Prima di tutto i fatti: nella puntata di Agorà, programma di RaiTre, del 17 novembre scorso, Bruno Vespa, storico giornalista – nel senso che è in Rai dal 1962, non che abbia studi storici alle spalle – presenta il suo ultimo libro dal titolo “Perché l’Italia amò Mussolini”.
Nello spiegare il contenuto del suo testo, Vespa afferma che Mussolini «ha avuto un consenso enorme e lo ha avuto anche in Italia per le sue opere sociali, parliamoci chiaro. Mussolini ha fatto la settimana di quaranta ore: chi lo sa tra gli italiani che la prima settimana di quaranta ore l’ha fatta Mussolini? Non lo sa nessuno. L’Inps l’ha inventato Mussolini: quanti lo sanno? I contratti nazionali, anche quello giornalistico – i giornalisti erano pagati benissimo – c’erano tutti gli intellettuali antifascisti che stavano a libro paga del regime. Era un sistema complesso».
Frasi che hanno fatto discutere. Si deve notare come, dopo lo scoppio del putiferio, in molti, anche provenienti da ambienti insospettabili, si sono prodigati a difendere Vespa in base alla prima, lapidaria frase: Mussolini ha avuto un consenso enorme. Qualcuno ha addirittura rispolverato la vecchia polemica antidefeliciana sul consenso al regime, tentando di dare profondità storiografica a quella che francamente appare più una sparata da bar. In realtà, con buona pace dei difensori di “spezzoni” del discorso vespiano, non è su questo che si è innestata la polemica.
Il punto non è che Vespa parli di consenso al fascismo, ma che lo faccia sostanziando questa affermazione con distorsioni dei fatti storici e con delle vere e proprie bufale. Se analizziamo le parole di Vespa possiamo trovare tre diversi tipi di argomenti che vanno letti separatamente per meglio capire l’entità del messaggio dato da un giornalista della Tv pubblica sulla Tv pubblica.
In sostanza Vespa fa: un’affermazione storicamente corretta ma mal contestualizzata; delle affermazioni storicamente false; delle affermazioni di ambito storico discutibili in quanto capziose.
L’affermazione storicamente corretta, anche se un po’ iperbolica, è «Mussolini ha avuto un consenso enorme»: affermazione che può essere definita realistica, dal punto di vista storico, in quanto almeno per una parte del ventennio una maggioranza silenziosa nel Paese non si è opposta alle politiche mussoliniane e non ha apertamente osteggiato le varie avventure, per lo più fallimentari, del regime.
Se questo silenzio si possa tradurre in automatico assenso è lungi dall’essere dimostrato però, e l’affermazione non specifica un punto fondamentale per non cadere in anacronismi: che cosa significa far parte di una società dominata da un regime totalitario? Quanti e quali spazi di dissenso possono essere aperti?
Non specificare che questo consenso per lo più muto fu ottenuto con una estesissima rete di polizia interna, con la repressione violenta del dissenso, con il controllo rigido della stampa nazionale e la censura di quella internazionale, con un regime di controllo così pervasivo e occhiuto da penetrare perfino nella vita intima dei sudditi bombardandoli con una propaganda monolitica fin da bambini, ecc., non specificare insomma cosa tutto ciò che distanzia l’esperienza degli italiani degli anni Trenta da quella degli italiani di oggi, significa contestualizzare male un’affermazione che storiograficamente avrebbe delle basi corrette. Per dirla con una battuta trovata sul web, tutt’altro che ingenua: “ma se aveva tutto questo consenso perché non faceva votare la gente?”.
Le affermazioni storicamente false sono invece quelle che accompagnano il primo argomento per sostanziarlo, vale a dire la settimana di quaranta ore per i lavoratori e il fatto che il duce abbia inventato l’Inps, cioè, interpretando, abbia creato la previdenza in Italia.
La normativa che prevede un tetto massimo di lavoro settimanale di quaranta ore in Italia viene approvata solo con la legge 196 del 1997, il cosiddetto “Pacchetto Treu”.
Probabilmente però Vespa non intende la settimana di 40 ore, ma la giornata lavorativa di 8 ore. Ebbene, anche se così fosse, le 8 ore giornaliere, per un massimo di 48 ore settimanali, sono una conquista del sindacato italiano degli operai metallurgici (Fiom) nelle contrattazioni con gli industriali del settore del febbraio del 1919.
Diritto che viene poi esteso su pressione dei sindacati col Regio decreto 692 del 1923 dal governo Mussolini alle altre categorie di lavoratori. Quello che effettivamente fa, motu proprio, il regime di Mussolini, è abolire i sindacati e quindi la possibilità di una reale rappresentanza degli interessi dei lavoratori (legge Rocco, nr. 563 del 1926).
Per quanto riguarda l’Inps, l’istituto che nasce per volontà di Mussolini nel 1933 (Regio Decreto 371-1933) sotto il nome di Infps – Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale – non segna, come la frase potrebbe suggerire, la nascita del sistema previdenziale italiano. L’affermazione di Vespa non è corretta in quanto il duce non “inventa” alcunché, ma accorpa il sistema delle varie casse previdenziali di categoria presenti in Italia e ne centralizza la gestione, rendendola, peraltro, inefficiente.
Per amor di cronaca il sistema previdenziale in Italia nasce con la fondazione nel 1898 della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai.
Le affermazioni storicamente pronunciate in modo capzioso sono infine quelle riguardanti i contratti nazionali di lavoro, sui giornalisti pagati benissimo e sugli intellettuali antifascisti a libro paga del regime.
I contratti nazionali siglati dal fascismo sono frutto del controllo totale del regime sul mondo del lavoro italiano: senza sindacati liberi a dirigere le trattative, senza diritto di sciopero e di serrata, con la struttura produttiva e gli industriali in rapporti più che cordiali col regime, parlare di contratti nazionali come quelli che oggi vengono siglati in stato di contrattazione sindacale sembra quanto meno fuorviante.
Che i giornalisti fossero pagati benissimo è un’affermazione che dovrebbe essere messa a paragone con dati oggettivi: probabilmente rispetto alle situazioni di drammatico precariato del giornalismo odierno – non nel caso di Vespa – è vero, ma va ricordato che l’ordine dei giornalisti, pur ipotizzato nel periodo fascista, fu sostituito da un albo professionale vincolato ai contratti di lavoro e al sindacato unico oltre che al partito unico. Non era affatto, come si stabilì invece negli anni 60, un organismo autogovernato nel rispetto di regole deontologiche e non strettamente legato alle assunzioni (nonostante oggi andrebbe adeguato ai tempi).
Infine l’affermazione sugli intellettuali antifascisti a libro paga scivola nell’inquietante, perché sembra quasi che Vespa intenda dire che il fascismo non solo ha guidato il regime, ma anche i suoi oppositori. Non essendo chiara la natura di questa affermazione si può provare a interpretare: ci si riferisce alle spie fasciste infiltrate nelle reti antifasciste? Allora non si tratta di veri antifascisti ma, appunto di spie infiltrate. Ci si riferisce a chi ha a che fare con la macchina fascista negli anni della dittatura ma poi prende le armi per combattere nella guerra di Liberazione? È una condizione che accomuna più d’uno, vista la pervasività del regime e dei suoi venti anni di dominio: difficile pensare a situazioni di totale purezza e distacco dalle strutture del regime in uno stato totalitario, se non attraverso l’esilio. Ma migliaia di insegnanti, militari, funzionari pubblici che dopo l’8 settembre prendono le armi contro la dittatura fascista non meritano di essere definiti “prezzolati” dal regime solo perché regime e stato sono, nella volontà del duce, la stessa cosa.
Con quel “tutti gli intellettuali antifascisti” non si può infine non pensare con tristezza che nel novero di questa definizione infamante cadano anche Antonio Gramsci, Piero Gobetti, Carlo e Nello Rosselli, Filippo Turati, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Errico Malatesta e, perfino, Giacomo Matteotti. Tutti intellettuali. Tutti antifascisti. Tutti immeritevoli di tale insinuazione.
Analizzato velocemente il contenuto di queste frasi, che volendo potrebbero essere derubricate come una brutta pagina di servizio pubblico, le questioni davvero interessanti della discussione attorno a questo pezzo di Tv italiana rimangono sostanzialmente due: Che cosa porta un giornalista della TV pubblica a fare questo tipo di affermazioni in diretta in un programma televisivo Rai in orario di ascolti elevati? E, soprattutto, è lecito che questo accada?
Sulla prima domanda si possono oggettivamente fare solo delle ipotesi: una così decisa e strutturata rivalutazione della dittatura mussoliniana in Tv potrebbe essere utile per aprire uno spiraglio ad un certo tipo di mercato librario a cui l’autore – del libro e delle frasi incriminate – probabilmente vorrà rivolgersi. Insomma è probabile che Bruno Vespa speri di attirare un pubblico preciso di lettori, quello formato da chi crede realmente che il fascismo vada rivalutato.
Se così è, se cioè esiste una fetta di mercato dei lettori di libri in Italia che ama ascoltare, e in prospettiva leggere, dell’amore degli italiani per il duce, allora qualche domanda chi si occupa di memoria pubblica in questo Paese, a partire da chi scrive, se la deve porre. Su tutte: cosa è andato storto?
In quale momento della propria storia, questo Paese, con la costruzione del proprio contesto valoriale basato sulla memoria di un passato che ha molto da insegnare in termini di difesa – e perdita – della libertà, è passato dall’essere fondato sulla Costituzione nata dalla Resistenza all’essere il Paese in cui qualsiasi cosa di positivo si dica sul fascismo, anche le peggio castronate, viene preso per vero e difeso?
La risposta non è delle più confortanti. Da tempo la discussione attorno al fascismo e alla sua pesante eredità è scivolata dal piano storiografico a quello dello scontro politico quotidiano, con manipolazioni e semplificazioni che hanno portato a risultati paradossali, come quello dei processi postumi al percorso resistenziale del paese o alla demolizione di momenti chiave della memoria pubblica italiana: dai “ragazzi di Salò” alle polemiche pelose sul 25 aprile “festa divisiva”, è stato raccontato tutto il possibile per mettere in buona luce una delle fasi più tristi della storia del Novecento. E soprattutto è stata raccontata ovunque: in Parlamento, nei libri, sui mezzi di informazione, in Tv.
E qui veniamo alla seconda questione: è ammissibile che questa deriva oggi sia sostenuta anche utilizzando un mezzo di servizio pubblico come la televisione di Stato? Quella Rai che dal 1954 ha tra le sue missioni quella di prestarsi ad essere ente pedagogico dell’Italia ed espressione del suo possibile apparato valoriale? L’ente di informazione e formazione pubblica di un Paese nato dalle macerie della guerra fascista e che si è dato una Costituzione che porta scritti nero su bianco i valori della Resistenza?
È corretto che venga utilizzato il mezzo pubblico per propagare la riabilitazione, peraltro storicamente falsata, del regime più sanguinoso della storia del Paese? Pare di sì, dato che a ben vedere non sono scattati né pare siano previsti meccanismi di controllo che non si pretende puniscano, ma almeno correggano delle affermazioni errate e fuorvianti sulla storia del Novecento italiano. Affermazioni fatte, in ultimo ma non per ultimo, da uno dei simboli viventi della Rai, uno dei giornalisti più visibili, potenti e di conseguenza più pagati – con soldi pubblici – del Paese. Un giornalista che promuove un libro edito dalla stessa Rai attraverso Rai libri, in collaborazione con Mondadori.
Non si tratta di censurare in qualsivoglia modo determinate affermazioni ma di prendere, pubblicamente e serenamente, distanza da esse, partendo dal conforto del dato storico e riaffermando, con l’occasione, la centralità dei valori democratici che fondano la convivenza civile di questo Paese. Non si chiede di epurare figure che in quell’azienda sono incastonate da cinquanta (cinquanta!) anni, ma di avere, come servizio pubblico, la volontà di smentire, con chiarezza, le parole di chi va in giro affermando che il fascismo è stato una cosa bella. Perché alla fine è questo che è in gioco, in Tv ma anche nella vita vera: il fatto che si possa pensare che questo Paese, che ha sofferto tra i primi in Europa gli orrori del totalitarismo, possa oggi ripensare a quell’epoca di sopraffazione e dolore con un misto di nostalgia e rimpianto. Non lo merita la nostra storia, non lo merita il nostro presente.
Francesco Filippi, storico, autore, formatore, redattore del sito di storia e dibattito memoriale www.lastoriatutta.org
Il suo ultimo libro è Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (Bollati Boringhieri 2020) ed è autore del caso editoriale Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (Bollati Boringhieri 2019), per oltre un anno ai vertici delle classifiche di vendita
Pubblicato giovedì 19 Novembre 2020
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/come-ti-riabilito-il-duce-in-diretta-tv/