Un secolo fa le organizzazioni fasciste e naziste seppero sfruttare per affermarsi elettoralmente, oltre alla divisione delle forze antifasciste, la crisi sociale, economica, di identità collettiva del tempo. Pilastri dell’ascesa al potere furono le violenze squadristiche e l’appoggio della parte più retriva dei ceti dominanti (settori della grande industria, della proprietà terriera, delle caste militari, degli ambienti monarchici, ecc.). Mancò (come rilevarono Gramsci e poi Togliatti) un’analisi adeguata da parte di tutte le organizzazioni e le tradizioni di pensiero a cui faceva riferimento la maggioranza del movimento operaio (socialdemocratiche/social riformiste, le socialiste massimaliste, le comuniste). Un’assenza che generò confusione massima: mentre nel 1921 Lenin e Gramsci lodavano la nascita in Italia degli “Arditi del Popolo” come forma di autodifesa organizzata popolare contro le violenze squadriste fasciste, il Pcd’I a direzione bordighiana e i socialisti prendevano duramente le distanze da quell’organizzazione paramilitare, dando ai militanti la direttiva di non partecipare alle loro manifestazioni (indicazione spesso disattesa, a Viterbo come a Parma, a San Lorenzo in Roma come a Civitavecchia).
In sostanza si affermò una concezione del “social fascismo” che equiparava i socialdemocratici ai nazisti, abbandonata dall’Internazionale comunista solo nel 1935 (quando i fascisti erano ormai al governo in Italia da 13 anni e in Germania da 2). Addirittura nell’autunno 1932 in Germania le organizzazioni che facevano riferimento al Kpd, il partito comunista tedesco, arrivarono a promuovere e gestire assieme a quelle facenti capo ai nazisti lo sciopero dei trasporti in Prussia contro i tagli salariali. Ernst Thalmann, segretario generale del Kpd (poi morto nel’44 nel lager di Buchenwald) affermò che “per far partire gli scioperi nelle aziende […] l’ammissione dei nazisti nei comitati di sciopero […] è assolutamente necessaria e desiderata” nonostante nelle strade di tutto il Paese i comunisti lottassero duramente contro le squadre paramilitari naziste.
Una lezione non abbastanza meditata (spesso neppure conosciuta) da chi oggi, con un passato e perfino un presente di sinistra, talora anche radicale, scende in piazza contro vaccini e “green-pass” in manifestazioni in cui sono evidenti i ruoli di neofascisti dichiarati, come sono gli appartenenti a Forza Nuova, i paragoni insultanti tra le vittime della Shoah e la “dittatura sanitaria”, fra il “green-pass” e la stella gialla o i numeri tatuati sul braccio agli ebrei. E non dimentichiamo quel 18,5% (dati Ipsos) di lavoratori dipendenti iscritti alla Cgil che alle elezioni del 2019 hanno votato per la Lega, una realtà che fa del razzismo, della xenofobia antimigranti, dell’omofobia, del sessismo il suo cavallo di battaglia e che, come sottolineato ripetutamente anche sulle pagine di Patria Indipendente dal Presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, apre liste e iniziative, sedi e contiguità istituzionali a neonazisti e neofascisti dichiarati.
Del resto, non va dimenticato che nelle elezioni tedesche del luglio 1932, le penultime prima dell’avvento al potere del nazismo, diedero al partito di Hitler il primo posto, con un incremento addirittura del 19% rispetto alle precedenti consultazioni: ben 1 milione di precedenti elettori comunisti (nonostante il Kpd aumentasse comunque dell’1,2%) e oltre 1 milione e mezzo di precedenti elettori socialdemocratici (la Spd calò del 2,9%) votarono per i nazisti e forte fu lo slittamento verso i nazisti soprattutto del proletariato urbano, dei centri piccoli-medi e delle aziende piccole e medie anche fra gli elettori più sindacalizzati. Confusione, settarismi coniugati a pericolosi trasversalismi, sbandamenti, sottovalutazioni erano figli di errori propri dei gruppi dirigenti nazionali e internazionali del movimento operaio, ma anche il risultato di una strategia e di una tattica fascista e nazista che alimentavano le ambiguità e contemporaneamente sfruttavano la disperazione e la rabbia dei settori sociali colpiti dalla crisi certamente di ordine sociale ed economico, ma non solo. A sommarsi furono diversi fattori: certamente in Italia (ufficialmente vittoriosa nel primo conflitto mondiale tuttavia devastata dal debito per cause belliche e alle prese con la smobilitazione delle reclute) pesò la crisi economica come pure e in forme decisamente più gravi in Germania (sconfitta, con l’economia a pezzi e con condizioni iugulatorie imposte dal Trattato di Versailles).
Nella Repubblica di Weimar nel dopoguerra, fortemente dipendente dagli investimenti e dai prestiti statunitensi, contò la crisi del 1929. Al precipitare di masse enormi nella disoccupazione, nella miseria, nella fame, all’ingrossarsi di un sottoproletariato non rappresentato dai tradizionali sindacati (indebolendo così il loro potere) si sommarono formidabili aspetti identitari, ideologici e simbolici. Andando a influire sull’orientamento sia dei più sfruttati (sottoproletariato urbano, proletariato industriale e rurale), sia sulle fasce medio-basse del cosiddetto ceto medio, che prosciugandosi reddito e possibilità di consumo, si vedevano scivolare verso il basso della scala sociale, confondendosi con i proletari e perfino i sottoproletari.
Lucidamente i programmi del fascismo della prima ora inglobarono elementi demagogicamente della sinistra radicale (controllo operaio, riduzione dell’orario di lavoro, voto alle donne, repubblica, nazionalizzazioni), ben presenti peraltro nel curriculum del voltagabbana Mussolini. E lo stesso accadde in Germania, l’ascesa del partito nazista (non a caso definito fin dalla sigla “nazional-socialista dei lavoratori tedeschi”) fu alimentata dal giovanilismo, il rifiuto del “parlamentarismo borghese”, l’anticapitalismo (seppure di facciata), la demonizzazione dei “burocrati sindacali”, il libertarismo nichilista, spesso intrecciati ad antiscientismo, all’esaltazione di teorie e pratiche “naturistico-antindustrialiste” (dallo Steinerismo alle bioenergetica, dal rifiuto dei medicinali al neoruralismo, ecc.), esoterismi, le dottrine della “Terra cava” (come oggi quelle dei “terrapiattisti”), la denuncia della “plutocrazia ebraica” e del “giudeo bolscevismo”.
Nella realtà i fascisti italiani e poi i nazisti tedeschi non disdegnavano, nella tipica doppiezza, finanziamenti dai padroni delle grandi industrie, appoggi da militari conservatori monarchici, supporti organici da baroni della scienza accademica, flirt con primari di medicina e industrie farmaceutiche, tangenti da compagnie petrolifere e da magnati statunitensi come Ford. Erano gli anni in cui la scienza era fatta oggetto di attacchi e lusinghe da parte degli ambienti di destra estrema; si introiettavano i deliri pseudoscientifici di un Lombroso e le teorie eugenetiche, con relative pratiche in Svezia e Usa, ben prima che nella Germania nazista, onorate in tutte le università, e nel contempo si diffondevano in ambienti colti e borghesi le demenziali teorie di ciarlatani come la Blavatsky e le pratiche spiritistiche, si straparlava in riviste e conferenze di origini superumane dei “Nordici” e si inventavano radici comuni fra i tedeschi e i tibetani, facendo ricadere a cascata l’intreccio fra antiscienza e razzismi su studenti, artisti spiantati, ex-combattenti devastati dall’esperienza bellica, ufficialetti frustrati per non aver potuto “essere eroi”.
Queste teorie venivano diffuse sia con mezzi tradizionali (teatro, letteratura, ecc.) sia innovativi (dischi, cinema, riviste con foto), denigrando ebrei e slavi, neri e musulmani, criminalizzando i proletari che trovavano qualche sollievo apparente nell’alcool di pessima qualità. Spettacoli e canzonette evocavano l’uso reificato del corpo della donna nera o slava o musulmana (sempre ritratte in pose che le raffiguravano come prostitute), l’invidia malcelata per l’ebreo ricco o intellettuale (oscurando il fatto che l’immensa maggioranza degli ebrei europei erano poveri sfruttati). Fini intellettuali nazionalisti e futuristi, i D’Annunzio e i Marinetti, esaltavano (e consumavano) assenzio e cocaina, e fino al 1925 un prodotto della Bayer tedesca, l’eroina (Heroin) venne smerciato liberamente e pubblicizzato alla borghesia come alternativa antidolorifica alla morfina e utilizzato perfino negli sciroppi per i bebé delle classi agiate.
E anche oggi, come negli anni 20, il venir meno di ogni paletto capace di distinguere in ogni caso e occasione, e su ogni terreno, l’area dell’antifascismo (quello che una volta in ambito parlamentare si chiamava “Arco costituzionale” riferendosi alle forze che avevano scritto la Carta della Repubblica) da quella del fascismo esplicito o mal mascherato è in larga misura il risultato di processi realizzati negli ultimi decenni proprio in seno alle forze cosiddette “riformiste”, “moderate” e dell’ala non radicale del movimento operaio. Negli ultimi decenni abbiamo visto assessori alla cultura e sindaci di giunte comunali di centrosinistra a Roma che volevano intitolare una via a Bottai; primi cittadini nell’antifascista Siena che si fanno fotografare su un sidecar con l’emblema della divisione SS “Das Reich”; un vicepresidente italiano del Parlamento Europeo andare a Kiev (nel 2014) ad appoggiare i manifestanti di Piazza Maidan, egemonizzati dai neonazisti di “Pravy Sektor”; una viceministra degli esteri democratica che in Parlamento difende, contro le critiche motivate di Anpi e tanti altri soggetti antifascisti, la nomina del non abiurante il fascismo Vattani ad ambasciatore a Singapore, per non parlare del fatto che sul terreno sociale ed etico si sono susseguiti in questi anni provvedimenti (dalle leggi anti-migranti al job act) che sono stati giustamente criticati e avversati dall’Anpi e che, svuotamento di principi sostanziali la Costituzione (che resta, come diceva Ingrao, “l’arma degli antifascisti”), spianano la strada alla demagogia fascista.
Va detto che in Germania, fra il 1918 e il 1930, governi e partiti “democratici”, avevano fatto di peggio, facendo massacrare dai “corpi franchi” gli operai in rivolta, assassinando i leader comunisti Liebcknecht e Luxemburg, reprimendo solo i comunisti, condannando a pene risibili i responsabili (fra cui Hitler) del tentato putsch di Monaco del 1923 e in Italia la collusione fra guardie regie, settori militari, funzionari statali e squadristi fascisti era stata organica dal primo istante, fino a palesarsi al massimo livello nell’ottobre 1922, con l’incarico affidato a Mussolini da re Vittorio Emanuele III.
Dopo il Primo conflitto mondiale, spacciato come “la guerra che avrebbe messo fine a tutte le guerre”, agli elementi di ordine socio-economico strumentalizzati dai movimenti fascista e nazista, si aggiungevano agitazioni ipernazionaliste, ingigantite dalla propaganda demagogica, contigua quando non sovrapposta al sorgente fascismo; e le frustrazioni dovute al trattato di Versailles, in particolare nel caso dell’effettivamente umiliata Germania, ma anche di una Italia in cui rapidamente venne diffusa la falsa idea della “pace mutilata”, accoppiata alla retorica futurista della “guerra come sola igiene del Mondo”. Quell’ipernazionalismo era figlio diretto, oltre che della “nazionalizzazione delle masse” operata in guerra (dalla disciplina militare estesa al “fronte interno” e dalla propaganda martellante), di quello precedente il conflitto, che il potere monarco-militare e i settori economici pronti ad approfittare delle commesse belliche avevano appoggiato, nutrito, usato, gonfiato nel periodo degli scontri fra imperialismi che portarono appunto alla Prima guerra.
Le “radiose giornate di maggio” italiane del 1915 con intellettuali interventisti, piccolo-borghesi, studenti di estrazione borghese, artisti futuristi a riempire le piazze italiane per l’entrata in guerra; le manifestazioni di giubilo sciovinista e antirusso/antifrancese che segnarono la mobilitazione in Germania nel 1914; le infami tesi di Cadorna che additava nei pacifisti e nei socialisti i colpevoli della disfatta di Caporetto nel 1917; le misure di italianizzazione forzata delle aree slavofone e germanofone acquisite dal Regno d’Italia nel 1918, sono le madri legittime delle teorie postbelliche tedesche sulla “pugnalata alle spalle” e di quelle italiane sulla “vittoria mutilata”. E figli del collante” ideale ipernazionalista oltre che del disprezzo di classe furono i Freikorps germanici, milizie largamente utilizzate anche dal governo socialdemocratico di Weimar per reprimere sanguinariamente i moti comunisti, e lo squadrismo fascista prima e nazista poi, largamente foraggiato e appoggiato dalle caste militari, settori del padronato e monarchici, in entrambi i Paesi.
Dunque alla base stessa del fascismo c’è l’intreccio da un lato fra odio di classe, xenofobia, militarismo, sessismo, razzismo esplicito o in nuce e proclami radicalrivoluzionari, giovanilisti, spesso mascherati da “rossi”, dall’altro fra culto della violenza, disprezzo della scienza non asservita al pregiudizio, esoterismi scoperti o occulti, complottismi e organici rapporti con i ceti e gli strati più retrivi e conservatori della società. E va ricordato che il fascismo è una triste invenzione italica (assieme al mitragliamento aereo dei civili, all’uso dei gas contro gente inerme, alla teoria ed alla pratica del bombardamento aereo a tappeto terroristico), poi ripresa dall’allievo che superò il maestro, il nazismo.
Va inoltre sottolineato che razzismo e antisemitismo, pur preesistenti alla nascita di fascismo e nazismo, ne costituiranno elemento essenziale e sono anche essi basati sulla falsità: l’esistenza di distinte “razze” umane che la scienza oggi ha definitivamente provato essere una menzogna, e sulla loro gerarchizzazione. Mendacità che allora coinvolgevano pure figuri come Goebbels e lo stesso Hitler, nulla avendo dei caratteri fisici della presunta “superiore razza ariana”. La storia e la memoria incancellabile della Seconda guerra mondiale hanno mutato in parte il panorama. Certo, grazie agli effetti del “tana libera tutti” voluto dagli Alleati in funzione antisovietica verso il 99% dei criminali nazifascisti, mai processati o che non hanno scontato le condanne comminate, si è potuta mantenere una continuità fra i vecchi nazifascismi e i loro seguaci attuali, spesso in loco. In Italia, in Europa e nel mondo grazie alle comunità di ex-nazifascisti ed ex-collaborazionisti amabilmente ospitati, quando non riciclati negli apparati statali e industriali: in Spagna, Argentina, Brasile, Paraguay, Canada, Usa, Australia, da cui sono germinati organismi tornati ad impestare l’Est Europa dopo il crollo dell’Urss e dei Paesi del “socialismo reale”.
Oggi però, i cultori di Hitler e i negazionisti della Shoah non sarebbero così nefasti se solo gli argini attorno a loro non avessero largamente ceduto su due piani interconnessi: si è dato loro spazio nei media e nelle fiction, nella letteratura e nei dibattiti, legittimandoli in nome di una aberrante par conditio con le vittime. Mentre si toglieva voce agli storici veri, ai testimoni, ai Resistenti. Così si è fatta largo un’azione negazionista, revisionista, di falsificazione, come per esempio la vulgata degli “Italiani brava gente” ha rimosso dalla consapevolezza comune i crimini del Regio esercito in Libia, Etiopia, Grecia, Albania, Yugoslavia e Urss. E in Parlamento europeo si è arrivati a equiparare mistificatoriamente comunismo e nazifascismo. Contemporaneamente si è permessa ogni tipo di continuità e contaminazione in sede elettorale, comunale, regionale, parlamentare fra partiti e relitti personali e ideologici, teorici e pratici del passato, disapplicando la XII norma finale della Costituzione e le leggi Scelba e Mancino. Spesso con la scusa che certe formazioni politiche non sono esplicita “ricostituzione del partito fascista”. Ricordiamo che il giudice Occorsio pagò con la vita l’isolato tentativo di determinare le condizioni per lo scioglimento di schegge criminali neofasciste.
Come afferma l’Anpi, come reitera quotidianamente il suo presidente Pagliarulo, solo una grande alleanza delle forze che hanno la loro radice e la loro ragione di essere nell’antifascismo può prima arginare e poi far arretrare questa onda nera che sfrutta ogni crisi, da quelle economiche a quelle pandemiche, da quelle identitarie a quelle delle prospettive giovanili; una alleanza, naturalmente che, per essere efficace, deve superare definitivamente ambiguità, settarismi, flirt, aree grigie, confusioni che già una volta hanno concorso a favorire la crescita del fascismo e del nazismo, se non vogliamo che la Storia rischi, seppur in modo nuovo, di ripetersi.
Silvio Marconi, antropologo storico
Pubblicato mercoledì 3 Novembre 2021
Stampato il 03/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/lemail/crisi-economica-o-pandemia-i-nazifascisti-cavalcano-sempre-le-emergenze/