Papà e mamma decisero di prendere in affitto un piccolo giardino non lontano dal paese; la nostra numerosa famiglia lo avrebbe dovuto coltivare con un minimo d’impegno, e io e Vincenzo fummo forniti di due piccole zappe adatte alla nostra età e costruite dal fabbro del paese.
Fu così che incontrammo per la prima volta don Calogero. Lo trovammo un uomo eccezionale: con il fuoco e il martello plasmava sull’incudine il ferro ancora caldissimo, così come nostra madre impastava con le sue mani la farina per preparare il pane e la pasta.
Gli attrezzi che il fabbro costruiva erano bellissimi, con l’ingegno e l’arte sopperiva alle varie esigenze degli abitanti di Villafranca Sicula. Don Calogero fu meravigliato dalla nostra curiosità per i suoi lavori e ci permise di frequentarlo quotidianamente.
Un giorno tentò di convincerci che, avendolo noi aiutato ad azionare la vecchia ventola a mantice della sua bottega, avevamo contribuito a costruire l’aratro a chiodo che l’indomani uno dei contadini avrebbe utilizzato per lavorare la terra; poi disse: “Il fuoco e l’ingegno dell’uomo possono rendere tutto inseparabile, solo però con l’aiuto di Dio”.
Il giorno dopo, il contadino che aveva commissionato l’aratro venne a ritirarlo e don Calogero con un coltello incise su due pezzi di legno morbidi, che chiamava “ferla”, dei segni: uno lo consegnò al contadino, l’altro lo appese alla parete della bottega già tappezzata di tanti altri legni di sommacco tutti uguali, spiegandoci che il contadino avrebbe pagato l’attrezzo solo dopo avere raccolto il suo grano. La contabilità di don Calogero con i contadini del piccolo paese funzionava a meraviglia.
Qualche giorno dopo il fabbro ci raccontò che molti contadini di Villafranca erano diventati proprietari di piccoli appezzamenti di terra grazie al cuore del barone Musso che volle, prima della sua morte, donare tutte le terre che possedeva ai poveri del paese. Ci portò fuori dalla bottega e con la sua mano indicò una piccola casetta di colore rosa posta sulla collina sovrastante: “In quella piccola cappella, disse, ora riposa il benefattore dei nostri contadini”.
Con Vincenzo e altri ragazzi decidemmo di andare a visitare la collina e lo trovammo un luogo bellissimo. Dall’alto si dominava la valle degli ulivi e dei mandorli così tanto intensi nel loro bianco candore da apparire agli occhi di noi ragazzi come una grande distesa di neve. Al nostro ritorno parlammo con lui di ciò che avevamo provato visitando quel luogo, ed egli ne fu contento, poi sussurrò “Chi dovrebbe onorarlo spesso non lo fa”, noi domandammo perché e con tono garbato rispose “Perché così è l’uomo”.
Vincenzo cominciava ad avere un affanno sospetto e papà, con i pochi mezzi disponibili, lo portò a Palermo, la città che avevamo dovuto lasciare qualche anno prima a causa della guerra. La diagnosi per il povero Vincenzo fu di grave malattia cardiaca e la mamma, a quel punto, non sapeva più quale santo pregare. Da quel momento, adeguammo anche i nostri giochi alle condizioni di salute di Vincenzo per non farlo affaticare molto. Qualche tempo dopo, papà ci lasciò per sempre a soli 52 anni anche se lo curammo con amore. Ma le scarpe che aveva costruito e gli attrezzi di lavoro ci aiutarono a sopravvivere.
Vincenzo aveva appena tredici anni e io ne avevo solo dieci, ora per la nostra grande famiglia tutto diventava più difficile.
Quell’anno la primavera tardava ad arrivare e i numerosi bracieri, unica fonte di calore disponibile, continuavano a bruciacchiare le gambe delle donne. La mamma faceva miracoli per sostenere la famiglia e continuava come sempre a comprare a me e a Vincenzo il latte appena munto dalle caprette che all’alba di ogni giorno ci svegliavano con il tintinnio delle campanelle che portavano legate al collo.
L’estate fu pesante per la nostra numerosa famiglia quanto l’ultimo inverno da noi trascorso a Villafranca. Con la mamma e le mie sorelle ci recammo per alcuni giorni in una casa di persone benestanti a schiacciare le mandorle appena raccolte; fummo compensati, per una parte del nostro lavoro, con i loro gusci che ci sarebbero serviti per scaldarci durante l’inverno seguente. Finita la stagione fredda, le rondini iniziavano a sorvolare le case del paese e le uova nei nidi si schiudevano ai nostri occhi, finalmente il primo sole tornava a scaldarci. Eravamo dovuti scappare da Palermo all’indomani del primo bombardamento sulla città a opera dei francesi.
La nostra casa rimaneva non lontano dai cantieri navali e dal porto e la vita della nostra famiglia era la prima cosa da salvaguardare. Il ricovero di tufo che avevamo anche noi frequentato venne distrutto da alcune bombe qualche giorno dopo la nostra partenza per Villafranca: nessuno di quanti pensavano di avere trovato un posto sicuro riuscì a salvarsi.
Al nostro rientro a Palermo non trovammo nulla di quello che avevamo dovuto frettolosamente lasciare. Ci fu offerta una piccolissima casetta che ci consentì di potere vivere nella nostra città. Tutta la famiglia si adattò ai pochi lavori possibili, in quel difficile e tormentato rientro. Le coccole della famiglia erano tutte per Vincenzo in conseguenza dello stato di salute sempre più precario, e io ne ero contento. Vincenzo era un ragazzo meraviglioso e spiritosissimo, con tanta voglia di divertirsi e di vivere. Egli aveva ereditato la passione per la musica da papà che, pur suonando a orecchio, era molto bravo anche a comporre canzoni contro il regime fascista.
Il mandolino di papà tornò a strimpellare con Vincenzo e la mamma non perdeva occasione per ricordare il marito; i suoi racconti parlavano solo di cose positive, ma noi sapevamo che per lei con i suoi dieci figli dati alla luce non era stato sempre così, l’ascoltavamo con affetto, rispetto e ammirazione.
Per le strade di Palermo si incontravano i mestieri più strani, che ognuno assolveva con dignità, pur di vivere. All’angolo della nostra strada, fin dalle prime ore del mattino, sostava un uomo con una grande caldaia di rame fumante; di tanto in tanto qualcuno si fermava ad acquistare una tazza di brodo di castagne secche ancora caldo, lo chiamavano il caffè dei poveri.
La vigilia del quattro settembre la mamma pretese che tutta la famiglia insieme a parenti e amici iniziasse al tramonto il viaggio a piedi per raggiungere la grotta di Santa Rosalia attraverso la vecchia strada acciottolata; il suo cuore sperava in un miracolo per la guarigione di Vincenzo. La devozione della mamma per la Santa era pari all’amore che nutriva per il figlio tanto malato.
Ci unimmo lungo il sentiero ad altri fedeli che procedevano a piedi, alcuni recitando il rosario, altri cantando o tenendo grandi candele tra le mani, altri ancora in ginocchio con fatica e sofferenza.
Prossimi alla grotta vi trovammo migliaia di persone che in qualche modo avevano sistemato le loro tende di fortuna. I bimbi scorrazzavano con gioia e le lampade a petrolio illuminavano le azzurre rocce del monte Pellegrino che un grande della letteratura come Goethe aveva definito essere il più bel promontorio del mondo.
Con Vincenzo curiosammo tra la gente guardando i numerosi banchetti con tante pietanze già pronte, tutti in attesa della cerimonia religiosa che si sarebbe svolta la mattina.
Nei mesi che seguirono Vincenzo fu costretto a lunghe degenze in ospedale. Assieme a Libertino, il secondo dei miei fratelli, facemmo lunghe code per acquistare la penicillina nei pochi centri di distribuzione. Neanche questo nuovo e importante farmaco riuscì ad alleviare le innumerevoli sofferenze.
La notte del 31 dicembre 1948, mentre la città si preparava a festeggiare l’ingresso del nuovo anno con spari e allegria, il nostro Vincenzo ci lasciava per sempre. Provai un grandissimo dolore e mi parve di morire; ai modestissimi funerali ci mancarono molto i nostri amici di Villafranca che la guerra ci aveva fatto incontrare.
Qualche giorno dopo, mia madre volle essere accompagnata nella vicina parrocchia di Santo Antonino da Padova: dopo avere recitato qualche preghiera, si inginocchiò innanzi la statua del Santo e con voce spezzata lo ringraziò per avere posto fine alle sofferenze di Vincenzo. Io piansi ancora e mi rifiutai di capire, poi lei strinse la mia mano e disse: “Forse ora la guerra è finita anche per noi”.
Ottavio Terranova, presidente provinciale Anpi Palermo
Pubblicato venerdì 22 Luglio 2022
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