventosi diventati d’un colpo “ragionevoli” (disumani e insieme “umani troppo umani”): forme di triage in base all’età anagrafica, o al grado di “fragilità”, o all’“aspettativa di vita”, di cui gli unici precedenti ricordabili sono nei manuali di “etica delle catastrofi” o nei memoriali di guerra dopo battaglie campali. Ne ho parlato in un precedente “pezzo” su questo sito a proposito dell’Italia. Ma la Francia ne ha prodotto uno proprio (s’intitola Priorisation de l’accès aux soins critiques dans un contexte de pandémie, l’ha adottato la Direzione generale della sanità francese, e ne ha dato notizia Le Monde come ci informa Barbara Spinelli sul Fatto). E il Regno Unito applica addirittura un algoritmo, elaborato dal National Institute for Health and Care Excellence, il cui acronimo fa NICE, termine che apparirebbe “carino” se non celasse un contenuto terribile: qui la selezione avviene in base a una scala da 1 a 10 in cui il termine medio, pari a un coefficiente 5 equivale a “Mildly Frail” (mediamente fragile). Al di sopra di esso si è “salvi” o meglio “salvabili” (trattabili in rianimazione), ad di sotto ci si avvia verso una scala discendente (“subject to a review of any underlying conditions and the severity of their illness”, cioè “soggetto a una revisione di eventuali condizioni peggiorate e della gravità della loro malattia”) fino al “trattamento di fine-vita” (end-of-life care). Ci resterà nell’aria, questa nuvola di disumano, anche dopo che il virus se ne sarà andato. E dobbiamo capire come neutralizzarla, nel nostro futuro prossimo.
Personalmente, devo confessarlo, mi tranquillizza un po’ il fatto che il nostro “Premier” non abbia personalità e carattere di “Condottiero”. E inorridisco al pensiero che, anziché Giuseppe Conte, avrebbe potuto sedere a Palazzo Chigi uno come Matteo Salvini, o una come Giorgia Meloni (cosa che sarebbe avvenuta se si fosse votato lo scorso autunno), o ancora l’altro Matteo, Renzi. E capisco poco le picconate che i vari De Angelis di Huffington Post, quasi per una sorta di riflesso pavloviano o di coazione a ripetere, non si risparmiano in ogni occasione. Detto questo, credo però che si debba tenere altissima la guardia, con i radar bene accesi sui percorsi che ci aspettano. Non tanto per deprecare ogni atto oggi compiuto: qualunque cosa chi prende decisioni faccia, qualcosa sbaglia. Nella stessa materia delle ultime misure di chiusura (ancora troppo parziali, certo), per quel poco che conosco la struttura dei sistemi produttivi integrati, mi rendo conto di quanto difficile sia districare le filiere produttive lunghe, spesso lunghissime, soprattutto orizzontalmente estremamente intrecciate. E di quale sia la difficoltà dei “tecnici” dei diversi ministeri, nell’arginare l’assalto delle imprese e di questa classe imprenditoriale ammalata irrimediabilmente di egoismo: è possibile che questo potente sistema industriale non sia stato capace, in un mese e mezzo di epidemia, di produrre un numero adeguato di mascherine??? Forse bisognerebbe incominciare a pensare alla requisizione degli impianti riconvertibili a produzioni socialmente utili.
In sostanza, e per concludere. Più della “denuncia”, credo che dovremmo privilegiare oggi la “scommessa”: giocare su quello che, passato lo “stato d’eccezione” – perché di questo, ci piaccia o meno, si tratta oggi – potrà in qualche modo segnare il tempo della “ricostruzione” come occasione per una totale revisione del sistema di vita e di pensiero dominante. Per questa ragione – e per ritornare al tema dell’inizio: gli scioperi – non so se quello dello “sciopero generale” sia lo strumento più adeguato. Uno strumento inevitabilmente istantaneo, da “one shot only (un colpo solo, ndr)” . Mi sembra molto ragionevole, piuttosto, la direzione indicata dal Segretario della CGIL Landini, che ipotizza una disseminazione dell’iniziativa nei posti di lavoro ancora aperti, là dove i lavoratori si muovono e contestano, garantendo loro la “copertura sindacale”. E aggiungerei, forse – spero non sia un’utopia – sarebbe auspicabile la formazione, capillare, azienda per azienda, di “comitati di salute sociale”, con i lavoratori stessi a individuare le produzioni superflue o quelle riconvertibili, così da dare origine a una rete stabile, un’anticipazione di ripresa di parola e di iniziativa dal basso, capace di durare oltre l’emergenza.
Pensare dentro l’emergenza oltre l’emergenza mi sembra l’unico, piccolo contributo che noi, in questo tempo di smarrimento, possiamo offrire agli altri come noi smarriti.
Marco Revelli, storico, sociologo, docente universitario
Per gentile concessione di Marco Revelli e di “volerelaluna” su cui è uscito questo articolo il 23 marzo
Pubblicato giovedì 26 Marzo 2020
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