C’è qualcosa che non funziona. Ricordate tale Amedeo Mancini, frequentatore di CasaPound a Fermo, membro di un gruppo ultrà della squadra di calcio della Fermana dalla stessa connotazione politica (“Curva Duomo”) e già raggiunto da un provvedimento di Daspo? Per il Gip – dichiarazione immediatamente successiva al suo arresto –, Mancini aveva “una personalità violenta, aggressiva, prevaricatrice, insofferente ai dettami della legge, incapace di controllarsi”. Ancora. “Nel suo passato – si legge su Il Fatto del 7 luglio 2016 – ci sarebbero diversi piccoli litigi e aggressioni, mai denunciate dalle vittime perché fatti di poco conto”. E poi: “Un attaccabrighe, un soggetto borderline che dà in escandescenze con facilità”. Sì, proprio quel Mancini che nel luglio 2016 ammazzò Emmanuel Chidi Nnamdi, che aveva reagito al suo volgare insulto razzista. Arresto, processo, accusa di omicidio preterintenzionale, patteggiamento di quattro anni, e dopo dieci (diconsi dieci) mesi fra carceri e domiciliari, libero come una farfalla. A leggere sui giornali le motivazioni, sembra che il signor Mancini sia una perla d’uomo, mentre invece il povero Emmanuel e la sua compagna Chinyere, entrambi sfuggiti alla furia omicida di Boko Haram, fossero una coppia violenta e provocatrice. Si ricorderà che la perla d’uomo oggi libero come il vento apostrofò la coppia nigeriana con le seguenti riflessioni antropologiche: «africans scimmia» e «negri di merda». Da ciò la rissa ed il fatale pugno della suddetta perla d’uomo.
Vanno rispettate le decisione del giudice, sia chiaro. Ma non sfugge l’enormità della sproporzione fra l’esito del reato – la morte di un uomo –, corredato dall’aggravante della provocazione razzista, e la leggerezza della pena. Non è una questione di vendetta. È una questione di giustizia.
Un anno dopo l’uccisione di Emmanuel.
L’immonda violenza di Rimini da parte di quattro ragazzi nei confronti di una coppia di polacchi e poi di una trans. Nelle ore immediatamente successive alla notizia del fattaccio, il vice ministro della Giustizia polacco, Patryk Jaki, affermava: «Ci vuole la pena di morte per i responsabili e, per questo caso, addirittura anche la tortura», ed aggiungeva: «Sono sempre stato e sono un sostenitore della pena capitale». Immediatamente dopo il fermo dei quattro ragazzi accusati del reato, si veniva a sapere che la Polonia avrebbe chiesto l’estradizione degli accusati. Ora, ovviamente, non è in discussione né l’estrema gravità del reato, né la sacrosanta ondata d’indignazione da questo causata, né, infine, la necessità di una pena esemplare, in base alle prescrizioni delle leggi e dei codici italiani. Ma se un tizio che non è uno qualsiasi, perché fa il viceministro della Giustizia di un Paese fra l’altro membro della Ue, dichiara ciò che ha dichiarato, non solo si mette al di fuori della Ue dove nessun Paese ammette la pena di morte, ma si espelle da solo dal consesso civile quando parla di tortura. Per il signor Patryk Jaki la sconvolgente vicenda di Rimini va affrontata in termini di vendetta. Ma non è una questione di vendetta. È una questione di giustizia.
L’impressione è che si stiano smarrendo i fondamentali, oscillando fra una clemenza non sempre opportuna ed alle volte del tutto fuori luogo ed uno spirito vendicativo che travolge secoli di tradizione giuridica. Eppure si vorrebbe che la giustizia sia un piatto che si serva freddo, senza condizionamenti emotivi, né porgendo l’altra guancia né praticando la legge del taglione. Ciò che si vorrebbe, in fondo, è una giustizia che sia certa e giusta sempre e per davvero.
Pubblicato venerdì 8 Settembre 2017
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