Proponiamo ai lettori uno speciale sull’internazionalismo nella lotta di Liberazione italiana, una straordinaria ricerca in esclusiva per Patria Indipendente. Autore del prezioso lavoro è lo storico Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi. Lo studioso ha contribuito alla realizzazione del libro di Carlo Greppi “Il buon tedesco” , da poco in libreria per Laterza, e con questo saggio ci offre testimonianze inedite su ulteriori vicende ancora poco note. Il focus è sulla IV Zona Operativa, la provincia della Spezia con sconfinamenti nella Lunigiana toscana e nel Parmense, ma può sollecitare analoghe indagini in altri territori. Perché la linea di divisione tra “buoni” e “cattivi”, illustra puntualmente Pagano, non fu solo tra due campi opposti ma pure all’interno degli Stati in guerra e in questa forma non era mai accaduto.
Oltre a tornare sulla figura di Rudolf Jacobs, attorno a cui ruota il libro di Greppi, Pagano fa luce su altri disertori dell’esercito uncinato passati alla “parte giusta”; racconta di fascisti più spietati dei militari della Wehrmacht; della compagna di Dante Castellucci “Facio”, Laura Seghettini che, divenuta comandante partigiana, ebbe salva la vita grazie a un tedesco; di migliaia di stranieri, spesso tuttora senza un nome, morti per la libertà di tutti; di antifascisti germanici combattenti prima in Spagna contro Franco e poi nel nostro Paese.
E nel momento attuale, con il riaffacciarsi di movimenti neofascisti e il corollario di derive razziste, xenofobe, antisemite in Italia e in Europa che rischiano di mettere in discussione le radici antifasciste dell’Unione, è bene sapere che il sogno nato a Ventotene cominciò a realizzarsi già durante la lotta. Buona lettura.
L’INTERNAZIONALISMO DELLA RESISTENZA NELLA IV ZONA OPERATIVA
Prima parte
RUDOLF JACOBS E LA DISERZIONE TEDESCA
“Il Tedesco buono”
Tante storie della Resistenza nella IV Zona Operativa – nella provincia della Spezia, con sconfinamenti nella Lunigiana toscana e nel Parmense – meritano di essere raccontate per il loro carattere universale. Tra esse spicca quella del sottufficiale tedesco Rudolf Jacobs, “disertore e partigiano”, come recita una targa posata, sia pure con grande ritardo, nella sua Brema. Una storia affascinante – che nel passato ha ispirato romanzi e film, come quelli di Ansano Giannarelli e di Luigi Faccini – alla cui ricostruzione ha lavorato lo storico Carlo Greppi nel suo libro Il buon tedesco, da poco pubblicato da Laterza.
Jacobs era chiamato “il tedesco buono” dagli abitanti di Pugliola, frazione sulle alture di Lerici, dove viveva in una bellissima villa in cui i tedeschi si erano insediati dopo l’8 settembre 1943. Al loro comando c’era proprio Jacobs, sempre nominato “capitano” ma in realtà caporalmaggiore della Marina, che aveva il compito di progettare le fortificazioni del golfo spezzino. Il grande interesse del libro sta innanzitutto nel racconto della “scelta morale” di Jacobs e della sua “incubazione”. Secondo la studiosa tedesca Birgit Schicchi Tilse, che riporta come fonte la moglie di Jacobs, Herta, il “capitano” aveva aiutato a fuggire dalla Germania un collega ebreo.
Certamente a Pugliola si comportava diversamente dagli altri tedeschi: combatteva chi voleva approfittare della situazione per arricchirsi a dismisura con la borsa nera e sosteneva e aiutava le popolazioni. Di fronte alle proteste dei lavoratori della cooperativa fascista “La Sociale”, che li sfruttava senza vergogna nell’ambito degli appalti per le fortificazioni per conto dei tedeschi della Todt, Jacobs rimosse la direzione della società e insediò ai suoi vertici un fascista lericino stimato anche dal CLN, Paolino Strambi. Parlava abbastanza bene l’italiano e ciò gli consentì di stringere amicizie nel borgo.
Con tutte le attenzioni opportune si intensificarono gli incontri del “tedesco buono” con Edilio Lupi, uno dei membri lericini delle SAP, che fu la fonte ispiratrice del romanzo storico di Luigi Faccini L’uomo che nacque morendo. In una testimonianza raccolta da Antonio Bianchi nel libro Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana, Lupi raccontò che dai profitti della cooperativa di Lerici affluivano sussidi alle famiglie dei partigiani e finanziamenti all’ospedale partigiano di Albareto, nel Parmense. [1]
Lupi era comunista. L’antifascismo lericino non fu solo comunista, fu anche cattolico. Basti ricordare don Emilio Gandolfo, giovane prete, vicario della parrocchia di San Francesco dalla metà del 1943 al giugno del 1944, impegnato nella Resistenza con un gruppo di giovani scout. Ma soprattutto Lerici è una terra con una grande tradizione di forze prima repubblicane e libertarie, poi socialiste e comuniste.
Protagonista del biennio rosso con gli operai che lavoravano nelle fabbriche al confine con La Spezia – un loro rappresentante, Angelo Bacigalupi, fu nel 1919 il primo deputato socialista della provincia – Lerici resistette all’ascesa del fascismo nel 1921-1922. Numerosi furono gli scontri, che culminarono il 15 febbraio 1922, quando gli arditi del popolo della frazione della Serra respinsero le squadracce fasciste.
Quel giorno l’antifascismo lericino ebbe la prima vittima, il marittimo comunista Stefano Gabriele Paita. Il Partito comunista, nella casa del muratore Leone Carrii, vicino al Castello di Lerici, installò una tipografia clandestina tra il 1929 e il 1933, fino alla scoperta da parte dei fascisti e alla condanna degli organizzatori da parte del Tribunale Speciale. Uno di loro – un altro Lupi, Tommaso – nel settembre 1943 installò ancora una tipografia, per il PCI clandestino e per il CLN, in una villa alla Rocchetta di Lerici, che fu scoperta nel novembre 1944 (ma quella volta senza arresti). Lì furono stampati i volantini per il grande sciopero operaio del marzo ’44, così come quelli, scritti in tedesco, che i partigiani lanciavano dentro i luoghi occupati dai nazisti. Edilio Lupi, correndo in bicicletta, li lanciava nel quartier generale tedesco di stanza nella villa di Pugliola dove Jacobs viveva.
Nel libro viene narrato “l’avvicinamento progressivo” di Jacobs alla Resistenza. “Il tedesco buono”, quando disertò, visse oltre un mese nascosto nella casa, lungo la strada tra Pugliola e Cerri, di Corrado Rebolini e Stella Corsi, staffette comuniste. A dimostrazione che la ricerca storica non mette mai davvero un punto definitivo, abbiamo riscoperto, presentando il libro di Greppi a Pugliola, il film documentario La Terra la guerra una questione privata donne di Pitelli raccontano, girato dal giovane regista Stefano Lambrosa, che raccoglie una serie di interviste alle donne di questo borgo collinare spezzino al confine con Lerici.
Tra le donne intervistate c’era Stella Corsi, che così raccontava: «Abbiamo nascosto Jacobs oltre un mese. Eravamo bersaglio dei tedeschi, dei fascisti ma anche dei partigiani: è vero che sapevano, ma non tutti. Non si fidavano dei tedeschi. Poi è venuto il “Memo”, con altri partigiani, e l’han portato via, ai monti» [2].
Il “Memo”, nome di battaglia del partigiano Alessandro Brucellaria, uno dei protagonisti della Resistenza carrarese, compare per la prima volta nella memorialistica su Jacobs. Stella, nell’intervista, lo nominò due volte. Ed è del tutto plausibile. Jacobs, infatti, salì ai monti il 3 settembre 1944, accolto da Piero Galantini “Federico”, che divenne comandante della Brigata garibaldina “Ugo Muccini” solo in seguito, al momento della sua costituzione, il 19 settembre 1944 a Faeta, nelle colline di Fosdinovo sopra Sarzana.
Prima di quella data la situazione era confusa: il 7 agosto si era svolto a Tenerano, sul versante nord delle Apuane carraresi, un incontro promosso dai partiti antifascisti – in particolare dai comunisti – per unire le bande attive nella zona in una nuova Brigata, che su proposta dei sarzanesi prese il nome di Ugo Muccini. C’erano, tra le altre, la banda del “Memo” – gli ex gappisti carraresi della “Ulivi” –, quella del sarzanese Flavio Bertone “Walter” e forse anche la banda di “Federico”, anch’egli sarzanese. Ma questo «gigante di circa 700 uomini minato dalle rivalità e dagli autonomismi delle bande componenti» [3] non resse alla prova delle stragi nazifasciste di agosto.
La banda del “Memo” si insediò nelle Apuane, mentre quelle di “Walter” e di “Federico” diedero vita alla Brigata garibaldina “Ugo Muccini”, la “brigata dei sarzanesi” [4]. Jacobs, nella sua prima fase di diserzione, conobbe dunque la prima Brigata Muccini, quella in cui c’era anche “Memo”. Il primo incontro, il 3 settembre, fu in ogni caso con “Federico”, allora comandante della banda “Bottero”, in qualche modo facente parte, in quella situazione così incerta, della prima Brigata Muccini. Galantini, nei suoi vari testi dedicati a Jacobs, scrisse sempre del 3 settembre, salvo una volta, in cui scrisse del 30 settembre. Greppi propende giustamente per il 3 settembre, considerando l’altra indicazione come un refuso. La testimonianza di Stella Corsi rafforza questa tesi, perché il coinvolgimento del “Memo”, se ci fu, non poté certamente esserci a settembre inoltrato, ma ben prima.
Galantini ricordò l’incontro del 3 settembre in un testo molto bello scritto pochi mesi più tardi, il 29 marzo 1945 a guerra ancora in corso, facente parte di una raccolta di racconti intitolata La nostra vita: «Ci incontrammo una sera, una buia sera autunnale, una fitta pioggerella inumidiva le ossa e inacerbiva gli animi. Il camion rovesciato nell’arido alveo del vicino torrente rantolava nell’inutile sforzo del motore. Non molto lontano ferveva la vita e il movimento del nemico, quel nemico dal quale egli rifuggiva, fratello, per sempre. L’oscurità incipiente non mi permise di fissare la fisionomia. Soltanto una stretta di mano forte che durò qualche istante. Fui contento! La naturale diffidenza che voleva quei pochi rapporti tra partigiani e tedeschi, era scomparsa. Simpatia spontanea, amicizia di lotta, affinità di pensiero mi legarono subito a lui. Bastò una stretta di mano. Ma servì a rivelarmi tante cose; la nobiltà dei suoi sentimenti, l’orgogliosa fierezza della sua volontà di combattere per il bene dei popoli sofferenti, la semplicità del suo animo. Non mi ingannai!» [5].
Parole da cui traspare la forte sintonia che subito scattò tra due ex militari diventati partigiani: Galantini era infatti un ex ufficiale di complemento.
Un eroe tragico
Jacobs disegnava per i partigiani le mappe delle fortificazioni e rilevava le mine, ma scalpitava, voleva combattere, come scrisse Galantini nel suo racconto: «Quante volte dichiarò che sarebbe morto contento se avesse saputo che la sua diserzione avrebbe ridotto di poco gli spasimi dei popoli in lotta, quante volte la sensibilità del suo animo lo indusse profondamente a meditare con acerba acrimonia sui delitti dei suoi connazionali» [6].
Il “capitano” combatté il 2 ottobre, poi il 3 novembre, nella “sua battaglia”. Nel tardo pomeriggio una squadra di nove, forse dieci partigiani della “Muccini”, in uniforme tedesca, capeggiati da Jacobs e dal suo attendente, bussò alla porta dell’Albergo Laurina di Sarzana, sede della compagnia della Brigate Nere, chiedendo di entrare. Lo scopo era eliminare tutti i militi del presidio, riuniti per la cena. Lo stratagemma però non riuscì, anche perché i fascisti si dimostrarono molto prudenti: Jacobs uccise il piantone, si gettò oltre la soglia ma al secondo colpo la sua arma si inceppò. Nella sparatoria il “capitano” fu ucciso, il suo attendente ferito.
«Il ricordo che ho io di quest’uomo? Un uomo triste, un uomo ferito – come posso dire» [7], racconta a Greppi la staffetta Vega Gori “Ivana”. Jacobs dava allora per certo che la moglie fosse morta, uccisa nei bombardamenti di Amburgo del luglio 1943. Piero Galantini ricordò che scriveva poesie, Paolino Ranieri “Andrea”, il commissario politico della “Muccini”, rievocò il suo amore per la musica. Dalle pagine di Greppi emergono i sentimenti del tempo: amore, fratellanza, vendetta, voglia di uccidere, voglia di morire. La forza del libro è anche nell’abilità narrativa dell’autore: emerge il “personaggio” Jacobs, fin dove le fonti – e anche un po’ l’immaginazione – lo consentono.
Fratellanza è una parola chiave, in Jacobs e nella Resistenza. Greppi scrive di «impulso – istintivo e politico – alla fratellanza universale» [8]. Galantini, nel racconto scritto nel 1945, usò altre due volte, oltre che nel passo già citato, il termine “fratello”: «Per lui e per noi non era il tedesco, il nemico, il responsabile di tanti delitti: era un fratello accomunato nelle identiche finalità perché per lui, come per noi, nazismo e fascismo significavano lutti e rovine»; «Oggi, al di là del fronte [Galantini scrisse il racconto a Pescia, in territorio controllato dagli Alleati, perché aveva passato il fronte dopo il rastrellamento del 29 novembre 1944, nda], in una piccola cittadina italiana [Sarzana, nda] è la sua tomba marmorea confusa tra mille. Un mazzo di fiori rossi, simbolo del sangue, è l’esteriore ricordo dei patrioti italiani che lo ebbero fratello in rischiose avventure ed in combattimenti continui» [9].
La copia del racconto di Galantini depositata nell’Istituto ha una pagina finale che non è nel racconto consegnatomi dal figlio, che assai probabilmente fu aggiunta contemporaneamente alla lettera di accompagnamento a “Tullio”, subito dopo la Liberazione.
Galantini scrisse: «La grandezza di Rodolfo, oltre che nella sua grande coscienza di uomo, sta in questa sublimità: aver voluto morire eroicamente per gettare le basi di una fratellanza universale dei popoli» [10] . Nella lettera a “Tullio”, Galantini ribadiva che Jacobs «è stato veramente un eroe, ha voluto morire per la sua vera Patria tedesca, per riscattare la dignità di un popolo» [11]. In entrambi i casi la parola “voluto” è sottolineata. Nel racconto Galantini scrisse: «Ricorderò sempre, quando i pensieri mi accomuneranno nei ricordi alla sua memoria, il suo viso di quella sera. Mi guardò fissamente; ma nei suoi occhi c’era un velo che non avevo veduto mai. Non vi era la limpidezza solita» [12].
Jacobs è un eroe tragico. La tragicità del suo sacrificio ci parla ancora. Il suo comportamento di fronte alla morte ricorda quello di altri due eroi tragici, anch’essi “leggende” perenni della Resistenza in IV Zona operativa: Piero Borrotzu “Tenente Piero” e Dante Castellucci “Facio”. Morti diversissime tra loro, ma accomunate dalla tragicità dell’accettazione e dell’ineluttabilità del sacrificio [13].
Il libro di Greppi è di grande interesse anche perché è una ricerca sul fenomeno della diserzione tedesca. Rudolf Jacobs è un eroe difficile. Sapeva che «avrebbe potuto morire non una ma due volte» [14]. In battaglia contro i suoi ex commilitoni e nella memoria pubblica del suo Paese.
Le testimonianze dei partigiani e dei fascisti convergono sul fatto che i partigiani indossassero la divisa tedesca. I fascisti, imbarazzati, nella loro relazione tacquero il fatto che a dirigere l’attacco alla caserma fosse stato un tedesco disertore, e ne nascosero il cadavere per alcuni giorni [15]. Lo raccontò Stella Corsi nel film citato: «Al mattino mi hanno detto: Jacobs è morto. I partigiani di Pugliola: vai a vedere all’ospedale, fai vedere che sei una parente. Sono andata in bicicletta all’ospedale, ho detto: cerco mio nipote. Ho visto Jacobs. Era vestito da fascista. Viene un comandante tedesco, un uomo alto, vede che sotto è vestito da tedesco. Quando l’hanno portato via il comandante ha detto: non si spoglia, eh» [16]. I tedeschi non volevano che si sapesse. Poi i partigiani riuscirono a recuperare il corpo del “capitano”.
Nel dopoguerra Jacobs diventò, in Germania, “uno che ha combattuto contro di noi”. Erich Heinrich Rahe, “Enrico”, l’unico disertore tedesco nella IV Zona operativa ancora in vita, ha raccontato a Greppi: «Non potevo dire di essere stato con i partigiani» [17].
Ma perché si disertava? Lo si faceva, a volte, per un ideale. Jacobs non era comunista ma aveva un ideale di nuova umanità. A volte la diserzione – emerge dal libro – era un fatto più occasionale, legato alla natura stessa della guerra, della vita militare. Si disertava per stanchezza della guerra, per insofferenza della disciplina, per nostalgia della famiglia. Ma anche in questo caso scattava la “scelta morale”. Una scelta straordinaria, se si pensa alla mentalità e alla cultura, nazionaliste e razziste, dentro cui si era formata quella generazione di militari. Fu un fenomeno limitato? Sì, ma assai meno di quanto si pensi. I disertori tedeschi in Italia furono 2-3 mila, sostiene Greppi. Molti di più in Europa, dove ci furono ben 15 mila esecuzioni di disertori tedeschi: un numero impressionante.
Greppi ha scoperto un documento su 12 esecuzioni alla Spezia. Si pensava che i disertori tedeschi in IV Zona fossero una quindicina. Grazie allo stimolo di Greppi ho continuato a cercare: sono certamente oltre 40 (20 nei documenti ufficiali, studiati da Maria Cristina Mirabello, vicepresidente dell’Istituto storico spezzino). Tra loro uno dei primi caduti della Resistenza in IV Zona, Hans di Colonia, morto suicida il 26 marzo 1944 per non farsi catturare dai nazifascisti. Era nella banda del “Tenente Piero”. Tra loro anche il sottufficiale tedesco che svelò i piani di minamento del Golfo della Spezia e operò per sminarlo, poi sostituito dai partigiani quando ormai era stato scoperto. A lui dobbiamo la salvezza del Golfo.
Una relazione statunitense riferita a un centinaio di prigionieri di diverse divisioni catturati tra settembre e ottobre del 1944 nella zona dell’Appennino bolognese affermava che «almeno un quarto dei soldati tedeschi in Italia “avrebbero potuto combattere fino all’ultimo proiettile”, un altro quarto era pronto ad arrendersi al minimo pretesto, e tra questi due estremi c’era una larga massa di uomini indifferenti e indecisi, che si sarebbero arresi se si fossero trovati in condizioni in cui la loro vita era a rischio, o che sarebbero stati pronti a disertare se convinti a fare questo passo da un leader» [18]. Sono considerazioni che credo valgano in generale per l’armata tedesca di stanza nel nostro Paese.
Antifascismo ed europeismo
La diserzione tedesca fu, in ogni caso, un fenomeno di grande significato storico, etico, civile. Che infrange il mito del “cattivo tedesco” e del “bravo italiano”, che ci ha consentito di rimuovere tutti gli orrori di cui siamo stati capaci. Rudolf Jacobs, “il tedesco buono” fu ucciso da un fascista, un “cattivo italiano”.
Dal libro di Greppi emerge con nettezza che la guerra contro il nazifascismo fu universale, internazionale, transnazionale. In particolare è stata europea. La linea di divisione non fu solo tra i due campi opposti ma anche all’interno degli Stati in guerra. In questa forma non era mai accaduto nella storia europea. La pattuglia che partecipò all’incursione del 3 novembre era composta, oltre che da Jacobs e dall’attendente, dallo jugoslavo Boris Crnica, forse da un altro suo connazionale, certamente da un russo e, secondo la memoria di Galantini [19], anche da un polacco. Un’azione archetipica della “guerra popolare europea”.
Jacobs è dunque un simbolo, è «la prova che la Resistenza italiana ha un significato che trascende l’ambito nazionale. E che si è svolta nell’ambito della “guerra popolare europea” contro il nazismo, inserendo l’Italia nel novero delle nazioni europee» [20]. E che a questa “guerra popolare europea” parteciparono anche i disertori e gli antifascisti tedeschi.
C’è una saldatura tra antifascismo ed europeismo che va recuperata nel nostro immaginario. L’idea dell’Europa unita, libera, sociale è nata allora. L’Europa avrà un futuro se non dimenticherà questo suo momento di vera e propria ricostituzione e rinascita. Mentre per ciò che riguarda l’Italia, la Resistenza è «l’elemento essenziale di una nuova identità nazionale democratica di tipo e di livello compiutamente europeo» [21]. Lo intuirono i nostri partigiani. Come Edilio Lupi, che gettava i volantini che invitavano a disertare nella villa di Pugliola occupata dai tedeschi. Certamente vedere un tedesco ai monti fu “una specie di shock”, come raccontava Paolino Ranieri. Stella Corsi ripeteva: «non si fidavano». Così fu dappertutto, ma dappertutto ciò fu superato. Perché i partigiani capirono che anche tra i nemici esistevano i “giusti”. Che la Resistenza era italiana, europea, internazionalista.
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[1] Antonio Bianchi, Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 339.
[2] Il film documentario fu presentato a Pitelli il 18 gennaio 2013. La parte con l’intervista a Stella Corsi, Le donne di Pitelli – il racconto della guerra, è visibile su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=KOizCf3mCrU
[3] Maurizio Fiorillo, Uomini alla macchia. Bande partigiane e guerra civile. Lunigiana 1943-1945, Bari, Laterza, p. 122.
[4] Giorgio Pagano, La brigata dei sarzanesi, “Città della Spezia”, 19 e 26 aprile 2015, ora in Id., Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, La Spezia, Edizioni Cinque Terre, 2015, pp. 249-257.
[5] I testi originali dei racconti, battuti a macchina, che compongono La nostra vita mi sono stati recentemente consegnati da Federico Galantini, figlio di Piero, insieme ad altro materiale inedito, ai fini di una pubblicazione e della conservazione presso l’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia. Una copia del racconto su Jacobs – il IX della serie, l’unico già edito – è conservata nell’Istituto con il titolo Articolo di Federico (P. Galantini) su Rudolf Jacobs [a “Tullio” (Primo Battistini)], s. d., ma 1945, in AISR, Fondo II, Attività Militare Bis, Serie 16, f. 619P. La breve lettera di accompagnamento a «Caro Tullio», senza data, fu scritta nel periodo immediatamente successivo alla Liberazione.
[6] Il testo è tratto dal citato racconto di Piero Galantini su Jacobs in La nostra vita.
[7] Carlo Greppi, Il buon tedesco, Bari-Roma, Laterza, p. 114.
[8] Ivi, p. 112.
[9] Dal citato racconto in La nostra vita.
[10] Articolo di Federico (P. Galantini) su Rudolf Jacobs, cit. La parola sottolineata è nel testo originario. In questo testo di Galantini Jacobs è chiamato “Rodolfo”. Anche Paolino Ranieri e altri partigiani della “Muccini” hanno sempre sostenuto che il nome di Jacobs in formazione fosse “Rodolfo”. Secondo alcuni storici il suo nome di battaglia fu invece “Primo”, come risuona anche nel film Tradimento. In realtà, come notò Luigi Faccini, nella lapide che nel 1953 l’Amministrazione Comunale di Sarzana appose nel luogo in cui Jacobs morì «la collocazione del termine “primo” immediatamente a ridosso, e sotto, il suo nome ingrandito, può trarre in inganno» (L’uomo che nacque morendo, Roma, Editori Riuniti, 2006, p. 222). È certamente così: Jacobs, nel testo della lapide, è «primo nelle fila dei partigiani sarzanesi a immolarsi per l’Italia».
[11] Ibidem. La parola sottolineata è nel testo originario.
[12] Dal citato racconto in La nostra vita.
[13] Sulle morti di Piero Borrotzu e di Dante Castellucci cfr. Giorgio Pagano, Commemorazione di Piero Borrotzu, 4 giugno 2021, in www.associazioneculturalemediterraneo.com, e Id., 100 anni+1 La vita e la storia del comandante Facio, 18 luglio 2021, in www.associazioneculturalemediterraneo.com
[14] Carlo Greppi, Il buon tedesco, cit., p. 11.
[15] Cfr. il rapporto della GNR del 4/11/44 in ASSP, busta 441, fasc. 2.
[16] YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=KOizCf3mCrU
[17] Carlo Greppi, Il buon tedesco, cit., p. 177.
[18] Francesco Corniani, Deutsche Partisanen nella Resistenza italiana, in Federico Trocini (a cura di), Tedeschi contro Hitler? La società tedesca tra nazionalsocialismo e Widerstand, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, pp. 35-36.
[19] Museo audiovisivo della Resistenza delle province di Massa Carrara e La Spezia, Intervista a Piero Galantini (intervista di Maurizio Fiorillo e Francesca Pelini, presente Paolino Ranieri), s.d. ma 199[?], p. 8.
[20] Giorgio Pagano, Rudolf Jacobs disertore e partigiano, simbolo dell’Europa dei popoli, MicroMega.net, 24 aprile 2021.
[21] Ibidem.
L’INTERNAZIONALISMO NELLA RESISTENZA ITALIA NELLA IV ZONA OPERATIVA
Seconda parte
QUANDO I FASCISTI ERANO PIÙ FEROCI DEI TEDESCHI
Una minoranza spesso dimenticata
La lotta partigiana alla Spezia e in IV Zona operativa ebbe un carattere fortemente antifascista – contro i fascisti della Repubblica di Salò – ma anche antinazista – contro i tedeschi occupanti. É un intreccio da approfondire. La memoria spezzina della deportazione – La Spezia è la città italiana con il più alto numero di deportati percentualmente alla popolazione – è certamente antinazista, ma è anche antifascista: perché è dall’ex 21° Reggimento Fanteria, caserma occupata dalle Brigate Nere e trasformata in comando-carcere e in luogo di terribili torture, che partivano i prigionieri condannati ai campi di concentramento in Germania. Nelle testimonianze che ho raccolto nei libri Eppur bisogna ardir e Sebben che siamo donne [1] emerge che i fascisti si comportavano spesso in modo più feroce dei tedeschi.
Ed è ancora viva la memoria del dopoguerra, del tempo dei processi contro i crimini fascisti – nel periodo che va dal giugno 1945 al maggio 1947 –, che rivelarono una vera e propria galleria degli orrori. Tuttavia La Spezia non ha mai dimenticato nemmeno gli orrori nazisti: ricordo bene – ero sindaco – che il Comune e la città furono in prima fila nella battaglia per i processi ai responsabili delle stragi naziste, perché alla Spezia aveva sede la Procura dove erano stati trasferiti ben 214 fascicoli. Affiancammo alla difesa delle parti civili un legale di fiducia e organizzammo il convegno nazionale “Dall’armadio della vergogna ai processi: il cammino della verità”.
In questo intreccio tra memoria antifascista e memoria antinazista il mondo spezzino della Resistenza ha mantenuto un vigile equilibrio: l’attenzione posta sulle stragi e sui crimini nazisti, dettata da esigenze sacrosante non solo di memoria storica ma anche di risarcimento morale delle vittime, non ha mai comportato una rimozione delle colpe italiane grazie al comodo alibi degli “italiani brava gente”. Contro l’autorappresentazione del “bravo italiano” in contrapposizione al “cattivo tedesco” – per usare le parole dello storico Filippo Focardi [2] – abbiamo sempre insistito sui crimini del fascismo.
Gli italiani, per fare un solo esempio, furono “oppressori e carnefici” nei Balcani dopo il 1941. Ma se il Presidente tedesco Rau andò a Marzabotto, ancora nessun Presidente italiano ha fatto visita a uno dei luoghi simbolo dell’occupazione italiana in Jugoslavia. Forse perché in Germania c’è stato un lungo e travagliato processo di “resa dei conti” con il proprio passato, che da noi è mancato.
Il Presidente tedesco Steinmeier, il 22 giugno 2021, ha tenuto uno storico discorso, dietro al leggio dell’ex quartiere generale sovietico a Berlino-Karlshorst, l’edificio in cui la Germania firmò la capitolazione l’8 maggio 1945: ha ricordato il coraggio dei soldati dell’Armata Rossa, pronti a dare la vita per sconfiggere «il peggior regime che abbia mai devastato il pianeta» [3].
Ma in quella «guerra criminale di aggressione» [4], per usare ancora le parole di Steinmeier, c’erano anche le nostre uniformi. I conti con la storia sono un processo collettivo complesso, che la Germania deve proseguire e l’Italia deve ancora in gran parte fare. Alla fine, se ne saremo capaci, emergerà con chiarezza che ci furono “bravi italiani” – oppositori del fascismo –, ma anche “cattivi italiani”; e “cattivi tedeschi”, ma anche “bravi tedeschi” – oppositori del nazismo. Spezia può essere aiutata, in questo processo di diffusione di una maggiore consapevolezza critica, dall’aver avuto, tra gli eroi della Resistenza, Rudolf Jacobs, “il tedesco buono”. La sua morte a Sarzana in un assalto contro le Brigate Nere il 3 novembre 1944 – una morte da lui “voluta” per riscattare insieme la propria biografia e quella del suo Paese – dimostra che c’erano anche “bravi tedeschi”.
Carlo Greppi ha chiesto, per il suo libro Il buon tedesco, la collaborazione mia e di altre persone dell’antifascismo spezzino. Abbiamo aderito con entusiasmo, e ne è scaturito un fitto dialogo quotidiano, che ha aiutato tutti. Anche noi spezzini: a cogliere di più la portata del fenomeno della diserzione tedesca nella IV Zona. Una minoranza spesso dimenticata, ma con una dimensione quantitativa rilevante e un significato morale straordinario. La seconda e la terza parte di questo articolo sono il frutto di questa sollecitazione, e di ciò ringrazio sentitamente Carlo Greppi. Nelle storie che racconterò potremo contare, alla fine, oltre quaranta casi di diserzione. Finora alla Spezia si era parlato di una “decina” o di una “quindicina” di casi. Comunque schegge, si potrebbe dire. Ma è un numero destinato, con la ricerca storica, a crescere ancora. E poi sono schegge che emozionano e fanno riflettere: la guerra contro il nazifascismo è stata davvero una guerra ideologica universale.
La Battaglia del Manubiola
Anche tra i tedeschi, ha scritto Filippo Focardi, non mancarono «bagliori di umanità non spenta» [5]. Oltre alla vicenda di Jacobs, ce lo indicano tanti altri episodi. In particolare la diserzione tedesca dopo la battaglia del Manubiola, alle Ghiare di Berceto, il 30 giugno 1944. Fu una grande vittoria dei partigiani, tra le più memorabili della Resistenza nel Parmense: l’ultima prima della fine del Territorio Libero del Taro, che si estendeva – ufficialmente dal 15 giugno 1944 – a ovest del Manubiola fino ai confini liguri e piacentini.
Diversi distaccamenti di partigiani ricacciarono indietro una colonna della Feldgendarmerie composta da più di centocinquanta uomini e dodici automezzi, decisa a distruggere la roccaforte partigiana di Borgotaro. Dopo due ore di combattimento i nazisti si arresero: ottanta tedeschi fatti prigionieri, quattordici morti, numerosi feriti, un ingente bottino di armi. I tedeschi uccisero due civili, otto furono le vittime tra gli ostaggi che avevano fatto prigionieri, di cui si fecero anche scudo. Tra i partigiani ci furono due morti e alcuni feriti, tra cui lo spezzino Aldo Costi “lo Zio”. La vittoria, come detto, fu breve. Dagli inizi di luglio colonne tedesche attaccarono da vari punti Borgotaro, decretando la fine del Territorio Libero [6].
Alla battaglia del 30 giugno partecipò anche la Brigata “Centocroci”, che apparteneva alla IV Zona e operava tra Val di Vara e Val di Taro. Comandante era Gino Cacchioli “Beretta”, vicecomandante Federico Salvestri “Richetto”, che diventerà comandante a luglio. Aldo Costi “lo Zio” era stato commissario politico della banda nella fase iniziale, da poco era stato nominato responsabile dell’approvvigionamento [7]. Quel giorno c’era pure la banda locale operante tra Buzzò e Gotra, guidata da Bruno Zanrè, che dipendeva dalla “Centocroci “e, dopo luglio, si sciolse (Zanrè passò nel “Battaglione Internazionale” guidato da Gordon Lett). Grazie ai prigionieri – raccontò “Richetto” nella sua testimonianza nel libro Centocroci per la Resistenza di Camillo Del Maestro – «potemmo trattare la tregua per lo scambio del 18 luglio 1944» [8]. Ma – fatto ancor più importante – qualcuno, tra i tedeschi, passò con i partigiani.
Leggiamo, nel libro La Brigata garibaldina Cento Croci. Storia e Testimonianze, a cura di Giulivo Ricci, Varese Antoni e dei protagonisti, il racconto di Giorgio Vara: «Gestire tutti quei prigionieri non fu facile, per certo verso facevano pena, avevano pena uno dell’altro e alcuni criticavano Hitler, ma di nascosto. Era difficile capirsi, ma cercavano di spiegare che non volevano la guerra: anche quelli che sembravano più disponibili e non faziosi (c’erano anche alcuni anziani) facevano capire che anche loro erano contro la guerra, ci facevano vedere fotografie delle loro famiglie e che avevano bambini a casa. Ma avevano paura e cercavano di far in modo che gli altri di loro non capissero quello che volevano dirci. Facevamo loro della gran polenta di castagne, e li abbiamo trattati al meglio, senza un maltrattamento qualunque. Poi sono stati spostati in altra località. Seppi che diversi di loro furono dati in cambio per liberare nostri partigiani; qualcuno di loro si rifiutò e appena fu possibile andarono nel “Battaglione Internazionale”; due austriaci restarono con noi» [9].
La testimonianza è molto interessante. La diserzione, si potrebbe dire, non fu un fenomeno solo ideologico o ideale (come in Jacobs), fu forse nella maggior parte dei casi frutto di un momento occasionale. Appare come un fatto, come ho scritto nella prima parte dell’articolo, “legato alla natura stessa della guerra e della vita militare”. Le motivazioni dei disertori furono le più diverse. Ma scaturirono tutte, comunque, da una “scelta morale”.
Risulta da più fonti. Nella testimonianza sulla battaglia del Manubiola del cappellano della “Centocroci”, il parroco di Càssego di Varese Ligure don Luigi Canessa, nel libro La strada era tortuosa, leggiamo: «Un altro [tedesco, nda] esce da una siepe col mauser a tracolla e si presenta ai partigiani: “Bravi combattenti, io non aver sparato perché tutti patrioti: voi in Italia, io, se potessi, in Germania”» [10].
Ancora: lo storico Roberto Battaglia, nel libro Risorgimento e Resistenza, riportò la testimonianza raccolta dal ricercatore spezzino Giulio Mongatti: «Un partigiano della “Centocroci” […], interrogato sulla presenza dei tedeschi nella sua brigata, ha così risposto: “Non ricordo più i loro nomi. Quanto poi alla causa della loro diserzione, ricordo che essi, quando volevano dire qualcosa, dicevano che l’essere lontani da casa, l’avere avuto i loro cari morti sotto i bombardamenti li aveva convinti a porre fine a uno stato di cose intollerabili, a una guerra di cui ormai erano stanchi”» [11].
Si può dunque ipotizzare che un piccolo nucleo degli ottanta tedeschi fatti prigionieri nella battaglia del Manubiola sia passato con i partigiani della “Centocroci”. Altre fonti sembrano confermarlo, anche se non tutte fanno un riferimento specifico a quella battaglia. Antonio De Lucchi “Tugnin”, nel libro di Del Maestro, raccontò: «Nelle nostre file abbiamo ricevuto un tenente tedesco, più volte ferito e decorato reduce da Stalingrado, era molto coraggioso e deciso: durante un’azione condotta alla Spezia è stato fatto prigioniero e prima di morire fucilato ha mandato una lettera di addio alla moglie del comandante» [12].
Abbiamo inoltre il dato del Registro storico dei riconoscimenti, custodito nell’Archivio dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Si tratta di un documento coevo alla Commissione preposta ai riconoscimenti: in esso ci sono i partigiani e i patrioti riconosciuti, i quali, vivi dopo la Liberazione presentarono domanda di riconoscimento e la ottennero grazie ai requisiti che avevano. Non tutti i partigiani erano purtroppo in vita e non tutti, soprattutto tra gli stranieri, chiesero il riconoscimento. Detto questo, il Registro sugli stranieri – è stata realizzata da Maria Cristina Mirabello un’apposita scheda, pubblicata nel sito dell’Istituto – documenta che nella “Centocroci” combatterono tre partigiani con ogni probabilità tedeschi: Helbert Lohrmann, Otto Schroter e Lothar Forster. In un documento sull’organico della “Centocroci” del 23 novembre 1944 è presente Antonio Raberger, forse tedesco.
La conferma, infine, del passaggio di alcuni disertori dalla “Centocroci” al “Battaglione Internazionale” (molto forte era il legame sia di “Beretta” che di “Richetto” con Gordon Lett) sembra venire dal figlio di Lett, Brian, che nel suo libro Gordon Lett. Amico dell’Italia. Partigiano a Rossano, Cittadino di Pontremoli, Albareto, Reggio Emilia, in una foto della rassegna fotografica collocata nel finale del libro, indica in un gruppo uno degli uomini come «disertore tedesco» [13]. É vero che Gordon Lett aveva scritto nel suo libro Rossano che «fra i tedeschi i disertori furono pochissimi» [14], ma va precisato che il “Battaglione Internazionale” era quantitativamente esiguo. In ogni caso il figlio testimonia che almeno un caso vi fu.
Mario, Enrico e la loro sorte sconosciuta
Un’altra testimonianza della presenza di disertori tedeschi nella “Centocroci” è contenuta nel testo inedito Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, scritto dal comandante partigiano Primo Battistini “Tullio” [15], che ho potuto leggere grazie ai figli Alberto e Oscar. “Tullio” scrisse che, dopo il rastrellamento del 3 agosto 1944, lo raggiunsero a Ponzano Superiore (nel gruppo che poi partecipò alla formazione della Brigata “Muccini”) «Mario, il capitano austriaco degli alpini che passerà poi il fronte con me, e un tenente di Colonia in Germania. Essi prima avevano militato nella Brigata partigiana “Centocroci”» [16]. Potrebbe non trattarsi di un alpino: forse è un lapsus di “Tullio”. Andrebbe comunque verificato se i Gebirgsjäger (letteralmente, cacciatori di montagna) tedeschi abbiano combattuto nel territorio in cui operava la Brigata “Centocroci”.
Mario aveva sentito parlare della fama di “Tullio” (mi dice il figlio Alberto sulla base dei ricordi paterni) e – scrisse “Tullio” – «si era messo d’accordo con “Richetto” […] a condizione che lo facessero arruolare nella Brigata “Vanni” (a quei tempi comandata da me a Zeri» [17]). Quindi Mario «si era messo d’accordo con “Richetto”» prima del rastrellamento del 3 agosto 1944: fu dopo il rastrellamento che “Tullio” lasciò Zeri, in Lunigiana, e si spostò in Val di Magra. Non c’è il riferimento alla battaglia del Manubiola, ma Alberto ricorda una diserzione abbastanza consistente. Leggiamo ancora “Tullio”: «Mario mi raggiunse poi, circa due mesi dopo, a Ponzano Superiore, portando con sé il tenente di Colonia e diverso equipaggiamento, tra cui diversi timbri necessari a falsificare documenti e salvacondotti tedeschi, e diverse pistole Verì per segnalazioni (che si riveleranno molto utili durante il rastrellamento del 29 novembre 1944). Quando passammo il fronte, gli Alleati lo misero in un campo di concentramento non permettendogli di tornare con me, come del resto avverrà per i russi. Mario era di fede comunista»[18].
Nel manoscritto di “Tullio” Mario è citato anche in seguito: «Alcuni giorni dopo, cioè verso la fine del novembre 1944 avevo trasferito, per un’audace azione, una nostra pattuglia a La Spezia. Comandava la pattuglia, travestito da comandante degli alpini, il capitano austriaco Mario. Avevamo preso contatti con la Banca d’Italia e avevamo trovato la collaborazione di un sergente della X Mas di Santo Stefano, in servizio alla banca stessa, tal Vanacore. Si trattava di attendere che la divisione fascista Monterosa effettuasse il deposito dell’intera sua cassa per poi prelevare quell’ingente somma. Per tre giorni la pattuglia restò in città e, d’intesa col personale della Banca, gli uomini si erano nascosti nei locali della banca medesima, dormendo nei locali stessi. In quei giorni io ero di pattuglia presso il traghetto di Fornola, vestito da capitano della X Mas, per controllare se circolassero delle spie fasciste. Improvvisamente giunse l’avvertimento che stava iniziando il rastrellamento del 29 novembre. Rientrammo immediatamente, sia io che la pattuglia comandata da Mario, in zona» [19]. Un disertore tedesco stava per rapinare la Banca d’Italia!
Da questo passo si può forse capire perché nel precedente Mario è definito alpino: Mario si era travestito da alpino perché la Monterosa era la divisione degli alpini. Da qui il possibile lapsus di “Tullio”.
“Tullio” citò infine Mario nel racconto del rastrellamento del 29 novembre: «A notte inoltrata partimmo tutti. Mi servivo del capitano austriaco Mario che con la sua pistola Verì faceva segnalazioni atte ad ingannare i tedeschi circa la nostra direzione, riuscendo nell’intento. […] Venni al Chiapparo, sopra Caprigliola, e mi stabilii in una casetta. Erano con me, fra gli altri, il capitano austriaco Mario, il tenente di Colonia, “Freccia” e “Vampa”» [20].
La presenza nella Brigata “Muccini” del capitano e del tenente è ricordata anche nell’intervista rilasciata per il Progetto “Voci della memoria” (raccolte di testimonianze a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia) di Giuseppina Cogliolo “Fiamma”, che fu partigiana anche nella “Muccini”, condotta ai monti da “Tullio”.
“Fiamma” sul capitano, che sbagliando definì polacco, disse: «Quello sapeva, lui è scappato dai tedeschi no? Assieme a un tenente, che quello era proprio tedesco. Lui sapeva non so quante lingue. A me m’ha insegnato tante cose, a scrivere a macchina, mi faceva scrivere le lettere in inglese ecco! E lui diceva sempre: “Dopo la guerra scriverò un libro dal titolo ‘Una ribelle di nome Fiamma’. Poi io non l’ho più visto, non so se l’hanno ammazzato, se… sai, le vicende del dopoguerra non si sanno. E allora m’è venuto in mente quella volta, ho detto: “Voglio scriverlo io, Una ribelle di nome Fiamma”. In fondo ribelle la sono sempre anche adesso! Figuriamoci allora!» [21].
Giuseppina Cogliolo ha scritto il libro Una ribelle di nome Fiamma, ma non c’è traccia dei due disertori. Anche Giulivo Ricci, nella sua Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini” [22], racconta di Mario e del tenente, a cui dà, raccogliendo la testimonianza di “Tullio”, il nome Enrico. Dopo il rastrellamento del 29 novembre, quando il grosso della “Muccini” dovette passare il fronte e giungere nella Toscana già liberata, i due disertori finirono, come scrisse “Tullio”, in un campo di concentramento. Insieme ai loro connazionali nazisti prigionieri. Non lo meritavano.
Di loro non si seppe più nulla. Nella “guerra popolare europea” contro il nazifascismo i “bravi tedeschi” avevano fatto la scelta giusta. Ma gli Alleati non li distinsero dai “cattivi tedeschi”, mentre nella Germania del dopoguerra vennero considerati “traditori” e “nemici del popolo”. Quell’eroica minoranza fu davvero a lungo dimenticata.
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[1] Giorgio Pagano, Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit.; Giorgio Pagano, Maria Cristina Mirabello, Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa tra La Spezia e Lunigiana, La Spezia, Edizioni Cinque Terre, 2017.
[2] Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013.
[3] Sebastiano Canetta, Steinmeier, storico discorso contro la «barbarie nazista», “Il manifesto”, 24 giugno 2021.
[4] Ibidem.
[5] Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, cit., p. 163.
[6] Sulla battaglia del Manubiola cfr. Giacomo Vietti, L’Alta Val Taro nella Resistenza, Parma, ANPI Parma, 1980, e Giacomo Bernardi, 1944: quel luglio di sangue, Borgotaro (PR), Associazione A. Emmanueli, 2011.
[7] Sulla Brigata “Centocroci” cfr., oltre ai libri citati in questo articolo, “Richetto” Tino e la “santa pattona”, “Città della Spezia”, 18 gennaio 2015, ora in Id., Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit., pp. 220-228.
[8] Camillo Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, Varese Ligure (SP), Editrice Associazione Partigiani «Centocroci», 1982, p. 47.
[9] Giulivo Ricci, Varese Antoni e i Protagonisti (a cura di), La Brigata Garibaldina Cento Croci. Storia e Testimonianze, La Spezia, Edizioni Giacché, 1997, p. 137.
[10] Luigi Canessa, La strada era tortuosa, Genova, Editrice A.V.A, 1947, p. 59.
[11] Roberto Battaglia, Risorgimento e Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 282.
[12] Camillo Del Maestro, Centocroci per la Resistenza, cit., p. 74.
[13] Brian Gordon Lett, Gordon Lett. Amico dell’Italia. Partigiano a Rossano, Cittadino di Pontremoli, Albareto, Reggio Emilia, Pontremoli, Istituto Storico della Resistenza Apuana e dell’Età Contemporanea, 2018, foto n. 21.
[14] Gordon Lett, Rossano, Milano, Eli, 1958, p. 140.
[15] Su Primo Battistini “Tullio” cfr. Giorgio Pagano, Tullio, eroe e fuorilegge, “Città della Spezia”, 21 giugno 2015, ora in Id., Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit., pp. 271-283.
[16] Primo Battistini, Tullio. Memorie. Cronache resistenziali, manoscritto inedito, p. 70.
[17] Ibidem.
[18] Ivi, p. 71.
[19] Ivi, p. 74. All’azione partecipò, come vedremo nella terza parte dell’articolo, un altro disertore tedesco: Erich Heinrich Rahe “Enrico”, partigiano del Battaglione “Gramsci”.
[20] Ivi, p. 76.
[21] Progetto “Voci della Memoria”, Trascrizione dell’intervista rilasciata da Giuseppina Cogliolo il 05/12/2006 ad Albiano Magra MS, p. 12. Cfr. anche Giuseppina Cogliolo, Una ribelle di nome Fiamma, Roma, Chillemi, 2009 e Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello, Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa tra La Spezia e Lunigiana, cit., pp. 181-185.
[22] Giulivo Ricci, Storia della Brigata garibaldina “Ugo Muccini”, La Spezia, Istituto Storico della Resistenza, 1978
L’INTERNAZIONALISMO NELLA RESISTENZA NELLA IV ZONA OPERATIVA
Terza parte
DALLE BRIGATE INTERNAZIONALI IN SPAGNA ALLA LOTTA IN ITALIA
Quando Laura fu salvata da un tedesco
Laura Seghettini, dopo la tragica morte del comandante del Battaglione “Picelli” – e suo compagno – Dante Castellucci “Facio” (22 luglio 1944), si spostò nel Parmense, dove diede vita al distaccamento “Facio” della 12ª Brigata Garibaldi, di cui fu eletta comandante. A ottobre passò al distaccamento del comando della 12ª Garibaldi, con il ruolo di vicecommissario di Brigata.
Leggiamo, su Laura, un racconto di Primo Savani, commissario di guerra nel comando unico operativo parmense, nel suo libro Antifascismo e guerra di liberazione a Parma: «L’insegnante Laura Seghettini di Pontremoli faceva parte del comando della 12ª Garibaldi. Era una partigiana della vecchia guardia, per quanto giovane d’età, che partecipava alle azioni gareggiando in coraggio e capacità con gli uomini. La mattina del 20 novembre a Beduzzo era stata sorpresa dagli avvenimenti e non era riuscita a “sganciarsi” con i compagni del comando. Non sapendo a che santo votarsi, si era messa a letto fingendosi malata. Quando arrivarono i tedeschi, una vecchia del posto, o per malvagità o perché aveva perso la testa, riferì che in quella casa vi era una partigiana. Il comandante del reparto salì le scale, entrò nella camera della Seghettini, le pose una mano sulla fronte e le disse: “Avete la febbre forte, vero?”. Laura pensò in quel momento che fosse finita per lei. Invece il graduato tedesco le fece un cenno di saluto e ridiscese le scale per andarsene con gli uomini che lo attendevano. La vecchia sciagurata continuava a insistere che si trattava di una partigiana. Il graduato tedesco, irritato, le diede uno spintone, e la nostra Laura fu salva» [1].
L’episodio fu ricordato, con maggior precisione e dovizia di particolari, da Laura stessa nel suo libro Al vento del Nord. La Seghettini ebbe parole di pietà per la delatrice: «Era una povera donna a cui i tedeschi, durante un precedente rastrellamento, avevano fatto saltare la casa, avendovi trovato dei caricatori di sten. Da allora se l’era presa con i partigiani, la cui negligenza era stata la causa del disastro» [2]. Laura raccontò che dapprima salirono due mongoli (ex soldati sovietici che, fatti prigionieri dai tedeschi, erano divenuti collaborazionisti, noti tra i partigiani per la loro ferocia), che infilzarono il suo letto con le baionette e buttarono all’aria il solaio; poi arrivò il graduato: «un capitano […] forse era atesino perché parlava bene italiano […] era un uomo calmo, cortese» [3].
La riconobbe, le mostrò una fotografia che le era stata scattata da partigiana. Ecco il seguito della storia: «Chiesi allora che mi facesse consegnare i miei vestiti e lo pregai di non far nulla alla famiglia dove mi trovavo perché gli dissi che anche noi, come loro, entravamo nelle case con le armi. Mi rispose: “Niente paura”. Mi ritrovai nel vicolo mentre, accompagnati dai militari, passavano altri miei compagni, mi unii a loro e ci dirigemmo fuori del paese. Quando arrivammo in una curva, il capitano che mi aveva interrogata ci lasciò capire che potevamo scappare. Spararono, ma non mirarono a colpirci; soltanto uno di noi fu ferito di striscio a un braccio, il che lo fece correre ancora più velocemente» [4]. Questa la riflessione di Laura: «L’episodio mi fece pensare che anche i nemici fossero ormai consapevoli che la guerra era perduta; comunque noi in quella circostanza avevamo avuto fortuna perché ci eravamo imbattuti in un capitano che con ogni probabilità era critico verso il suo stesso ruolo» [5].
Laura ebbe salva la vita grazie a un tedesco. Mentre “Facio” fu ucciso dai suoi compagni. Davvero, per studiare la Resistenza, occorre recuperare complessità, provare sempre a calarsi nella realtà dura e drammatica di quegli anni. Contro l’assenza di memoria ma anche contro una memoria troppo semplificata.
Marra di Corniglio, il paesetto salvato dai tedeschi
Primo Savani, nel libro, raccontò subito dopo un altro episodio: «A Marra di Corniglio accadde un fatto ancora più strano. Il reparto tedesco costituito dal comandante e da una trentina di uomini, che aveva avuto il compito di “rastrellare” Marra, dalla centrale elettrica si dipartì a piedi per raggiungere il paesetto. Giunto in prossimità, il comandante entrò nella prima casa. In un italiano appena comprensibile fece capire che dovevano avvisare subito gli uomini validi del paese di fuggire per i boschi, altrimenti sarebbero stati catturati. Da Marra non era difficile disperdersi nei monti tra le piante. Bastava uscire di casa. Due soli uomini vennero catturati e nel viaggio di ritorno verso Corniglio vennero posti davanti al reparto. Il comandante, con dei gesti comprensibilissimi, invitava con insistenza, avendo cura che non se ne accorgessero i tedeschi che lo seguivano, i due contadini a darsi alla fuga, ai margini della strada, nel folto del bosco. Uno dei due… comprese il latino, si lanciò in una discesa sul folto bosco. Ne seguì una sparatoria, ma si salvò. L’altro non ebbe il coraggio di imitarlo, fu internato in Germania e non fece più ritorno» [6].
Questa la conclusione di Savani: «Nel novembre 1944 c’era qualcosa di nuovo nell’esercito tedesco? O si trattava di casi di coscienza, di tedeschi non nazisti, oppure di non tedeschi incorporati nell’esercito tedesco nei Paesi occupati? Nel luglio nessun caso del genere si era verificato» [7]. In realtà si era verificato, nel Parmense, dopo la battaglia del Manubiola del 30 giugno 1944, un caso più significativo ancora: il passaggio di un piccolo nucleo di tedeschi, presi prigionieri, nelle file della Brigata “Centocroci” (l’ho raccontato nella seconda parte di questo articolo). Savani scrisse il libro nel 1972: allora molte storie non erano conosciute, o erano state dimenticate. Marco Minardi, nel suo libro del 2007 Disertori alla macchia. Militari dell’esercito tedesco nella Resistenza parmense, scrisse che i disertori tedeschi nel Parmense furono almeno cinquanta, di cui trentacinque registrati nei ruolini delle brigate. Fu uno stillicidio continuo, fino ad arrivare, a livello di armata tedesca di stanza in Italia, ad alcune migliaia di casi di diserzione [8].
Hans di Colonia, disertore tra i primi caduti della Resistenza spezzina
Il fenomeno della diserzione, nella Resistenza spezzina, si verificò ancor prima: nel marzo 1944. Una delle prime bande partigiane dei nostri monti – attiva a Vezzano dal dicembre 1943 – fu il “gruppo Bottari”, legato a Giustizia e Libertà. Dopo un tradimento, la banda si spostò a Torpiana di Zignago. Tra il febbraio e il marzo 1944 prese il nome di “Brigata d’assalto Lunigiana”. Guidata da Piero Borrotzu, il “Tenente Piero”, si insediò nella zona di Antessio, Airola e Chiusola, sotto il monte Gottero, e si contraddistinse per azioni valorose.
Dopo l’assalto alla caserma fascista di Carro per fare incetta di armi, Borrotzu e i suoi si mossero verso Groppo, inseguiti dai repubblichini. Il fuoco nemico uccise un partigiano barese, Serafino Giovannello, mentre, assediati e ormai sconfitti, si diedero la morte l’aretino Arrigo Scopecchi e Hans, un disertore tedesco che si era unito ai partigiani. Era il 26 marzo 1944. Hans – di cui la cronaca partigiana non ci ha conservato il cognome – fu il primo disertore della nostra Resistenza.
Giuseppe Nestini, nel libro del 1949 Piero Borrotzu martire della libertà, raccontò come si costituì la banda tra gennaio e febbraio 1944 e scrisse: «Altri furono inviati dal Comitato di Liberazione di Sestri Levante; tra questi vi erano pure tre stranieri: un tedesco di Colonia, Hans, datosi ai ribelli per disperazione (Nota 1); un tedesco sudeta, soldato delle SS in veste d’agnello, e un polacco» [9]. La Nota 1 diceva: «Andato in licenza, della sua casa trovò un cumulo di rovine, sotto cui giaceva l’intera sua famiglia» [10].
Dopo il combattimento di Groppo venne la tragica notte del 26 marzo 1944: «Il tedesco Hans di Colonia, per non cadere vivo nelle mani dei nemici, estrae la rivoltella e si spara alla tempia. L’aretino Arrigo Scopecchi si piega sulla bocca del fucile, puntato al cuore, fa scattare il grilletto e cade» [11]. Nella stessa azione morì, come ho ricordato, Serafino Giovannello.
La storia di Hans fu raccontata anche da Roberto Battaglia nel libro Risorgimento e Resistenza (1964), che si basava sul materiale documentario raccolto dallo spezzino Giulio Mongatti; da Giulio Mongatti nel testo Piero Borrotzu, contenuto nel libro Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze (1973); e da Giulivo Ricci nel libro La Colonna “Giustizia e Libertà” (1995).
Nestini definì Hans, Scopecchi e Giovanello «i primi martiri del secondo risorgimento d’Italia caduti nella provincia della Spezia» [12]. É un’affermazione corretta, che va però precisata. Perché ci furono martiri caduti alla Spezia sia dopo il 25 luglio 1943 (il 29 luglio) sia dopo l’8 settembre 1943 (il 9 settembre). Ma, se consideriamo i combattenti della Resistenza armata ai monti nel territorio provinciale, i primi caduti furono in effetti i tre della “Brigata d’assalto Lunigiana”, il 26 marzo 1944.
Va precisato anche che – in seguito all’assalto al treno di Valmozzola, nel Parmense, condotto dalla banda Betti, in cui operavano molti partigiani spezzini – caddero i partigiani della banda garibaldina del monte Barca, nel Bagnonese (Lunigiana toscana), in gran parte spezzini. Ciò avvenne qualche giorno prima (qualcuno morì il 14 marzo, gli altri il 17 marzo). Così come va precisato che, il 18 marzo, quindi anche in questo caso qualche giorno prima, fu ucciso dai fascisti a Sarzana, in un’imboscata, Arturo Emilio Baccinelli (a volte Bacinelli), il capo dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica) sarzanesi. I GAP erano attivi nelle città, per attentati e sabotaggi. Nestini ha dunque ragione se si considerano i caduti in azioni di combattimento ai monti in provincia della Spezia: i primi furono i tre partigiani del “Tenente Piero”. La stessa affermazione si trova nel libro citato di Roberto Battaglia: «Il 26 marzo 1944 cadono i primi martiri della Resistenza nella provincia della Spezia» [13].
Ma, al di là di queste precisazioni, che pure vanno fatte in sede storica, è in ogni caso molto significativo che uno dei primi caduti della Resistenza spezzina sia stato un disertore tedesco, sconvolto dalle distruzioni, provocate dai bombardamenti, che aveva visto nel suo Paese.
Gino Camboni, nel libro Il partigiano tenente Piero (2013,) raccontò la partecipazione di Hans all’attacco della banda di Borrotzu alla caserma fascista di Carro ed evidenziò il suo coraggio: «Hans, il partigiano tedesco, bussò alla porta con vigore e nella sua lingua intimò che venisse aperto» [14]. Dalla disperazione per i lutti all’odio contro Hitler e alla diserzione, contrassegnata dal coraggio nelle azioni e anche – perché anche questo è coraggio – nel suicidio sul campo di battaglia.
I motivi del sacrificio di Hans ci sembrano comuni a migliaia di soldati tedeschi disertori: lo sconvolgimento per quanto stava accadendo in Germania. Forse è così che si spiega, notò Battaglia, il fatto che «la maggior parte delle testimonianze ci avverte d’un loro ostinato riserbo, d’un silenzio doloroso sui motivi della diserzione» [15]. Lo storico riportò, grazie a Mongatti, il ricordo di un partigiano di Borgo Taro: «Il più delle volte tacevano lasciandoci fantasticare sul come o sul perché: di poche parole, piuttosto tristi, ma fedeli alla parola data e agli ordini loro impartiti, spesso erano capaci di morire sul posto, quando noi avremmo voluto (specialmente i giovanissimi) tagliar la corda» [16].
Battaglia e Mongatti citarono anche un certo Franz, «morto il 24 aprile 1945 a San Benedetto (La Spezia) che mai non volle rivelare il motivo per cui combatteva. Tutt’al più diceva laconicamente, come l’intesero dire gli abitanti della zona: “Non vi basta che sono qui?”» [17]. Non ho trovato altri documenti o testimonianze che ci parlino di Franz, ma proseguirò la ricerca. Chissà se la cronaca partigiana o della gente della zona ha conservato altro su di lui.
Purtroppo molti disertori tedeschi sono rimasti finora senza nome. Come l’attendente di Rudolf Jacobs, che rimase ferito quando il suo capitano morì, e di cui non si seppe più nulla. Carlo Greppi ha dedicato all’attendente una parte molto bella del libro: il tentativo, che si conclude in modo aperto, di dare un volto, un nome, una storia a chi non ce l’ha. Che non è mai il comandante, è sempre la persona umile e semplice. Ho collaborato, con altri, a questa ricerca di Greppi. È stata anche una lezione su che cos’è la storia: quante volte i documenti ci hanno messo di fronte a fatti nuovi, hanno sconvolto le nostre ipotesi! Davvero la storia non ha mai un punto fermo.
Anche l’attendente di Jacobs era di poche parole e disposto a tutto. Nell’articolo Quel capitano tedesco che morì da partigiano, pubblicato su “Il Mattino” del 25 aprile 1981 a firma di Carlo A. De Rosa, l’attendente veniva così definito: «un austriaco taciturno, che subisce l’ascendente del suo ufficiale da passare anche lui, senza esitazioni, dalle file dell’esercito tedesco in quelle della Resistenza” » [18]. E ancora: «Inutilmente il fedele attendente cercò, benché ferito, di portar via il corpo senza vita del suo ufficiale» [19].
L’articolo fu chiaramente ispirato da Piero Galantini “Federico” – il comandante della Brigata “Muccini” a cui Jacobs e l’attendente avevano aderito –, che è più volte citato. Il figlio di Piero, Federico, conferma il ritratto dell’attendente nel ricordo delle parole del padre: l’attendente, mi dice, «era un uomo taciturno, appartato, che stava sulle sue». Così Vezio, il figlio di Flavio Bertone “Walter”, che sostituì Galantini al comando dopo il rastrellamento del 29 novembre 1944, che mi dice: «l’attendente fu ferito per proteggere il suo capitano, fece l’attendente fino in fondo».
“Bravi tedeschi” e “cattivi tedeschi”
Ma torniamo all’Hans di Colonia. Giuseppe Nestini, come ho ricordato, scrisse che da Sestri Levante arrivò anche un altro disertore, «tedesco sudeta in veste d’agnello». Il suo nome era Alfred. Si soffermò su di lui Giulivo Ricci nel libro citato, che riportava due testimonianze secondo cui ci fu un terzo tedesco disertore, Julius.
Ecco un brano di una testimonianza: «I tedeschi che affluirono al nostro gruppo erano due: Hans e Alfred. Hans morì nella cascina di Groppo, dopo l’azione di Carro. Qualche giorno dopo transitò per Torpiana un gruppo di partigiani della Brigata “Beretta”, che aveva con sé un altro tedesco, Julius, ex ufficiale disertore, che affettava di avere una distorsione alla caviglia. I partigiani di “Beretta” ci pregarono di alloggiarlo con noi, in quanto non poteva camminare. Ci fidammo, e a torto, in quanto Julius era un coraggiosissimo ufficiale delle SS che si era infiltrato nella brigata “Beretta” e, evidentemente, avendo raccolto sufficienti notizie circa la formazione, desiderava averne circa la nostra» [20]. Julius diceva di aver disertato dal comando tedesco di Chiavari. Dopo pochi giorni propose un colpo di mano al magazzino tedesco presso Sestri Levante: «Si allontanò quindi verso il piano, con Alfred. Giunto presso i tedeschi, però, Julius fece arrestare Alfred, che per quanto si sa, venne fucilato a Chiavari: e tornò, invece, guidando il rastrellamento del 5 aprile 1944. Catturò i nostri magazzini e si divertì a bastonare a sangue il vecchio contadino Giovanni Battista Ferretti, che lo aveva ospitato durante il suo soggiorno con noi» [21]. Il presunto disertore uccise il vero disertore e si rivelò un aguzzino.
La storia di Alfred e di Julius è raccontata anche nel citato libro di Camboni, secondo cui Julius si presentò come disertore alla banda di Franco Coni, collegata a quella di Borrotzu. La vicenda è emblematica dello scontro tra “bravi tedeschi” e “cattivi tedeschi”. Ovviamente molti furono i “cattivi tedeschi”.
Paolino Ranieri “Andrea”, altro protagonista della Resistenza in IV Zona, nel marzo 1944 era commissario politico della banda Betti. Il 12 marzo 1944 (secondo alcuni il 13) la banda Betti, in cui i partigiani spezzini erano prevalenti, assaltò il treno alla stazione di Valmozzola e liberò alcuni prigionieri. Vennero fatti una quindicina di prigionieri, tra cui due tedeschi. Sette fascisti furono uccisi perché erano stati visti sparare. Il 14 marzo “Andrea” scrisse una lettera ai dirigenti del PCI spezzino, in cui spiegava: «I due tedeschi, “un muratore e un contadino”, i partecipanti all’azione erano concordi nel testimoniare che tutti e due si arresero subito senza colpo ferire, dimostrando di essere contenti della situazione in cui vennero a trovarsi. Strada facendo alcuni dei nostri chiesero loro se volevano tornare ai propri comandi o rimanere con noi, questi caldamente risposero di voler rimanere con noi» [22].
La lettera di Ranieri “ingannò” lo storico della Resistenza Claudio Pavone, che nel suo bellissimo libro Una guerra civile citò questo passo come esempio tra i più significativi della diserzione tedesca: «la qualità di muratore e di contadino […] è sottolineata, come garanzia» [23]. Ranieri raccontò il seguito anni dopo, nell’intervista rilasciata a Giovanni Contini, Paolo Pezzino e Francesca Pelini per il Museo Audiovisivo della Resistenza di Fosdinovo: «Questi due tedeschi che poi conoscevano l’italiano sono ritornati su e sono andati dalla famiglia che era un’osteria che ci ospitava e hanno portato via uno, l’hanno portato in Germania e gli altri hanno bruciato e hanno fatto quello che hanno fatto. Ecco abbiamo sbagliato a lasciarli andare via, ecco è così!!! A come la pensavamo in quell’epoca lì, sono due contadini, non hanno sparato e abbiamo commesso un errore» [24].
Lo sminamento del golfo
Il fenomeno della diserzione tedesca riguardò in maniera consistente la Brigata “Val di Vara” della Colonna “Giustizia e Libertà”, come emerge dal testo del suo comandante Daniele Bucchioni “Dany” Attività della Brigata Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà, nel citato Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, e dal libro di Sirio Guerrieri e Luigi Ceresoli, Dai Casoni alla Brunella. La Brigata Val di Vara nella storia della Resistenza (1986).
All’inizio del 1945 fu costituita la 5ª compagnia, al comando di Giuseppe Coselli “Beppe”, in cui «vennero inquadrati quasi tutti i partigiani di altre nazionalità, russi, polacchi, tedeschi ed ungheresi» [25]. Secondo Guerrieri e Ceresoli «i militari tedeschi accolti nella brigata furono in tutto sette» [26].
Molti i racconti sui tedeschi. Nell’agosto del 1944 venne arrestato il capitano Albert, l’austriaco che dirigeva i lavori della Todt, poi «fucilato per le simpatie sempre manifestate a favore della popolazione italiana» [27]. Guerrieri e Ceresoli confermano l’arresto ma scrivono «di lui non si seppero più notizie» [28].
Nel febbraio 1945 disertò il tedesco Gherard Zimmermann, portaordini del comando tedesco: «Essendo disgustato dalle rappresaglie contro i cittadini inermi, dalle stragi che non risparmiavano né vecchi né bambini, aveva deciso di disertare. Morire per il fanatismo di Hitler non aveva senso» [29]. Fu «un combattente coraggioso» [30], di cui vengono raccontate alcune azioni.
La storia più affascinante è però quella dell’”operazione mine” e del maresciallo tedesco che salvò il golfo minato dai tedeschi: gli ordigni di distruzione avrebbero dovuto creare un vuoto tra le truppe tedesche in ripiegamento e quelle alleate avanzanti. Ecco il racconto di Bucchioni: «Il comando venne a conoscenza che il sottufficiale comandante del plotone pionieri, che si occupava in modo specifico delle mine, aveva una relazione con una donna della Spezia; si cercò quindi di entrare in contatto con l’amica del tedesco. Si chiamava Sanfedele Edelmira, abitante in via del Prione. La donna si dichiarò disposta a collaborare con i partigiani, chiese però garanzie per la incolumità sua e del suo amico. […] Il sottufficiale aveva con sé la pianta del golfo della Spezia, da Lerici a Portovenere. In tale pianta erano riportate tutte le mine collocate a sito: un quadro impressionante. Erano circa tremila ordigni, molti di grande potenza, innescati con detonatori elettrici e comandati a distanza» [31].
Fu concordato che il sottufficiale sarebbe tornato in città e avrebbe tolto gli inneschi alle mine. Cosa che fece, prima da solo, poi con due partigiani. Il resto fu sminato dopo la Liberazione, grazie a quella preziosa mappa. Non conosciamo il nome del sottufficiale (un maresciallo), ma quello del sottufficiale da lui dipendente, il sergente guastatore Theo Rohrwieck. Guerrieri e Ceresoli comprendono i due tra i sette disertori tedeschi della Brigata.
Nel libro di Guerrieri e Ceresoli ci sono i nomi degli appartenenti alla Brigata. Quelli dei disertori tedeschi potrebbero essere questi (in alcuni casi lo sono sicuramente): Chircum Fiodor, Havikni Alessandro, Kowatsek Franz, Labiu Fiodor, Rohrwerk Theo, Werner Leo Frassech (l’unico caso in cui compare a fianco la parola “tedesco”), Zimmermann Gherard. Se fossero tutti tedeschi, avremmo i nomi di tutti e sette i disertori.
Nel Registro storico dei riconoscimenti, custodito nell’Archivio dell’Istituto Spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea e nella scheda sui partigiani e i patrioti stranieri realizzata da Maria Cristina Mirabello, pubblicata nel sito ISR, sono presenti tre nomi sui sette citati, Chircum, Havikni (scritto Havinik) e Zimmermann.
Anche nel Battaglione “Zignago” della Colonna “Giustizia e Libertà” operò un piccolo nucleo di disertori tedeschi, anche in questo caso riuniti in una compagnia, la 6ª. Secondo la lettera del vicecommissario e del comandante della I Divisione Liguria del 7 novembre 1944 a Gordon Lett, tra i disertori stranieri presenti nel Battaglione “Zignago”-6ª compagnia c’era l’austriaco Willy Pagel, che è citato anche nel libro di Ricci. Ricci cita pure il tedesco Willy Bramans. Nel Registro dei riconoscimenti e nella scheda ISR compare solo il secondo (scritto Bromans, con a fianco la parola tedesco).
“Enrico” Rahe e il disertore tedesco che combatté nella guerra di Spagna
Vera Del Bene “Libera” fu una delle poche donne partigiane combattenti nella IV Zona operativa, nel Battaglione garibaldino “Gramsci” (poi “Maccione”). Leggiamo in brano della sua testimonianza raccolta dalla figlia Oretta Jacopini: «Ricordo un tedesco di stanza a Levanto che, avvisandomi di una rappresaglia, ci salvò. Enrico Rahe, siamo rimasti in amicizia, ancora oggi ci frequentiamo, perché lui è salito in montagna a combattere con noi» [32].
Erich Heinrich Rahe, “Enrico”, partigiano nel Battaglione “Gramsci”, fu poi catturato e liberato dalle carceri di Chiavari pochi giorni prima della Liberazione. Compare sia nel Registro che nella scheda. Ancora vivente, è stato intervistato da Carlo Greppi [33]. Rahe era stato intervistato più ampiamente nel 2016 dal giornale “Neue Westfälische”.
Ecco il racconto della sua “scelta morale”: «Dopo la scuola dell’obbligo, completò un apprendistato come fabbro a Versmold. Allo stesso tempo, al prestante giovane venne chiesto se volesse entrare nelle SS e questo pensiero lo allettò. Finita la formazione professionale all’età di diciassette anni, nell’ottobre del 1942 Rahe si arruolò nelle SS e nel febbraio del 1943, dopo varie tappe in Germania, Prussia Orientale, Jugoslavia, Austria e Romania, giunse nella città ungherese Debrecen. Là, la sua divisione venne divisa fra le missioni in Russia e quelle in Italia e in quell’occasione Rahe fece una esperienza che lo segnò: “Vidi per la prima volta come gli Ebrei venivano caricati sui carri bestiame”». Un evento che gli rimase per sempre impresso nella memoria.
Come membro della 16ª divisione dei granatieri corazzati delle Waffen SS “Reichsführer”, Rahe venne trasferito sul fronte italiano in Toscana, vicino a Livorno. Durante l’estate gli giunsero le notizie circa l’attentato a Hitler, ma non solo: “Si diceva che interi paesi in Italia venissero annientati, che donne e bambini venissero uccisi – e tutto questo prevalentemente da parte delle SS. Si diceva inoltre che i tedeschi sequestrassero cavalli, bovini e pecore alla popolazione che finiva quasi per morire di fame”. Il mondo di Erich Rahe crollò. “Prima, in Ungheria, vidi come venivano trasportati gli Ebrei, poi venni a sapere che si uccidevano donne e bambini. Tutto questo mi atterrì. Non ero andato in guerra per uccidere civili, ma per combattere altri soldati per la vittoria tedesca – non sapevo che questo”.
Un nuovo modo di vedere le cose maturava in lui. Nel settembre 1944, quando fu costretto a una degenza nell’ospedale militare a causa di un’itterizia, il diciottenne cercò un contatto con gli italiani, trovando infine delle persone del luogo che lo condussero dai partigiani sulle montagne degli Appennini [34]. Rahe trovò sostegno in un altro tedesco: “Leonhard Wenger aveva combattuto nella guerra civile spagnola contro Franco e successivamente si era unito ai partigiani italiani. Lui mi ha addestrato”» [35].
Al telefono “Enrico” ma ha confermato che fu «addestrato» da Wenger: «Ho conosciuto Wenger ai monti, siamo stati insieme nel “Gramsci”. Aveva fatto la guerra di Spagna, poi fu arrestato in Francia, fuggì e venne in Italia a combattere con i partigiani. Nel gennaio 1945 cercò di passare il fronte sulle Apuane, una bomba che era a terra esplose, morì sul colpo».
Rahe mi ha poi parlato della sua partecipazione alla tentata rapina alla Banca d’Italia, confermando il racconto di “Tullio” (si veda la seconda parte di questo articolo), segno di una collaborazione tra bande diverse – “Tullio” era, a suo modo, nella “Muccini”: «Ci servivano soldi per poter comprare viveri dai contadini. Così nacque l’idea di rapinare la Banca d’Italia nella città della Spezia, dove c’era un collaboratore che apparentemente cospirava con i tedeschi, ma in realtà era una spia della Resistenza. Indossavo un’uniforme della Wehrmacht per non dare nell’occhio, ma l’operazione fu interrotta. Cominciò un rastrellamento e dovemmo venire via». Insieme a lui c’erano i due disertori che combattevano con “Tullio”: Mauro, austriaco, ed Enrico, tedesco.
Wenger non compariva finora in nessun documento e in nessuna testimonianza. L’associazione tedesca degli ex volontari di Spagna KFSR – Kampfer und Freunde der Spanichen Republik – ha pubblicato un libro con i nominativi di tutti i tedeschi che hanno combattuto in Spagna contro Franco, ma una scheda su Wenger non c’è. L’opera è ancora incompleta e forse il nome comparirà in un volume successivo, anche se è probabile che Leonard Wenger sia piuttosto un nome di battaglia come si usava spessissimo allora: non era consigliabile presentarsi con la propria reale identità. La ricerca, comunque, continua…
Oltre 40 “bravi tedeschi”
Nel Battaglione “Gramsci”, Rahe e Wenger non furono gli unici disertori tedeschi. Sappiamo da varie testimonianze della morte, l’11 novembre 1944 nel rastrellamento a Cornice di Sesta Godano, di un altro Hans, ufficiale delle SS e disertore, che fu catturato, torturato e ucciso dopo il suo generoso tentativo di evitare rappresaglie ai contadini che lo ospitavano [36]. Nella Brigata “Muccini”, oltre a Jacobs e all’attendente e ai due disertori che combatterono prima con la “Centocroci” e poi nella “Muccini” con “Tullio”, c’era un altro tedesco nel distaccamento “Righi,” come ricorda Nicola Caprioni, figlio del comandante Rinaldo. In 29 novembre Numero Unico della Brigata d’Assalto Garibaldi “Ugo Muccini” (1947) veniva citato un altro Hans, che potrebbe essere il disertore del “Righi”.
Ancora: nella ricerca con Carlo Greppi sull’attendente ci siamo imbattuti in Kurt Buble, sepolto nel Sacrario della “Muccini” a Sarzana, scoprendo poi il suo vero nome: Kurt Ruhle, morto il 2 giugno 1945 in ospedale a Sarzana, dopo due settimane di ricovero. Il fenomeno della diserzione tedesca nella Resistenza in IV Zona appare davvero consistente e intenso: sette o otto, dopo la battaglia del Manubiola, nella “Centocroci” e nel “Battaglione Internazionale”; almeno undici in Giustizia e Libertà, sei nella “Muccini”, tre nel “Gramsci”, il “misterioso” Franz…
Iole Bresadola Barletta, nel libro di memorie I nostri verdi anni, così descrisse la Resistenza nel Pontremolese e nello Zerasco: «Nella nostra zona operavano vari distaccamenti formatisi per lo più da partigiani nostrani assieme ad alcuni prigionieri russi, a meridionali, ed anche a qualche soldato tedesco che aveva abbandonato l’esercito uncinato» [37].
Ai tedeschi partigiani vanno aggiunti coloro che si ribellarono in varie forme e per questo furono uccisi, pur non diventando partigiani. Come il capitano Albert. Come i dodici morti tedeschi sepolti al cimitero spezzino dei Boschetti, «sottoposti alla pena capitale per disfattismo o tentata diserzione» [38].
Possiamo dire che i “bravi tedeschi” furono, almeno, oltre quaranta. Un fenomeno che si spiega innanzitutto con la loro “scelta morale”, con la loro capacità individuale di superare quello che ancora oggi ci appare un abisso. Ma che si spiega anche con la forza espansiva della nostra Resistenza, capace di attrarre forze persino dall’esercito invasore.
Tra le carte inedite di Piero Galantini “Federico”, che ho letto grazie al figlio, c’è un piccolo quaderno scritto a penna su carta intestata della Confederazione fascista lavoratori dell’agricoltura, quindi prima della Liberazione: è una Relazione sull’attività generale della Brigata Ugo Muccini. Il «favoreggiamento della diserzione» vi appare come obiettivo primario: «Furono allo scopo lanciati molti manifestini in lingua italiana, russa e tedesca» e le «cifre di bilancio» furono di «oltre 90 disertori russi, polacchi, tedeschi, austriaci, italiani» [39].
Claudio Pavone, in Una guerra civile, riportò il testo di un opuscolo di Giustizia e Libertà, scritto da Massimo Mila, che sottolineava, già nel suo esordio, che la seconda guerra mondiale era guerra di religione europea e mondiale e spiegava: «Frazioni di italiani, di cinesi, di francesi e di russi oggi combattono nell’uno e nell’altro campo […]. Oggi noi, partigiani, sentiamo un fratello nel tedesco antihitleriano, un nemico mortale nell’italiano fascista» [40]. Davvero la Resistenza fu internazionale, e in particolare europea (in Giappone, va ricordato, il fenomeno della diserzione non si manifestò).
Gaetano Arfè amava ricordare che nel febbraio 1945 arrivò nella sua formazione partigiana un soldato tedesco: «Ci mostrò una fotografia: era della famiglia, tutti morti, ci disse, sotto un bombardamento ad Amburgo. Suo padre era stato ucciso nella prima guerra mondiale. Straziato dal dolore quell’uomo si era posto (e ci poneva) il problema di come fare per evitare che le bande di assassini portassero periodicamente i popoli a scannarsi tra loro. E la soluzione che aveva pensato era semplice: abolizione delle frontiere e dei passaporti, scioglimento degli eserciti nazionali, unificazione delle monete, elezione di un governo europeo».
Più avanti Arfè riflette: «Alla luce del senno di poi è facile scorgere quanto ci sia di utopistico in questo disegno. Ma non meno utopistico e per di più cinico e miope è il disegno di quei potenti della terra che dividono il mondo in sfere di influenza, diffidenti e tendenzialmente ostili e che preparano all’umanità i decenni della guerra fredda e quello che ne è seguito. Ma le primavere della storia – e la Resistenza europea questo fu – non cessano mai di dare frutti. Per questo […] mi è tornato alla memoria quel mio disertore: perché vi vedo un segno del primo timido nascere, sulle ceneri del nazionalismo, di un patriottismo europeo che cerca e trova nella Resistenza la fonte dei suoi valori etico-politici» [41].
L’Unione europea ha bisogno di riscoprire i suoi maestri: tra loro ci sono certamente Rudolf Jacobs e i disertori tedeschi.
Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007
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[1] Primo Savani, Antifascismo e guerra di liberazione a Parma, Parma, Guanda, 1972, p. 184. Su Laura Seghettini cfr. Giorgio Pagano, “Facio” e Laura, ora in Id, Eppur bisogna ardir, cit., pp. 287-324.
[2] Laura Seghettini, Al vento del Nord, Roma, Carocci, 2006, p. 91.
[3] Ivi, p. 96.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, pp. p 96-97.
[6] Primo Savani, Antifascismo e guerra di liberazione a Parma, cit., p. 185.
[7] Ibidem.
[8]«E se fossero non svariate centinaia, ma alcune migliaia, i partigiani tedeschi e austriaci della Resistenza italiana?» (in Carlo Greppi, Il buon tedesco, cit., p. 125).
[9] Giuseppe Nestini, Piero Borrotzu martire della libertà, Genova, SEI, 1949, p. 43.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 67.
[12] Ibidem.
[13] Roberto Battaglia, Risorgimento e Resistenza, cit., p. 181.
[14] Gino Camboni, Il partigiano Tenente Piero, Sassari, EDES, p. 25.
[15] Roberto Battaglia, Risorgimento e Resistenza, cit., p. 282.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Carlo A De Rosa, Quel capitano tedesco che morì da partigiano, “Il Mattino”, 25 aprile 1981.
[19] Ibidem.
[20] Giulivo Ricci, La Colonna “Giustizia e Libertà”, La Spezia, FIAP, 1985, p. 85.
[21] Ibidem.
[22] Paolino Ranieri, Rapporto di Andrea a «Cari compagni», 14 marzo 1944, Istituto Gramsci, Brigate Garibaldi, Emilia Romagna, G. IV. 2. 2.
[23] Claudio Pavone, Una guerra civile, Torino, Einaudi, 1991, p. 218.
[24] Museo Audiovisivo della Resistenza delle province di Massa Carrara e La Spezia, Intervista a Paolino Ranieri (intervista di Giovanni Contini, Piero Pezzino e Francesca Pelini), s.d. ma 199[?], p. 21.
[25] Daniele Bucchioni, Attività della Brigata Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà, in Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, La Spezia, Istituto Storico della Resistenza, 1975, p. 179
[26] Sirio Guerrieri e Luigi Ceresoli, Dai Casoni alla Brunella. La Brigata Val di Vara nella storia della Resistenza, Sarzana, Zappa, 3ª ristampa, s. d. ma 1995, p. 259.
[27] Daniele Bucchioni, Attività della Brigata Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà, in Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, cit., p. 161.
[28] Sirio Guerrieri e Luigi Ceresoli, Dai Casoni alla Brunella. La Brigata Val di Vara nella storia della Resistenza, cit., p. 120.
[29] Ivi, p. 258.
[30] Ibidem.
[31] Daniele Bucchioni, Attività della Brigata Val di Vara della Colonna Giustizia e Libertà, in Resistenza nello Spezzino e nella Lunigiana – Scritti e testimonianze, cit., p. 186. Cfr. Giorgio Pagano, Il giovane “William” e il tragico duello tra “Facio” e “Salvatore”, “Città della Spezia”, 22 febbraio e 1° marzo 2015, ora in Id, Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit., pp. 302-319. Umberto Bellavigna “William”, insieme a un altro partigiano, accompagnò Eldemira Sanfedele da Daniele Bucchioni.
[32] La partigiana Vera Del Bene (Libera) nel racconto della figlia Oretta Jacopini, nel sito dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della Spezia, s.d. ma 2013. Su Vera Del Bene cfr. Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona operativa tra La Spezia e Lunigiana, cit., pp. 101-110.
[33] Carlo Greppi, Il buon tedesco, cit., pp. 176-178.
[34] Oretta Jacopini ricorda il ruolo della famiglia Raso, che abitava a Bardellone, sopra Levanto. A condurre Rahe ai monti fu la giovane Delfina Raso.
[35] Michael Schuh, Nach dem Anblick deutscher Kriegsverbrechen schloss sich SS-Soldat Rahe dem Gegner an, “Neue Westfälische”, edizione di Gütersloh, 23 giugno 2016.
[36] Cfr. Giorgio Pagano, “Richetto”, Tino e la “santa pattona”, “Città della Spezia”, 18 gennaio 2015, ora in Id., Eppur bisogna ardir. La Spezia partigiana 1943-1945, cit., pp. 220-228.
[37] Iole Bresadola Barletta, I nostri verdi anni, Torino, Aiace, s.d., p. 60.
[38] Carlo Greppi, Il buon tedesco, cit., p. 126.
[39] Piero Galantini, Relazione sull’attività generale della Brigata “Ugo Muccini”, manoscritto inedito, s.d. ma 1945.
[40] Claudio Pavone, Una guerra civile, cit., p. 305.
[41] Gaetano Arfé, Europa unita, un sogno resistente, “il Manifesto”, 25 aprile 2004.
Pubblicato mercoledì 8 Dicembre 2021
Stampato il 30/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/gli-speciali-di-patria/speciale-quei-disertori-del-reich-nel-vento-del-nord/