Sono certo che molti avranno notato con quale celerità il referendum sulla riforma del Senato, è stato “archiviato”. Pochi giorni di commenti subito dopo il voto e poi non se ne è parlato più. Singolare! Sia ben chiaro. Io non intendo riprendere l’ampia discussione che c’è stata sul Sì e sul No; quella, sì, è ormai archiviata ed è inutile tornarci sopra; anzi, sarebbe forse dannoso, in qualche modo, perché manterrebbe in vita senza ragione quella divisività che è stata la principale caratteristica del progetto di riforma costituzionale.
Io mi riferisco invece alla riflessione sul significato complessivo del voto espresso dagli italiani. Quella, se c’è stata, è finita troppo presto. Credo che almeno su tale aspetto (quello del significato) qualche riflessione avrebbe dovuto essere approfondita; e dico subito il perché. A mio parere, quel voto ci ha detto, prima di tutto, che i cittadini non vogliono essere soggetti passivi su un tema che li riguarda direttamente. E sono corsi alle urne, con una presenza che da molto tempo non si verificava, né sui referendum, né sulle consultazioni elettorali. Questa volontà di partecipazione avrebbe dovuto essere colta, come uno dei fatti più importanti dell’anno 2016, proprio perché la partecipazione – l’ho detto mille volte – è il sale della democrazia; dunque la “novità” avrebbe dovuto essere salutata non solo positivamente, ma anche con una riflessione sulle ragioni della svolta e su ciò che occorre fare per renderla permanente. Perché di partecipazione abbiamo davvero bisogno, proprio per rinforzare la nostra democrazia e per restituire ai cittadini quella “sovranità popolare” che per molto tempo essi stessi hanno finito per non esercitare o per esercitare solo in parte. Invece, di questo, nei tanti bilanci, positivi e/o negativi, apparsi sulla stampa, poco o nulla è emerso, quasi che ci fosse una voglia sotterranea e segreta di non parlare più di questo incidente della riforma del Senato, finita male per i promotori.
Ma accanto a questo aspetto, ce ne sarebbero stati altri, meritevoli di segnalazione e di riflessione. È la seconda volta, nel giro di pochi anni, che una riforma costituzionale “grandiosa”, sostenuta dal Governo in carica, è stata bloccata dal voto. Questo non può non esprimere un messaggio molto chiaro, di attenzione: la Costituzione va rispettata, può essere modificata, ma con coerenza rispetto alle sue linee di fondo, che restano tuttora validissime; una specie di “altolà” dei cittadini ai tentativi troppo spericolati di procedere non a qualche “revisione” della Carta (come dice espressamente l’art. 138 della Costituzione), ma a modifiche fortemente incisive sulle stesse garanzie del sistema tracciato dai Costituenti. Insomma, una sorta di ammonimento dei cittadini a chi, nel futuro, avesse ancora voglia di mettere mano a riforme non corrispondenti a quel concetto di “revisione”, chiaramente espresso dalla Carta. Ma ancora: si è poco approfondita l’opinione pubblicata – il 18 dicembre su Repubblica – e formulata, col suo solito stile pacato ma fermo e dotato di estrema precisione, del Prof. Alessandro Pace, della quale basta qui richiamare il titolo, che è di per sé altamente significativo, “Basta con le mega riforme costituzionali”. Ha ragione, infatti, il prof. Pace, a sottolineare che nessuna mega-riforma dal contenuto disomogeneo ha mai avuto successo nel nostro Paese. I tentativi sono stati molti e tutti sono falliti. Non è materia di riflessione, questa e di serio ammonimento per l’avvenire?
Ma tant’è; si è preferito parlare d’altro, anche di cose buone o cattive (piuttosto predominanti, queste ultime) che sono avvenute nel 2016. E invece, questi segnali sono importanti e indicatori di una volontà popolare, che va rispettata; noi saremo sul campo, pronti a ricordarli ogni volta che potrà venire in mente a qualche spericolato di tornare sulla linea dei precedenti tentativi falliti.
Non posso che concludere queste note ricordando una vera e propria “amenità” (si fa per dire) che abbiamo letto in uno dei tanti “bilanci”, questa volta redatto per “voci”. Sul Corriere, nella pagina dedicata al “peggio” del 2016, Pierluigi Battista ha inserito una voce, “partigiani” che lascia trasecolati. Secondo l’autore, il 2016 è stato un anno “pazzotico” in cui si è imbastita una interminabile discussione su chi siano i “veri” partigiani; e qui sta il primo equivoco. Non abbiamo avuto notizia di una discussione del genere e tanto meno ci siamo accorti che fosse interminabile. Ma in più c’è il fatto che una discussione richiede più partecipanti, altrimenti è un monologo. Nel caso di specie, c’è stata un’improvvida affermazione di una componente del Governo, sulla quale era impossibile aprire una discussione, ma si poteva fornire, al più, come è avvenuto, qualche ironica risposta o una denuncia di cattivo gusto quando essa è stata completata dalla presentazione di una sfilata di partigiani “veri” che, naturalmente, votavano per il Sì. Poi più nulla, perché sul ridicolo non si discute, ma – a seconda del carattere di ognuno – si ride o ci si arrabbia. Tutto qui. Poi il giornalista prosegue, specificando meglio il suo vero obiettivo, cioè coloro che “parlano a nome dell’ANPI e sono nati molti anni dopo la fine della Resistenza” e dovrebbero tacere – dice l’autore – e lasciare la parola ai partigiani che hanno fatto i partigiani. Ora c’è da dire che “parlare a nome dell’ANPI” non significa affatto parlare dei partigiani, ma di un’Associazione che è stata fino al 2006 composta solo da combattenti per la libertà e da allora, con una modifica statutaria approvata anche dagli organismi di controllo, ha ammesso anche gli “antifascisti” che si riconoscono nelle finalità e nei valori dell’Associazione. Da allora, anche se qualcuno non se ne è accorto, nell’ANPI sono entrati tanti giovani e tante donne, e tanti di una vera e propria generazione pacificamente successiva al periodo della Resistenza. Tra i partigiani e gli antifascisti si è creato un amalgama straordinario, che ha assicurato la “continuità” dei valori della Resistenza e della Costituzione, cui questa Associazione si è sempre ispirata. Se oggi il numero degli iscritti supera le 124.000 unità, questo è proprio perché quell’amalgama si è costituito nel tempo ed ha perfettamente funzionato; e ai nostri successori affideremo, come lascito, quella “continuità” che è il bene e la caratteristica fondamentale dell’ANPI. Spero, così, di aver spiegato chiaramente, anche a chi non sa, come stanno realmente le cose. Ciò che ci colpisce particolarmente, però, è che questa voce “Partigiani” sia stata inserita nel “peggio” del 2016, cioè accanto a Aleppo, Colonia, Erdogan, Odio, Zoticoni, Squadristi, Bambolotti, etc”.
Ci vuole una bella dose non dico di mancanza di rispetto, ma addirittura di disinvoltura per creare simili paragoni, che sono comunque offensivi non solo se riferiti ai “partigiani”, ma anche a quelli che tali non sono stati, ma che oggi appartengono a pieno titolo ad una Associazione come l’ANPI, a sua volta degna almeno di rispetto, reale e non solo formale. Potrei aggiungere anche che nessuno ha parlato “a nome” dell’ANPI, anche se era riconoscibile la sua appartenenza; ma forse non vale neppure la pena di soffermarsi ulteriormente sul tema.
Carlo Smuraglia, Presidente dell’ANPI nazionale, da ANPInews n. 229 – 10/17 gennaio 2017
Pubblicato lunedì 16 Gennaio 2017
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