Dell’avvio di un processo di complessiva rimozione della legislazione antiebraica dall’ordinamento interno italiano si può parlare solo all’indomani dell’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, l’8 settembre 1943. Prima di quella data, durante i quarantacinque giorni successivi alla caduta di Mussolini, il governo Badoglio non assunse iniziative significative in tal senso, se si eccettua la rimozione con atto amministrativo di alcune misure discriminatorie, peraltro marginali (dal divieto di villeggiare in talune località, alla restituzione degli apparecchi radio a suo tempo sequestrati). Anche per quello che concerne gli apparati della persecuzione, il 27 luglio, fu arrestato il direttore generale di “Demorazza”, Antonio Le Pera, ma la direzione generale per la demografia e la razza presso il Ministero dell’interno non venne soppressa. L’insieme della legislazione razziale rimase sostanzialmente intatta; e rimasero in vigore alcune misure, destinate a produrre tragici effetti nei mesi successivi, come quelle relative alle registrazioni anagrafiche presso i commissariati, che, costantemente aggiornate, offrirono un contributo non indifferente al successo delle razzie naziste nell’Italia occupata e alle successive deportazioni.
D’altra parte, l’ambigua condotta del governo Badoglio nel periodo compreso tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, non poteva condurre a risultati diversi: la dichiarata prosecuzione della guerra a fianco della Germania nazista rendeva impraticabile un esplicito ripudio della legislazione antiebraica e la drastica rimozione dei suoi effetti; né si deve dimenticare che il nuovo capo del governo era stato tra i sottoscrittori del Manifesto della razza del luglio 1938. In questo frangente, anche la condotta del Vaticano mostrò quanto fossero ancora forti e influenti i pregiudizi antisemiti all’interno delle gerarchie cattoliche. Padre Tacchi Venturi, uno dei protagonisti delle trattative che avevano condotto alla stipula dei Patti lateranensi, anch’egli sottoscrittore del Manifesto della razza, nell’agosto del ’43, riferì al cardinale segretario di stato Luigi Maglione, di essersi incontrato con il ministro dell’interno Umberto Ricci e in tale circostanza, trattando del destino della legislazione antiebraica, di avere evitato di “accennare alla totale abrogazione di una legge la quale, secondo i principii e la tradizione della Chiesa cattolica ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”.
Considerata la posizione del governo italiano (la cui giurisdizione, peraltro, dopo la fuga del re e del governo da Roma, si limitava a un pugno di province della Puglia) e gli orientamenti della Chiesa, non desta sorpresa il fatto che il primo impulso alla cancellazione della legislazione razzista venisse non dall’interno, ma da una prescrizione degli Alleati, concretizzatasi in una clausola dell’”armistizio lungo” siglato a Malta il 29 settembre 1943, precisamente l’articolo 31, che così recitava: “Tutte le leggi italiane che implicano discriminazioni di razza, colore, fede od opinione politica saranno, se questo non sia già stato fatto, abrogate, e le persone detenute per tali ragioni saranno, secondo gli ordini delle Nazioni Unite, liberate e sciolte da qualsiasi impedimento legale a cui siano state sottomesse”.
Malgrado una indicazione così netta, il governo italiano intraprese con prudenza degna di miglior causa il lavoro di abrogazione delle leggi razziste. Ancora il 2 ottobre, un appunto degli uffici della Presidenza del Consiglio segnalava la difficoltà di procedere a un’abrogazione “pura e semplice” in considerazione della necessità di prevedere tutte le conseguenze patrimoniali della legislazione fascista e di tenere conto della posizione “dei terzi resisi nel frattempo proprietari dei beni degli ebrei”! L’equiparazione dei perseguitati e dei persecutori, degli espropriati e degli espropriatori restituisce chiaramente l’immagine di un’amministrazione ancora dominata da una mentalità reazionaria e razzista (anche nel linguaggio, laddove si continuava a parlare di “cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica”), e poco incline ad agire con decisione nel senso della totale reintegrazione delle vittime della persecuzione nei loro diritti civili, politici e patrimoniali.
Malgrado tali remore, le indicazioni degli Alleati non potevano restare disattese, e tra il 1944 e il 1947, furono adottate ben ventidue leggi finalizzate alla cancellazione della normativa razzista. Il primo provvedimento adottato dal governo Badoglio fu il regio decreto-legge 20 gennaio 1944, n. 25 “Disposizioni per la reintegrazione nei diritti civili e politici dei cittadini italiani e stranieri già dichiarati di razza ebraica o considerati di razza ebraica”, che nei suoi otto articoli disponeva l’abrogazione delle leggi razziste, la nullità dei provvedimenti di revoca della cittadinanza adottati in base ad esse, nonché l’inesistenza delle annotazioni di carattere razziale nei registri dello stato civile, la riammissione in servizio d’ufficio per i dipendenti dello Stato e degli enti locali licenziati per motivi razziali e la riammissione a domanda per i dipendenti di altre amministrazioni pubbliche, nonché l’estinzione dei processi penali in corso e la cancellazione delle condanne per violazione delle leggi razziali.
Venne invece sospesa la pubblicazione di un altro provvedimento, il regio decreto-legge n. 26, relativo alla reintegrazione dei diritti patrimoniali, per esplicita richiesta della Commissione alleata di controllo, “allo scopo – recitava un atto ufficiale del governo italiano – di evitare possibili rappresaglie dei tedeschi sugli ebrei viventi nei territori non ancora liberati”. Erano in effetti preoccupazioni comprensibili, considerati gli eventi di quei terribili mesi: il 16 ottobre 1943, la razzia degli ebrei di Roma; il 14 ottobre il manifesto di Verona del neonato partito fascista repubblicano aveva dichiarato gli ebrei “stranieri” e appartenenti a “nazionalità nemica” e il 30 novembre Buffarini Guidi, ministro dell’interno della repubblica sociale, ordinava l’internamento e il sequestro dei beni per tutti gli ebrei.
Con la liberazione di Roma e la formazione del governo Bonomi, il processo di eliminazione della legislazione razzista ebbe nuovo impulso: il 13 luglio 1944, il governatore militare alleato Charles Poletti aveva disposto la restituzione degli immobili sequestrati a persone perseguitate per motivi politici e razziali; il 12 agosto, il commodoro Stone, capo della Commissione alleata di controllo, con un evidente ripensamento delle precedenti posizioni, aveva segnalato a Bonomi l’esigenza di riprendere il percorso di rimozione degli effetti della legislazione razziale anche sul versante della restituzione patrimoniale; analoghe sollecitazioni giunsero all’Esecutivo dai partiti antifascisti, e in particolare dal Partito d’Azione che sulla problematica relativa alla legislazione risarcitoria e restitutoria aveva costituito nel suo seno una commissione di giuristi. Alla fine, il decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 252 dispose la pubblicazione, e la conseguente entrata in vigore, del decreto-legge n. 26: con tali disposizioni, all’Ente di gestione e liquidazione (Egeli), istituito dal regime per l’incameramento e la vendita dei beni appartenenti a cittadini di religione israelita, venne affidato il compito di gestire la restituzione di quegli stessi beni; furono agevolati gli atti di revoca delle donazioni, spesso utilizzate come scappatoie per sfuggire alle spoliazioni legali disposte dalle norme razziste e fu regolata la possibilità di rientrare in possesso di aziende o di quote societarie da parte di chi ne era stato coattivamente espropriato. Di particolare rilievo, la disposizione che prevedeva la possibilità di richiedere l’annullamento per tutti i casi di vendita o di donazione di beni immobili, per i quali vi fosse la prova incontestabile che il trasferimento di beni fosse stato effettuato dal proprietario per sottrarsi all’applicazione delle leggi razziste.
Altre norme seguirono, legate all’andamento delle vicende belliche: in particolare, il decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944, n. 249, “Assetto della legislazione nei territori liberati”, dichiarava privi di efficacia giuridica gli atti normativi, amministrativi e giurisdizionali adottati “sotto l’impero del sedicente governo della repubblica sociale italiana”, ivi compresi “le confische e i sequestri disposti da qualsiasi organo amministrativo o politico”. Sempre con riferimento alla situazione determinatasi nell’Italia occupata, il successivo decreto legislativo luogotenenziale 5 maggio 1946, n. 393, consentiva ai proprietari di beni sequestrati, confiscati o comunque sottratti in applicazione della legislazione razziale da parte del governo della repubblica sociale, di rivendicarli da chiunque ne fosse in possesso o ne avesse la detenzione.
Non sempre, peraltro, la legislazione fu in sintonia con le esigenze e la sensibilità dei perseguitati; in particolare, aveva suscitato una vera e propria ondata di indignazione, sia da parte di singoli cittadini sia anche da parte dell’Unione delle comunità ebraiche, la disposizione dell’articolo 8 del citato decreto legislativo luogotenenziale n. 393, che aveva posto a carico dei proprietari dei beni sequestrati o confiscati per motivi razziali nel periodo della repubblica di Salò, le spese di gestione dei beni stessi, sostenuti dall’Egeli o da altri Istituti.
Un’altra questione controversa riguardava il problema della destinazione dell’eredità dei cittadini deceduti in conseguenza di atti di violenza compiuti dai fascisti e dai tedeschi, senza lasciare beni successibili. L’Unione delle comunità ebraiche chiedeva che tali beni le fossero assegnati – in deroga alle disposizione del codice civile che stabilivano, in caso di assenza di eredi, la devoluzione allo Stato – per finalizzarli ai compiti si assistenza, che si rivelavano particolarmente impegnativi, considerata la gravità e l’estensione della persecuzione razziale nelle zone occupate, durante il biennio 1943-45. In caso contrario, argomentava l’Unione, lo Stato si sarebbe ingiustamente arricchito per effetto delle azioni delittuose compiute dai nazifascisti. La questione si trascinò per molto tempo, a causa soprattutto delle resistenze burocratiche e politiche nei confronti dell’ipotesi di deroga alla normativa civile, resistenza che, insieme ad altre circostanze, non mancò di suscitare l’amara reazione delle vittime, documentate in una lettera inviata al presidente del Consiglio Parri dal commissario dell’Unione delle comunità, G. Nathan, nella quale si lamentavano le incertezze e le esitazioni con cui stava procedendo la reintegrazione degli ebrei nella vita pubblica. Solo dopo il referendum del 2 giugno 1946 e l’inizio dei lavori della Costituente, nel nuovo clima politico che si era delineato, la richiesta dell’Unione delle comunità ebraiche trovò finalmente accoglimento con l’emanazione del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 11 maggio 1947, n. 364, “Successione delle persone decedute per atti di persecuzione razziale senza lasciare eredi successibili”.
Nel dopoguerra, con l’entrata in vigore della Costituzione e in particolare dell’articolo 3, nella parte in cui si sancisce la pari dignità sociale e l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” il processo di reintegrazione dei cittadini di religione israelitica nei loro diritti usurpati compiva un ulteriore e importante passo in avanti; al tempo stesso, però, la grave situazione sociale ed economica in cui versava il Paese faceva sì che alle questioni derivanti dall’abrogazione derivante della legislazione razzista, si aggiungessero quelle relative ai perseguitati politici, ai reduci, e, più in generale alle popolazioni ridotte allo stremo. Il malessere diffuso nella società italiana del dopoguerra si traduceva in una somma di rivendicazioni e di richieste rispetto alle quali risultava difficile, per il governo, stabilire un ordine di priorità che assicurasse tempestività ed efficacia degli interventi.
Come ricorda Mario Toscano in una importante ricerca pubblicata dal Senato della Repubblica nel 1988 (L’abrogazione delle leggi razziali in Italia (1943-1987)): “Dalla fine del 1947, l’attività legislativa volta a sanare le conseguenze arrecate dall’applicazione delle leggi razziali si attenuava, fin quasi ad annullarsi, per circa sette anni; mentre le conseguenze delle ferite provocate dalle persecuzioni continuavano a farsi sentire pesantemente, emergevano resistenze nell’applicazioni delle leggi”. Combinate con le difficoltà oggettive dell’opera di ricostruzione, queste resistenze, attive soprattutto in ambito burocratico e in seno alla magistratura, furono alimentate anche del mutato clima politico successivo alla rottura dell’unità antifascista e alle elezioni del 18 aprile 1948, e si palesarono nella mancata o parziale applicazione delle leggi in sede amministrativa, e in sentenze restrittive della magistratura, testimonianze della sostanziale paralisi dei processi di rinnovamento delle istituzioni e di defascistizzazione degli apparati, in contesti profondamente condizionati dalla divisione bipolare del mondo, che proiettava le sue conseguenze su ogni aspetto della vita associata dei singoli Paesi.
Occorre dunque attendere il periodo che verrà definito di “disgelo costituzionale”, per vedere realizzarsi altre aspirazioni delle vittime delle persecuzioni razziali, rimaste insoddisfatte per alcuni anni: in particolare, la legge 10 marzo 1955, n. 96 estendeva ai perseguitati per motivi razziali le provvidenze già stabilite in favore dei perseguitati politici, secondo un auspicio più volte espresso dalle comunità ebraiche. Nel corso degli anni successivi, numerose disposizioni avrebbero dato attuazione specifica a tale principio; meritano di essere ricordate, come segno positivo di una capacità del legislatore di cogliere la maturazione della coscienza civile in senso democratico e antifascista, la legge 8 luglio 1972, n. 541, che estendeva agli ex deportati e agli ex perseguitati politici e razziali i benefici già disposti dalla legge 24 maggio 1970, n. 336, a favore dei dipendenti pubblici ex combattenti, e la successiva legge 18 gennaio 1978, n. 17, nella quale si chiarisce che “la qualifica di ex perseguitato razziale compete anche ai cittadini italiani di origine ebraica che, per effetto di legge oppure in base a norme o provvedimenti amministrativi anche della repubblica sociale italiana intesi ad attuare discriminazioni razziali, abbiano riportato pregiudizio fisico o economico o morale”, aggiungendo che il pregiudizio morale è comprovato anche dalla avvenuta annotazione di “razza ebraica” sui certificati anagrafici.
Nell’aprile 2001, a conclusione dei propri lavori, la “Commissione per la ricostruzione delle vicende che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati” istituita nel 1998 presso la Presidenza del Consiglio e presieduta da Tina Anselmi, formulava un giudizio molto prudente sugli esiti del lavoro normativo svolto dal 1944 in avanti che, sia pure limitato ai profili patrimoniali, ne coglieva però implicitamente anche gli aspetti più generali: “La legislazione restitutoria, riparatoria e risarcitoria dell’immediato dopoguerra – scriveva la Commissione – fu sufficientemente tempestiva, ma non esente da gravi limiti […]”. E aggiungeva: “Nonostante le richiamate difficoltà; nonostante le accertate lungaggini; nonostante le interpretazioni spesso restrittive delle norme giuridiche da parte degli organi consultivi; nonostante gli inevitabili contenziosi nei casi in cui i beni immobili erano stati alienati, si ha motivo di ritenere che l’opera di restituzione dei beni a favore di beneficiari non scomparsi in deportazione fu quasi sempre completa per gli ex perseguitati che si attivarono in tal senso e limitatamente ai beni che non andarono razziati, dispersi o distrutti”.
Nel complesso, è innegabile che il processo di abrogazione delle leggi razziali fu profondamente condizionato dall’andamento del quadro politico, dal 25 luglio 1943 alle prime legislature repubblicane, e ne rispecchiò le contraddizioni, i conflitti e le tensioni. Da questo punto di vista, le esitazioni, i ritardi, la mancata o parziale applicazione delle norme succedutesi nel tempo, gli orientamenti restrittivi espressi in alcune sentenze, sono tutti eventi che rinviano alla realtà di apparati amministrativi e giudiziari ancora permeati dello spirito retrivo maturato nel ventennio della dittatura e corroborato dal persistente divario tra Stato e Costituzione quale si manifestò nei primi anni della storia repubblicana, alimentando anche forme di oblio e di rimozione delle quali subirono le negative conseguenze le vittime della dittatura e chi ad essa si oppose.
Pubblicato martedì 24 Aprile 2018
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