Negli ultimi giorni, due colpi di scena sulla morte di Stefano Cucchi: la Procura della Repubblica di Roma ha acquisito nuove testimonianze sull’operato dei carabinieri – un maresciallo è indagato per falsa testimonianza e sarebbero in corso accertamenti per altri militari – e un’ulteriore consulenza medico-legale che, oltre a dimostrare la presenza di lesioni risalenti a quei giorni del 2009, pone nuovi interrogativi.
Una delle novità riguarda i carabinieri che fermarono Stefano: si ipotizza un altro pestaggio?
Siamo a un momento di svolta. Credo che il Procuratore capo della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone, con il sostituto responsabile della nuova inchiesta, Giovanni Musarò, sappiano molto più di quanto noi immaginiamo. Si stanno aprendo altri scenari. Speriamo sia un nuovo inizio: sono molto grata a Pignatone. Due carabinieri ci hanno cercato e le loro dichiarazioni sono state ripetute in procura. Non so perché lo abbiano fatto, cosa sia scattato in loro. Stefano potrebbe essere stato massacrato anche prima di arrivare nelle celle del tribunale di piazzale Clodio per la convalida del fermo. L’agonia di mio fratello si allunga e aumenta anche il nostro dolore, perché è morto convinto che la famiglia lo avesse abbandonato. I magistrati dell’inchiesta-bis sono molto avanti, lo ribadisco. Però sono passati sei anni, due processi, e a dicembre si pronuncerà la Cassazione. Rimasi malissimo per la sentenza di appello che assolveva tutti. Poco dopo ho compreso che indicava chiaramente di cercare altrove. Continuavo a ripetere al mio avvocato, Fabio Anselmo, “abbiamo vinto, abbiamo vinto”. Lui diceva: “Ilaria sei matta?”. Alla fine si è convinto. Abbiamo sfondato un muro: se nelle aule di giustizia non c’era, in quel momento, la capacità di ammettere le responsabilità dello Stato, fuori da quelle aule tutti sanno e tutti hanno capito. Mio fratello sarebbe stato dimenticato come un tossico, un piccolo spacciatore di periferia che, tutto sommato, “se l’era cercata”. Oggi non è più così.
Pochi giorni fa avete consegnato in Procura una nuova consulenza medica. Smentirebbe la superperizia della Corte d’Assise: sostiene l’esistenza di due fratture vertebrali, di cui una risalente ai giorni della morte e resa “non visibile”. Come è potuto succedere?
Sono rimasta scandalizzata da quanto mi ha detto il professor Masciocchi, autore della perizia. È presidente della Società italiana di Radiologia Medica e dirige l’Unità operativa di radiologia della Asl 1 di Avezzano-Sulmona-L’Aquila. Dimostra che è accaduto qualcosa di molto anomalo. I periti milanesi nominati dalla Corte d’Assise chiesero a una radiologa dentista di Chieti un esame delle lesioni vertebrali di Stefano e lei nel referto, tra l’altro non firmato, scrive che non ci sono fratture recenti ed ha bisogno di esaminare altra documentazione. Stop. Il professor Masciocchi ha scoperto che rispetto alla Tac dei Pm, nella tomografia dei periti della Corte la vertebra con la lesione recente era più sottile, non era intera, l’osso era stato sezionato. Siamo in attesa di nuovi sviluppi, probabilmente ancora più clamorosi, sugli aspetti medico-legali, bisognerà stabilire la catena di responsabilità.
Continuerà ad andare avanti? Ha sempre sostenuto che è stato omicidio.
Lo dimostreremo. Stava bene quando è uscito da casa, è morto nelle mani dello Stato. Mi fidavo delle istituzioni e ho sempre combattuto per la verità. Non ho mai cercato un capro espiatorio. Condannare per lesioni gli agenti penitenziari non avrebbe rappresentato il raggiungimento della verità. Se in ultimo si dimostrasse che a pestare mio fratello sono stati i carabinieri, la notte del fermo e forse anche nei sotterranei del tribunale, gli agenti della penitenziaria però sono responsabili comunque. Quella cella l’hanno aperta loro, erano lì e non hanno fatto nulla. Stefano è morto di Giustizia. Nelle registrazioni dell’udienza di convalida del fermo lo si sente più volte scusarsi perché faceva fatica a parlare. Se quel giudice gli avesse chiesto il perché, mio fratello sarebbe ancora vivo. Sarebbe bastata una semplice domanda. Apprendemmo della morte solo quando ci contattarono per autorizzare l’autopsia. Giunti al Pertini, l’agente penitenziario fu molto vago sulle cause. E concluse dicendo: “Controlli le carte, sono a posto”. Quando ho visto quel corpo martoriato, la mia vita è cambiata in quel momento. Mi rivolsi all’avvocato Fabio Anselmo, legale di Patrizia Moretti, la mamma di Federico Aldrovandi. Decidemmo di pubblicare le foto che avete visto tutti.
Il 1° ottobre Stefano avrebbe compiuto 37 anni e il 22 saranno sei anni senza di lui. Sei anni di battaglie all’ostinata ricerca della verità. Ancora oggi le morti di Stefano e Federico continuano a mobilitare le coscienze. Sarà diverso questo compleanno?
Finalmente ricomincio ad avere fiducia nella Giustizia, posso contare su persone straordinarie. Sono emozionata e nello stesso tempo devastata, come se Stefano fosse morto ieri. Spesso mi sono sentita in colpa verso Stefano e la sua memoria, non riuscivo neppure ad andare al cimitero. Per il 22 vorrei organizzare qualcosa di intimo, ma non privato: se oggi qualcosa è cambiato è anche grazie all’opinione pubblica e ai mezzi d’informazione che non hanno mai taciuto. Mai, mai tacere. L’ho capito sulla mia pelle, come Patrizia e Lucia, la sorella di Giuseppe Uva. Ora altre madri, padri, fratelli e sorelle pretendono verità.
Quest’anno si celebra il 70° della Liberazione, la vittoria della Resistenza, dalla quale nacquero la Costituzione e l’Italia democratica.
Dopo sei anni passati a cercare, a studiare le carte di interminabili e grotteschi processi, oltre al lavoro, spero di poter trasmettere ai miei figli la fiducia nello Stato di diritto. Ho chiesto loro un grande sacrificio, dedicando a Stefano ogni minuto della giornata. Giulia, la più piccola, ora ha 7 anni, ma prima capitava spesso che la sera, dopo il bagnetto, dovessi vestirla già pronta per la mattina. Una volta mi chiese: “Mamma, perché non posso andare a letto col pigiama come le altre bambine?”. Valerio è più grande e Stefano era già presente nella sua vita. In principio gli dissi che era morto in un incidente stradale, poi ho dovuto spiegare che qualcuno aveva fatto del male allo zio, ma che avremmo scoperto cosa gli era successo. Sto combattendo per Stefano e per i miei figli. E anche per i figli di coloro che indossando una divisa che conferisce autorità – ma anche maggiore responsabilità – si permettono di abusarne.
Stefano Cucchi, trentuno anni appena compiuti, venne fermato dai carabinieri per possesso di sostanze stupefacenti in un parco della Capitale, la sera del 15 ottobre 2009. Morì una settimana dopo, il 22 ottobre, nel reparto di detenzione protetta dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo due controversi processi – l’appello ha assolto tutti gli imputati: medici, infermieri e agenti penitenziari – la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un’inchiesta-bis.
Pubblicato giovedì 1 Ottobre 2015
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