Lo scrittore Tahar Lamri (dettaglio foto dal profilo Fb)

«I senegalesi dicono che se tu parli male di qualcuno è probabile che quel male sia nella persona di cui parli, ma è sicuro che è nella tua bocca». Raggiungiamo Tahar Lamri per parlare del linguaggio dell’odio che sempre più spesso invade i social e anche i media che amplificano le espressioni cosiddette “di pancia” usate dagli utenti.

Lamri, scrittore algerino naturalizzato italiano (I sessanta nomi dell’amore), è giornalista e autore anche per il teatro, nella sua Ravenna collabora con il Teatro delle Albe.

Razzismo, fascismo, islamofobia infarciscono il linguaggio contemporaneo sul web, in particolare sui social network. Il cosiddetto hate speech ha delle conseguenze psicologiche su chi ne è il destinatario, alcune volte sfocia anche in violenze fisiche o addirittura in omicidio, come nel caso di Emmanuel, il giovane rifugiato di Fermo. Quali sono le tue sensazioni sui tempi che stiamo attraversando?

Roland Barthes (linguista e semiologo francese, ndr) diceva che la parola è fascista: si può fare un’azione squadrista con la parola e inoltre il linguaggio dell’odio danneggia molto il parlante senza saperlo. Ovviamente chi insulta crede di difendersi, chi è violento crede di essere quello che ha il sopravvento ma in realtà delle volte è danneggiato di più di chi subisce l’insulto. E più noi siamo distanti dall’altro, nel senso psicologico, umano, più urliamo perché le parole dell’amore, della confidenza, sono sussurrate. Più si ama una persona, più si abbassa la voce, più uno è lontano umanamente e più è lontano da se stesso, più è barbaro. Anche se io non amo molto la parola “barbaro” perché è usata male, ne preferisco l’uso greco, cioè di chi balbetta, chi parla male il greco. Più uno è imbarbarito dentro, più usa un linguaggio offensivo. Oggi viviamo un imbarbarimento totale, dei costumi, delle parole, uno smarrimento perché non riusciamo a capire cosa siamo.

Il linguista e semiologo francese Roland Barthes

Il linguaggio è uno specchio.

Siamo nelle mani del nostro linguaggio che non sappiamo più controllare. Perché non sappiamo che futuro ci aspetta e le paure sono molte di più della serenità. Quel ragazzo italiano che dice alla donna di Emanuel “sei una scimmia” ovviamente ci colpisce e ci fa indignare. Però un anno prima l’onorevole Calderoli aveva detto “orango” alla ministra Kyenge. È stato detto che non era neanche un’offesa. I deputati, anche quelli del Pd, hanno detto che era solo una battuta. Quindi anche chi dovrebbe essere corretto per professione, perché rappresenta tutti, parla di un “noi” e un “voi”, animali ed esseri umani. La novità è che questa ondata di linguaggio offensivo sta prendendo piede in vari settori della società ed è soprattutto di tipo etnico, che ha a che fare con il colore della pelle, con il modo in cui ci si veste: il velo o il burqini come accade in Francia per esempio. Noi interiorizziamo tanta violenza senza neanche saperlo. Perché c’è la paura e, come dice un detto arabo, “la paura mangia l’anima”.

L’ex ministra Kyenge (Imagoeconomica, Davide Gentile)

Tu che racconti così bene il mondo arabo senti maggiormente il peso dell’islamofobia, il cosiddetto razzismo dell’Occidente?

Io qui non darei la colpa solo a una parte, solo a chi è islamofobo, ma la colpa è anche nostra, di noi musulmani. L’islamofobia è legata al colonialismo per certi Paesi, sicuramente per la Francia. Lo definirei un razzismo di terzo tipo perché è di tipo culturale.

I francesi guardavano dall’alto in basso gli algerini e tutti gli altri che hanno colonizzato, perché il colonizzato è sempre inferiore e questo ha le sue radici nell’illuminismo. Se ci sono stati dei razzisti sono stati proprio gli illuministi: non bisogna dimenticare che Voltaire era uno che guadagnava sulla tratta degli schiavi. Questo discorso del burqini per esempio fa inorridire gli americani che non riescono a capire cosa stia accadendo in Francia.

Tra poco ci saranno le elezioni politiche…

Non solo, ma è anche un fatto culturale: a un americano non interessa cosa indossi. Sono pragmatici, quello che li riguarda è il tuo rapporto con l’altro, il tuo senso civico. La Francia invece ogni volta che è in crisi di identità, perché non riesce a uscire da uno stato di nuovo colonialismo, si attacca a queste cose qui: c’è stata la legge contro il velo nel 2004, nel 1994 la storia del velo nelle scuole, è sempre così. La risposta più semplice è fare un discorso culturalista. Anziché rendere la cosa individuale, che riguarda per esempio un terrorista, quel terrorista, il suo vissuto ecc., diventa un discorso di tipo culturalista che semplifica molto le cose e fa nascere e crescere l’islamofobia che è un razzismo culturale. In Francia si capisce perché: c’è la legge del 1905 sulla laicità e quindi per loro la laicità è il fondamentalismo che è contro qualsiasi altro fondamentalismo. È uno scontro tra fondamentalismi.

(Imagoeconomica, Paolo Lo Debole)

E l’Italia?

L’Italia non è un Paese laico, però prende i discorsi degli altri e li tratta sempre in maniera strumentale. C’è la destra che soffia sul fuoco, la sinistra centrista che cerca di essere politicamente corretta e la sinistra, o le persone che si sentono di sinistra, che ovviamente sono inorriditi da questa cosa qui perché non la riconoscono. Un solo partito, la Lega nord, è legato al razzismo. All’inizio verso i meridionali, adesso verso gli immigrati. Sempre contro chi viene visto come concorrente: è cambiato il nemico ma il linguaggio è lo stesso. La cosa grave è che gli effetti di questa strumentalizzazione politica sono diventati devastanti.

Anche subito dopo il terremoto di Amatrice c’è stato chi ha trovato il tempo di fare polemiche sugli immigrati, sulle tende e sugli hotel.

Quando ci fu il terremoto a L’Aquila, le parole e le polemiche erano le stesse: le risate, il terremoto che fa alzare il Pil e molte altre cose sugli immigrati.

Qual è l’antidoto a tutto questo?

L’unica risposta che si può dare è la conoscenza. Però c’è un punto preciso da sottolineare: la responsabilità dei media in Italia su quello che succede è enorme. Non esiste un altro sistema così in Europa: alla tv ci sono sempre le stesse persone che cavalcano sempre le stesse onde e poi comunque per creare scontro ci mettono un antirazzista tra loro perché alza l’ascolto. Per esempio i minuti di tv che hanno concesso a Salvini solo nell’ultimo anno sono sproporzionati, eppure gli italiani non lo hanno votato. In tv non ci sono dibattiti seri che inducano le persone a ragionare, perché ciò non alza lo share e quindi non porta pubblicità. La conoscenza è l’unica via per non odiarsi, l’uomo ha sempre fatto così.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi