Qual è il rapporto di Maurizio Landini con l’antifascismo e con l’Anpi?
L’antifascismo è parte della mia vita. Non sarei quello che sono senza i valori e i principi trasmessi da mio padre, partigiano, e dalla mia famiglia, senza i racconti della guerra di Liberazione, senza l’esperienza vissuta in una città Medaglia d’Oro della Resistenza, senza l’esempio e i consigli, sempre rispettosi e utili, di tanti combattenti che ho incontrato in questi anni. L’antifascismo, l’amore per la democrazia e la libertà non può che essere la pelle e l’anima di un militante, di un sindacalista, della Cgil. Lo è ancor più in questi mesi difficili, mesi in cui l’ombra del passato sembra, a volte, riemergere, tornare a galla. Per questo uno dei miei primi impegni è stato recarmi alla sede dell’Anpi di Bari: per riaffermare il legame indissolubile che la Cgil ha e vuole avere con i valori della Resistenza; per rendere omaggio al coraggio, all’eroismo e alla lungimiranza di chi, pur con opinioni e credi politici assai diversi ha saputo, non solo combattere il nazifascismo, ma costruire un Paese e una democrazia forte e radicata; per dire a tutti che quella storia è la nostra storia e che la difenderemo sempre.
Quale sarà la Cgil di Landini? Quali le proposte per giovani, precari, donne, fasce sociali più deboli?
La Cgil non è mai stata, non è e non sarà mai di una persona sola. La Cgil è un sentire comune, è una coscienza collettiva, è pensiero, elaborazione, intelligenza dei milioni di giovani, lavoratori e pensionati che credono nei suoi valori e nella sua azione e che contribuiscono ogni mese a renderla forte, a renderla il più grande e autorevole sindacato del Paese. Abbiamo svolto un Congresso importante. Ci siamo confrontati discutendo un documento comune che disegna l’azione della Cgil per i prossimi quattro anni. In esso si possono trovare le linee strategiche sulle quali è impegnata tutta la Cgil. La nostra prima preoccupazione sarà quella di cercare di riunificare il mondo del lavoro. Da troppo tempo la politica neo liberista ha diviso il lavoro tra occupati e non, tra garantiti e precari, tra uomini e donne. Lo ha fatto perché più facile fosse lo sfruttamento e minore la resistenza sindacale. Dobbiamo invertire questa condizione, dobbiamo tornare a parlare all’intero mondo del lavoro, sia questo dipendente o autonomo. Dobbiamo tornare a dare ai lavoratori i diritti che sono stati tolti o negati. Dobbiamo dare futuro ai giovani, sicurezza ai precari parità di condizione alle donne. Se posso dirla con una espressione semplice, dobbiamo essere sempre più sindacato.
Alla luce del successo della manifestazione unitaria di piazza san Giovanni, quale sarà il futuro rapporto della Cgil col Governo?
Sarebbe stato meglio rivolgere al governo la domanda, chiedere al Presidente del Consiglio quale vuole che sia il rapporto del governo con le rappresentanze dei lavoratori. I sindacati italiani non hanno mai distinto gli esecutivi in base al loro colore politico. Hanno fatto accordi con governi di destra e hanno aspramente criticato governi guidati dalla sinistra politica. Il sindacato italiano è propositivo. La grandissima manifestazione del 9 febbraio aveva una piattaforma, un insieme di richieste che Cgil, Cisl e Uil hanno avanzato al governo. Se partirà la discussione saremo pronti a confrontarci e a trovare le migliori soluzioni possibili nell’interesse del Paese e dei lavoratori. Ciò che questo governo sta perseguendo, come hanno tentato di fare anche i precedenti, è la negazione della rappresentanza al sindacato confederale, un sindacato che, da solo, rappresenta un italiano su cinque. A un sindacato i cui rappresentanti sono liberamente scelti e votati da milioni di lavoratori. La domanda andrebbe quindi rivolta al Presidente del Consiglio: “Quale tipo di rapporto vuole avere il governo con i milioni di lavoratori e pensionati rappresentati da Cgil, Cisl e Uil?”.
Lei e la Cgil siete molto critici sul reddito di cittadinanza e su quota 100, perché? Avete proposte alternative? E cosa ne pensa del cosiddetto regionalismo differenziato?
Siamo contenti e favorevoli che una parte di lavoratori, soprattutto del nord e con una carriera lavorativa stabile, possano finalmente andare in pensione. Quota 100 però non è l’abolizione della cosiddetta legge Fornero e non è neppure una qualsiasi quota 100, ma quella che si raggiunge con 62 anni di età e 38 di contributi. Anche con 60 anni di età e 40 di contributi si ha quota cento, ma questo lavoratore è escluso dai benefici di questa legge. Inoltre giovani, donne e lavoratori discontinui continuano ad avere gli effetti perversi della legge Fornero. Servirebbe dunque una vera abolizione, sarebbe necessaria una riforma che si preoccupasse di dare una pensione ai giovani e di modularla in base alle diversità lavorative. Per il reddito di cittadinanza apprezziamo l’intenzione di intervenire sulla povertà. Peccato che questa misura lo faccia in modo arzigogolato, contraddittorio e in alcuni casi controproducente. Inoltre mette assieme due aspetti che insieme non stanno. Lotta alla povertà e ricerca di lavoro, quasi che bastasse essere occupati per uscire dal circolo vizioso della povertà. Non è così. I lavori poveri sono diffusissimi. Pensi ai lavoratori delle pulizie quando va bene arrivano con difficoltà a 900 euro mensili. Basta poi avere un familiare a carico con problemi di salute, o essere monoreddito con una famiglia numerosa e si è già sotto la soglia di povertà. Per quanto riguarda l’autonomia differenziata dobbiamo essere estremamente chiari: non ci può essere autonomia senza solidarietà e senza garantire stessi diritti ai cittadini di tutte le Regioni, a partire da sanità, istruzione e formazione, lavoro e tutela dell’ambiente. L’Italia è un Paese dalle forti e insostenibili diseguaglianze nella fruizione dei servizi pubblici e nell’esigibilità dei diritti fondamentali, che si accentuano drammaticamente nelle Regioni del Mezzogiorno. Una situazione che non si può fronteggiare con l’attribuzione di maggiore autonomia ad alcuni territori, lasciandone indietro altri. Non si possono concedere più poteri e più risorse solo ad alcuni senza un quadro normativo comune e senza garantire la perequazione. Infine, non può essere messa in discussione l’unitarietà della contrattazione nazionale.
In Italia e in Europa sembra andata in crisi la visione della sinistra, perché a suo giudizio?
I fattori sono indubbiamente molti e non facilmente riassumibili nel breve spazio di una risposta. Mi concentrerei su due fattori: l’incapacità della sinistra europea e in parte americana di dare risposte all’insicurezza provocata dalla globalizzazione nelle popolazioni a economia maggiormente sviluppata e l’impressionante aumento delle diseguaglianze sia all’interno dei singoli Paesi, sia nel confronto con le altre economie, che con le multinazionali diventate ormai incontrollabili anche da parte di Stati forti e con solide basi economiche. Certo, ci sono moltissime altre cause – la fine delle ideologie, l’inadeguatezza del personale politico, l’abbandono dei territori, l’individualizzazione dei comportamenti, la rottura sentimentale con il popolo della sinistra, solo per citarne alcune –, ma le due che ho citato mi paiono quelle che con più forza hanno agito sul mondo del lavoro. Alla paura della disoccupazione dovuta alle delocalizzazioni o alla competizione sul costo del lavoro, la cosiddetta sinistra politica ha risposta abbracciando ancor di più modelli economici e sociali che precarizzavano il lavoro, tagliavano la spesa, creavano insicurezza nel futuro. Mi scusi la banalizzazione, ma da quando ero piccolo per me sinistra ha sempre significato futuro e stare dalla parte del lavoro e dei più deboli. Ebbene, oggi sinistra è per lo più intesa come passato. Merito certo del lavoro culturale – secondo me regressivo – compiuto dalla destra, ma senza dubbio anche colpa di una sinistra che ha abbracciato acriticamente il modello neo-liberista come unica strada possibile. Se davvero la sinistra vuole tornare ad avere un ruolo di emancipazione, deve partire da una critica feroce del suo recente passato, in Italia come in molti altri Paesi europei, ed assumere la libertà e la realizzazione delle persone nel lavoro qual asse strategico di trasformazione sociale. Avere cioè una visione del futuro che includa il miglioramento dei diritti e delle condizioni di lavoro con la sostenibilità ed il rispetto dell’ambiente.
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
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