Finalmente la Lega, affrancata dalla sudditanza (anche economica?) da Forza Italia e in competizione (ma non troppo) con il partito della premier Meloni, ritiene di avere trovato il momento politico favorevole e la situazione istituzionale più idonea per coronare il suo antico sogno secessionista, declinandolo tuttavia non già come una secessione del nord Italia dal centro e dal sud, bensì come una secessione delle Regioni più ricche e economicamente autosufficienti da quelle più problematiche e meno dotate di un tessuto produttivo-competitivo e inserito nel mercato internazionale.
Tale secessione di tutti da tutti (ben oltre 20 materie legislative e circa 500 funzioni amministrative potrebbero essere trasferite alle singole Regioni) darebbe modo, a ceti politici subalterni ai potentati economico-finanziari, di gestire le amministrazioni locali e i servizi pubblici sempre più secondo le volontà e gli interessi dell’economia (quella imprenditoriale) e della finanza – ormai padrona di tale sistema economico – e sempre meno con le finalità, dettate dagli articoli 2 e 3 della Costituzione della Repubblica, di promozione sociale e di perequazione nei confronti della gran parte dei cittadini, come da principale compito della Repubblica Italiana. Infatti ciascuna Regione avrebbe il potere, a seconda del proprio orientamento politico, di svolgere la propria attività in un senso o nell’altro, coinvolgendo però settori cruciali, e che per loro natura dovrebbero essere governati dallo Stato, come l’istruzione, la sanità, i trasporti, l’ambiente, solo per citarne alcuni.
Così avremo un’Italia a svariate velocità, sensibilità, tendenze all’efficienza, per non parlare delle diverse sensibilità nella fondamentale materia della transizione ecologica e della tutela ambientale. Ma sarà solo quello (e non sarà poco) l’effetto dell’autonomia differenziata regionale? Temiamo di no. Infatti, a questo punto, per tenere insieme una ben più complessa articolazione dell’organizzazione dello Stato, diverrà del tutto necessaria una maggiore forza cogente dello Stato centrale che si dovrà imperniare su una maggiore capacità coercitiva del potere esecutivo, che verrà imposta in nome della “stabilità politica” ma che si tradurrà, in pratica, in uno strapotere del Governo che riecheggia un fosco passato. Infatti, una volta che le Regioni diventassero una sorta di statarelli autogovernati, si porrà il problema o di cambiare addirittura la natura dello Stato, da unitario a federale o confederale, oppure di dare luogo a un sistema di superpotere politico anche per renderlo capace di imporsi sulle diverse Regioni, che già da oggi hanno la tentazione di procedere in ordine sparso.
E allora, quale soluzione migliore di uno Stato presidenziale, con elezione diretta del Presidente della Repubblica e con un Esecutivo dallo stesso condotto, sulla base di un’investitura politica popolare?
In tale modo il Presidente, che certamente vanterebbe il sostegno del popolo sovrano, avrebbe un enorme potere politico che eserciterebbe peraltro non quale garante degli equilibri costituzionali, come accade, o dovrebbe accadere, oggi, bensì come espressione diretta di una parte politica che, in quanto prevalente su altre parti, occuperebbe tutti gli spazi istituzionali ed escluderebbe ogni rapporto e dialogo con l’opposizione e con le parti sociali. Ciò vorrebbe dire che molti cittadini, dissenzienti dall’orientamento governativo, non avrebbero più alcun riferimento o rappresentanza sull’amministrazione dello Stato.
E ciò sempre che i cittadini, sentendosi ormai del tutto estraniati dalle decisioni politiche (oggi siamo già su quella strada) non ritengano di non partecipare neppure più al voto.
Cosa che già succede nella repubblica presidenziale per eccellenza (gli Stati Uniti d’America) e che trova sempre più terreno fertile anche da noi. Il presidenzialismo infatti alimenta il bipolarismo elettorale e riduce dunque il pluralismo politico, agevolando la disaffezione al voto. Ovvero, l’elettore non avrà più una vera possibilità di scelta tra varie proposte politiche, ma dovrà sceglierne solo due o tre, con potenziale, ma vera, insoddisfazione dei propri ideali e interessi, e dunque con sempre minore propensione ad andare a esprimere il proprio orientamento, ritenuto ormai irrilevante da moltissimi elettori.
Insomma, si profila un quadro istituzionale generale composto da una serie di repubblichette che si muovono in un’ottica (nel migliore dei casi) localistica e senza seri meccanismi di coordinazione con territori vicini, che a loro volta si muoveranno per conto loro. Il tutto verrebbe garantito da un esecutivo guidato da uno strapotente Presidente della Repubblica che, per necessità politica, sarebbe partigiano della propria parte politica, ma eletto da una limitata cerchia di elettori, per lo più portatori di interessi più o meno confessati. Ma anche se così non fosse, e si optasse per il mantenimento del regime parlamentare con realizzazione dell’autonomia differenziata, cosa ne sarebbe dello Stato italiano, fondato sulla Costituzione del 1948?
Probabilmente, in tale condizione, un siffatto simulacro di Stato, non avrebbe più alcuna positiva funzione di garanzia dello sviluppo sociale e civile della popolazione, e con lo stesso anche la nostra Costituzione, nata dalla Resistenza antifascista e che ha posto allo Stato proprio il fondamentale compito di realizzare la vera e sostanziale uguaglianza tra i cittadini.
Pietro Garbarino, avvocato del Foro di Brescia, cassazionista
Pubblicato giovedì 15 Giugno 2023
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/finestre/un-regionalismo-differenziato-presidenzialista/