Sì, un giugno davvero indimenticabile quello del 1944. Sole, tanto sole, alto e libero con una luce straordinaria e l’aria già calda. C’è voglia, in ogni angolo, di urlare di gioia per la fine di un incubo. E c’è chi corre, come impazzito, gridando e parlando finalmente a voce alta. Su tanti altri visi, invece, scorrono lacrime di dolore per quello che si sta scoprendo. Ci si abbraccia per le strade da piazza Venezia a piazza del Popolo, da San Lorenzo martoriata dai bombardamenti e ancora in via del Corso e a piazza Colonna. Le ragazze porgono a quegli spilungoni degli americani, fiaschi di vino e bottiglie di acqua, mentre macchine e cannoni, camion e motociclette continuano a sciamare nel cuore della Città Eterna.
Gruppi interi, invece, si precipitano in via Tasso, nel carcere delle SS dove, per mesi, sono stati torturati partigiani e antifascisti. Tutto viene sfondato, le carte buttate dalle finestre e messe su un grande fuoco. Ancora si applaude e si grida con gioia e rabbia. Poi, improvviso, il silenzio. Le teste si girano verso la porta d’ingresso dove stanno cominciando ad uscire delle creature bianchicce, con gli occhi pesti, magre. Il brigadiere dei carabinieri Angelo Joppi ha la faccia piena di dolore. Non si regge in piedi e due familiari lo sorreggono. Lo hanno torturato per mesi senza pietà. Escono ancora altri torturati, altri vilipesi, altri massacrati. Ormai sono pochi perché tutti gli altri sono finiti alle Ardeatine o fucilati contro il terrapieno di Forte Bravetta.
A San Lorenzo, è troppo difficile far festa perché i morti sotto le bombe sono stati migliaia. Laggiù, nelle Fosse Ardeatine, i medici hanno già cominciato l’orrendo lavoro di separare qui 335 corpi, saldati l’un l’altro dagli umori della morte. Tutti hanno le mani legate dietro la schiena e sono stati fatti salire, a cinque a cinque, sui corpi dei compagni ammazzati prima di loro.
Roma è una città ferita, vilipesa, umiliata, travolta dalla paura, dalla fame, dalla sete. Ma è anche una città che ha combattuto che si è ribellata che ha dato battaglia all’invasore nazista e ai fascisti di Salò. Quanti, quanti morti eroici e grandiosi.
Uno ha scritto, su un muretto di Forte Bravetta, due sole parole: «Avanti Italia». E per l’Italia sono morti coraggiosamente, senza cedere un momento, Leone Ginzburg, massacrato di botte in cella a Regina Coeli, Vittorio Mallozzi, Medaglia d’Oro, operaio comunista di Ostia, Aladino Govoni, giovane soldato figlio del poeta, Maurizio Giglio, sottotenente, torturato e portato a braccia a morire nel carnaio delle Ardeatine.
E sono morti con lui e come lui, Salvo D’Acquisto, carabiniere, i sacerdoti don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo. Don Pietro, davanti all’ingresso delle cave del massacro, si era messo a benedire tutti. Lo conoscevano bene, gli altri di via Tasso. Un giorno, in cella, il povero prete era stato preso dagli aguzzini e ignudato per umiliarlo davanti a tutti gli altri. Ma gli altri, con un atto di coraggio silenzioso e inaspettato, si erano girati verso i muri delle celle, rifiutando di guardare.
È nella Roma di quei giorni caldissimi, pieni di gioia e di dolore, in quel giugno 1944 che uomini generosi e coraggiosi, forse ancora in armi, mescolati ai soldati alleati che volevano vedere l’antica e grande Roma da lassù, erano saliti verso il Campidoglio.
Si erano riuniti, avevano liberamente parlato e deciso di fondare l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. I combattenti del Sud dovevano essere riportati alla vita civile e avevano bisogno di aiuto. Tornavano anche i soldati dai fronti di mezzo mondo e avevano bisogno di assistenza.
A Nord, invece, la lotta per la libertà era ancora in pieno svolgimento e c’era bisogno di tutti: armi, roba da mangiare, apparecchi radio, vestiti, uomini per i collegamenti e volontari che volessero tornare a combattere.
E poi l’ANPI doveva salvaguardare ad ogni costo il patrimonio popolare di democrazia e di partecipazione dal basso che era nato e cresciuto sui monti, nelle pianure, lungo i fiumi o nelle strade delle città liberate, come a Napoli, con le “Quattro giornate”. Un patrimonio, dopo venti anni di dittatura e una guerra terribile, che nessuno poteva permettersi di disperdere. E c’era ancora da vigilare per evitare infiltrazioni fasciste o l’accodarsi, al grande movimento di Resistenza, di profittatori, delinquenti, gruppi di sbandati o personaggi che con la Resistenza non avevano mai avuto niente a che vedere. E ancora, bisognava assistere ed aiutare in ogni modo le famiglie dei compagni caduti, i feriti, i mutilati. Un lavoro gigantesco, mentre la guerra era ancora in corso.
L’atto formale di nascita dell’ANPI, non c’è più: è andato disperso. Ma la sua costituzione fu voluta dal Comitato di Liberazione Nazionale (…).
Comunque si insediò, proprio in Campidoglio, un comitato nazionale provvisorio dell’ANPI che si preoccupò immediatamente di dispiegare tutta la propria autorità anche per evitare il formarsi di gruppi di sbandati ed evitare ogni degenerazione o pericolose tendenze neo-squadristiche o di pura e semplice vendetta.
L’ANPI, al momento della nascita, ha dunque sede ufficiale in Campidoglio, ma successivamente viene sfrattata dal sindaco, il principe Filippo Doria Pamphilj che pure aveva qualche benemerenza antifascista ed era stato inviato al confino di polizia.
L’Associazione dei partigiani si trasferisce, allora, in un villino di via Savoia, già sede di una scuola tedesca. Il villino è collegato con un altro immobile che diventa la “Casa del Partigiano” dove si presta la prima assistenza ai combattenti di passaggio. Dirige la “Casa del Partigiano” Alfonso Bartolini. C’è una macchina a disposizione, ma presto si torna alla bicicletta e alla durezza spartana della vita di allora. Il 19 febbraio 1945 esce il giornale la Voce Partigiana, proprio nel giorno in cui, in piazza del Popolo migliaia di persone, di resistenti, di soldati e di parenti delle vittime delle stragi, si ritrovano insieme per celebrare la “Giornata del soldato e del partigiano”.
L’Associazione cura anche una trasmissione radiofonica dal titolo: “Radio Tricolore”. Ma tutti gli occhi e i cuori sono tesi ad ascoltare la “voce del Nord” dove si combatte, si soffre e si liberano le piccole e grandi città o i paesi, precedendo, spesso, le truppe alleate. Ed è con una immensa emozione che si ascoltano le radio, si leggono con ansia i giornali, nelle ore dell’insurrezione del 25 aprile. Il “vento del Nord” ha ormai spazzato via l’occupazione nazista, il fascismo, la prepotenza e l’ingiustizia. Il sole è tornato di nuovo a brillare per tutti: su un Paese distrutto e sofferente, sui luoghi delle stragi orrende, sulle montagne e nei piccoli centri dove i contadini hanno pagato prezzi altissimi per aiutare i partigiani. È un sole che illumina di nuovo anche le grandi città; dove, fino all’ultimo, partigiani e antifascisti sono stati impiccati, torturati e fucilati.
Il Comitato provvisorio dell’ANPI, nel giorno dell’insurrezione nazionale, indirizza un commosso messaggio ai combattenti del Nord. Eccolo: «L’ANPI man mano che si susseguono le gloriose notizie di lotte e di vittorie conseguite dai Partigiani e dal Popolo tutto dell’Italia del Nord le apprende ammirata.
Manifesta l’orgoglio che vi è in ogni cuore per tali gesta che pongono l’Italia tra le Nazioni che hanno saputo ritrovare per vitalità dei propri figli il diritto alla libertà.
È convinta che, simultaneamente alla cacciata dell’oppressore nazista, si debba procedere con giustizia, che non trovi né indugi né soste, contro i traditori fascisti. In tale spirito plaude alle vittoriose azioni ed esprime la più alta solidarietà».
Dunque (…) l’ANPI non si è mai stancata di spiegare, raccontare, testimoniare e battersi in difesa della democrazia, della Costituzione e della Repubblica.
Anche in nome di migliaia di amici, compagni, fratelli, morti per tutti noi. Nessuno può permettersi di dimenticarlo.
(da Patria Indipendente n. 9 del 2004)
Pubblicato giovedì 13 Giugno 2019
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