Varsavia 1944

La mattina del 2 ottobre di ottanta anni fa aveva termine, dopo un’estenuante battaglia di 63 giorni, la rivolta di Varsavia, iniziata il 1° agosto 1944. L’atto di capitolazione degli insorti venne firmato dal colonnello Iranek-Osmecki e dal tenente colonnello Dobrowolski dell’Armia Krajowa – l’esercito clandestino che si riconosceva nel governo polacco in esilio a Londra – al cospetto dell’Obergruppenführer SS (l’equivalente di un generale d’armata), Erich von dem Bach-Zelewski, responsabile fra l’altro della liquidazione fisica di almeno 200.000 persone in quanto capo supremo delle attività antipartigiane in Bielorussia e in Polonia orientale.

Insorti

L’insurrezione fu pagata con la vita da 15.200 combattenti polacchi, che ebbero pure 22-25.000 feriti. Tra i civili un’ecatombe: le perdite oscillerebbero, infatti, fra le 200 e le 250.000, mentre altri 55.000 varsaviani vennero deportati in campi di concentramento (13.000 ad Auschwitz) e ben 700.000 furono costretti ad evacuare [1]. Ridotta ormai a un cumulo di macerie, Varsavia appariva una città spettrale, segnata dalla morte, dalla devastazione, dal silenzio, come ci ha mostrato magistralmente il regista Roman Polanski ne Il pianista (2002), come certifica sinistramente la documentazione (foto e filmati) prodotta dagli operatori della Wehrmacht. Immagini che ci vengono restituite dagli abissi della contemporaneità, a cui tendono sempre più ad avvicinarsi quelle che da molti mesi ci arrivano quotidianamente dall’Ucraina, da Gaza e, ora, dal Libano.

Pausa in un momento della rivolta

Mentre sul fronte orientale si concludeva, nell’estate del 1944, l’Operazione Bagration, con la poderosa avanzata delle forze sovietiche, e su quello occidentale veniva liberata Parigi, a Varsavia fu scritta la pagina finale di un tragico capitolo apertosi con lo scoppio del secondo conflitto mondiale. Nel settembre 1939 la grande città sulla Vistola – capitale di un Paese che aveva riacquisito la propria indipendenza solo all’indomani della Grande guerra – venne investita dalla travolgente offensiva della Germania nazista, che giunse a spartirsi la Polonia con l’Urss in base al «protocollo segreto» del patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939.

Nonostante il coraggio e il valore dei suoi soldati, l’esercito polacco, numericamente inferiore e con un armamento largamente inadeguato, non resse all’urto della Wehrmacht, l’esercito europeo più potente, moderno ed efficiente di quell’epoca, che applicò proprio allora la strategia della guerra-lampo (Blitzkrieg), basata sull’inedita, micidiale combinazione di aerei e carri armati. Sotto i colpi dell’aviazione, ma anche dell’artiglieria tedesca morirono migliaia di abitanti di Varsavia, quella che sino a qualche tempo prima era stata una sfavillante «città-sonnambula» dell’Europa orientale. Durante le tre settimane d’assedio, quando il 12% degli edifici venne abbattuto, 15.000 varsaviani furono uccisi, 50.000 feriti, mentre tra i militari i caduti furono circa 6.000 e 16.000 i feriti. Numeri elevati, ma nulla di paragonabile a quanto accadde nel 1944.

Con la cruenta conquista della Polonia il nazismo avviò la creazione ad Est del Lebensraum, dello «spazio vitale» per l’Herrenvolk, la «razza dei signori» chiamata a edificare un impero su basi razzistiche [2]. I vertici del regime hitleriano decisero che il Paese, piegato con una fulminea campagna militare, fosse diviso in due parti, di cui una incorporata al Terzo Reich e l’altra, denominata Governatorato Generale, da utilizzarsi come riserva per i polacchi allontanati dalla loro terra e come zona di segregazione per gli ebrei. Immediatamente gli invasori, mossi da un inveterato odio antislavo, mirarono a cancellare ogni traccia della cultura polacca, chiudendo tutte le scuole, tranne quelle elementari, modificando – azione dal valore altamente simbolico – la toponomastica, sostituendo i nomi polacchi delle vie e delle piazze con denominazioni tedesche.

Nel loro complesso, i polacchi furono oggetto di una capillare persecuzione e di un durissimo sfruttamento, funzionali al disegno di far posto sul loro territorio ai nuovi coloni tedeschi, che avrebbero dovuto essere i protagonisti di un gigantesco processo di germanizzazione dell’Europa orientale. Nel corso della guerra moltissimi “gentili”, cioè polacchi di origine non ebraica, vennero falcidiati dagli stenti e dall’eccessivo lavoro negli oltre 2.000 campi di concentramento sorti nelle zone rurali della Polonia.

Jan Matejko, “Cristianizzazione della Polonia”

Già il 19 settembre 1939 Reinhard Heydrich, numero due delle SS e capo della Polizia di sicurezza, e il generale dell’Alto Comando Eduard Wagner stabilirono che occorreva «spazzare via, una volta per tutte, dalla Polonia […] gli ebrei, l’intellighenzia, il clero e la nobiltà» [3]. I nazisti erano consapevoli che per sottomettere il popolo e la cultura, in un Paese profondamente cattolico come la Polonia, era necessario sradicare e sopprimere intellettuali ed ecclesiastici, su cui si abbatté una spietata repressione. Il Vaticano fece ben poco per proteggere i suoi fedeli. Nel tentativo di non aggravarne la condizione, la Santa Sede assunse un atteggiamento prudente, affidandosi unicamente agli strumenti della carità e della diplomazia [4].

Jedwabne, monumento al pogrom

Durante l’occupazione germanica – val la pena ricordarlo – l’antisemitismo, che aveva robuste radici in tutta l’Europa orientale, riaffiorò violentemente, come nel caso della mattanza consumatasi il 10 luglio 1941 a Jedwabne. In questo piccolo centro polacco una folla di cattolici, sotto lo sguardo compiaciuto dei soldati tedeschi, uccise – a colpi di asce, bastoni e coltelli – la maggior parte dei loro vicini di casa ebrei (1.600 persone), sospettati di aver collaborato con i precedenti invasori sovietici e perciò meritevoli di essere puniti per aver commesso una «infamia di razza» [5]. Va altresì rammentato come l’identificazione di ebrei e comunisti fosse un pregiudizio alimentato dalla stampa francescana, in particolare dal «Maly dziennik», il maggior quotidiano polacco.

La ritirata tedesca

Quando le divisioni corazzate con la croce uncinata si impantanarono negli immensi spazi della Russia sovietica e furono obbligate a battere in ritirata, le autorità naziste allentarono un po’ la morsa sui polacchi per impiegarli come serbatoio di forza-lavoro e di uomini da inviare al fronte. Non fu così per gli ebrei, che continuarono a essere sterminati nelle «fabbriche della morte», tra cui Auschwitz-Birkenau, e a patire indicibili sofferenze nei ghetti, il più affollato dei quali era quello di Varsavia, dove in un’area ristrettissima di 3,4 km² vennero ammassate dall’ottobre 1940 circa 400.000 persone. Assottigliati dalle deportazioni, decimati dal tifo petecchiale, dal freddo e dalla fame (la razione giornaliera prevedeva 184 calorie), gli ebrei del ghetto di Varsavia si batterono, armi in pugno, tra il 19 aprile e il 16 maggio del 1943. 13.000 persero la vita in quei giorni: 7.000 vittime di esecuzioni sommarie, più di 6.000 morti negli incendi o tra le macerie di case e palazzi distrutti. A costoro vanno aggiunti 6.929 “combattenti” catturati, che furono trasportati ed eliminati nel centro di sterminio di Treblinka. I 42.000 superstiti vennero inviati in vari lager a espiare la colpa per essersi ribellati, mentre il ghetto di Varsavia fu interamente raso al suolo dalla furia vendicativa dei nazisti.

Se in Italia, tra agosto e settembre del 1944, reparti delle SS e della Wehrmacht seminarono morte e terrore fra i civili in Toscana e in Emilia (ma Firenze riusciva a liberarsi da sola), a Varsavia il movimento clandestino di resistenza, d’ispirazione nazionalista e molto attivo sin dall’inizio dell’occupazione germanica, diede il via il 1° agosto a un’insurrezione con finalità antitedesche, ma anche nel tentativo di anticipare l’arrivo dell’Armata Rossa, che invece – ed è una ferita ancora sanguinante – rimase in attesa degli eventi sull’altra sponda della Vistola.

2 ottobre 1944, dopo sessantatre giorni di rivolta, la capitolazione

Rievocando a distanza di oltre vent’anni quel tragico momento storico, così ha scritto Miron Bialoszewski, uno dei grandi poeti polacchi del Novecento: «La mattina fin dall’inizio: sole, caldo, fumi, aerei, bombardamenti, incendi. Lo ricordo ogni giorno. Se qualcuno volesse immaginarsi le tre distruzioni di Varsavia, settembre 1939, l’insurrezione del ghetto dal 19 aprile al 20 maggio suppergiù, e l’insurrezione di Varsavia del 1944, tenga presente che avvennero tutte sotto questi soli, questa calura, questi incendi, questi aerei […]» [6].

Nella rivolta combatterono anche i boyscout

Come ha osservato Paolo Colombo, la rivolta si rivelò un catastrofico errore politico e militare [7], eppure si ribellarono per farla finita con lo stillicidio di crudeltà e violenze perpetrate dai tedeschi che, pur impegnati a contenere l’avanzata degli eserciti nemici, concentrarono in quel frangente uomini e mezzi per schiacciare nel sangue gli insorti e distruggere quanto restava di Varsavia.

Le truppe polacche della 1ª Armata nelle rovine di Varsavia

Al termine del secondo conflitto mondiale su 1.300.000 erano morti 800.000 varsaviani, cioè 2 abitanti su tre. Oltre a questa agghiacciante cifra, va registrata la distruzione dell’87% degli edifici, del 90% del patrimonio artistico e spirituale della «Parigi dell’Est», nell’intento da parte del nazismo di cancellare la storia intera di Varsavia. Già il 15 marzo del 1940 Heinrich Himmler, l’architetto della Shoah, aveva annunciato il macabro, terribile obiettivo che il Terzo Reich si riprometteva di conseguire: «La capitale, la testa, il cervello di questo antico popolo che da settecento anni ci blocca all’Est e ci sbarra il cammino sarà distrutta: il ricordo di questa città deve scomparire insieme a quello di tutta la Polonia» [8]. Per fortuna, la forza della memoria è riuscita a riemergere dalle macerie, in cui i carnefici nazisti volevano seppellirla.

Francesco Soverina, storico


Note

[1] Si tenga presente di N. Davies, La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2004.
[2] Cfr. E. Collotti, L’Europa nazista. Il progetto di un nuovo ordine europeo (1939-1945), Giunti, Firenze 2002, in particolare pp. 113-187.
[3] Diario di Halder, citato da R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, vol. I, Einaudi, Torino 1995, p. 195.
[4] Cfr. M. Phayer, La Chiesa cattolica e l’Olocausto. L’evoluzione del pensiero ecclesiastico dall’ascesa di Adolf Hitler alla condanna ufficiale dell’antisemitismo nel 1965, Newton & Compton, Roma 2001.
[5] A far luce su questo macabro episodio, a lungo completamente rimosso, è stato lo storico polacco Jan T. Gros, in I carnefici della porta accanto, Mondadori, Milano 2002.
[6] M. Bialoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia, Adelphi, Milano 2021, p. 111.
[7] P. Colombo, Varsavia 1944, Gruppo24ore, Milano 2022, p. 59.
[8] Citato da P. Colombo, Varsavia 1944, cit., p. 71.