Per un apparente paradosso il Partito Liberale si costituisce, in quanto moderno partito politico, solo l’8 ottobre 1922, appena venti giorni prima della marcia su Roma, che decreta la fine dell’epoca dell’Italia unitaria a guida liberale. Quelle lontane vicende, che proiettano ancora la loro ombra sul presente, sono l’esito di una crisi che, nel primo dopoguerra, vede l’Europa alle prese con i sommovimenti tellurici causati dalla Grande guerra e dalla Rivoluzione d’ottobre. Esattamente cent’anni fa, in un Paese e in un Continente depauperati dal primo conflitto mondiale e dall’epidemia di “spagnola”, il fascismo – la creatura di Benito Mussolini – si insedia al governo, rimanendovi per più di un ventennio e lasciando tracce durature nel corpo della società italiana. Ascende allora al potere, per la prima volta in Europa occidentale, un inedito “partito-milizia” di estrema destra (Emilio Gentile), che si caratterizza per un’identità costruita su una serie di negazioni: dall’antiliberalismo all’antiparlamentarismo, dall’antisocialismo all’anticomunismo. “Movimento anti-tutto” (Norberto Bobbio), che rappresenta la più compiuta estrinsecazione dell’antipolitica, il fascismo si presenta al suo esordio come movimento anti-ideologico e, in quanto tale, proclama il primato dell’azione, in nome anche del ripudio della democrazia come sistema di composizione dei conflitti.
Artefice della militarizzazione della politica, il fascismo fa dell’uso generalizzato della violenza la sua principale risorsa, il proprio tratto distintivo. Riuscito amalgama di mentalità piccolo-borghese, populismo demagogico e interessi capitalistici, mette a disposizione dei ceti dominanti la truppa d’assalto contro le organizzazioni proletarie e le istituzioni rappresentative. Soprattutto fornisce alle élites quel partito di massa che esse non avevano mai avuto e tanto più necessario in una fase storica in cui l’accendersi delle tensioni sociali e l’affermazione dei partiti popolari avevano reso ai loro occhi del tutto inaffidabili gli strumenti di mediazione adoperati dal ceto dirigente liberale.
L’originalità del fascismo, che abbinerà la repressione del “nemico interno” con l’espansionismo verso l’esterno, sta nell’essere entrato in sintonia con uno degli aspetti caratterizzanti l’intero cammino del Novecento: la massificazione della società; nell’aver dato vita a un regime reazionario basato sul rapporto diretto capo-masse, sul connubio tra forza e consenso. Il fascismo è figlio dell’età iniziata con la Grande guerra, contraddistinta dalle dimensioni di massa assunte dallo scontro politico e sociale. Come scriveva Angelo Tasca nel 1938, «il fascismo non è pura reazione, ma una reazione che si giova dei metodi di massa, i soli efficaci nella situazione postbellica. Esso tenta di trasferire la lotta sul terreno stesso dei suoi avversari, di scalzare la loro influenza fra le masse». Un dato appare significativo: la celere progressione del numero dei seguaci del fascismo, che dagli 800 del 1919 toccano la quota 322.000 nel maggio 1922, mentre diminuiscono gli iscritti al Partito socialista (Psi), che si riducono nell’ottobre di quello stesso anno, dopo l’ennesima scissione, a 106.854.
Dietro al duce – il condottiero carismatico circondato da un alone mistico-religioso – gran parte della piccola borghesia, che non si riconosce più nello Stato liberale ritenuto incapace di proteggerla, si sente protagonista della storia. Si illude, indossando la camicia nera, di realizzare la sua rivoluzione. Privi di una propria organizzazione sindacale e politica, i ceti medi appoggiano un movimento che sembra avere a cuore loro condizione sociale, insidiata dalla crisi economica postbellica e dall’avanzata del proletariato. Le loro posizioni ben presto combaciano con l’obiettivo di tacitare l’antagonista di classe, a cui mirano il capitalismo agrario della Val Padana e gli imprenditori maggiormente colpiti dalle difficoltà della macchina produttiva.
All’inizio della sua avventura politica il movimento fondato a Milano il 23 marzo 1919 da Benito Mussolini raccoglie, sulla base di un programma che mescola l’ultranazionalismo con rivendicazioni avanzate, ex-combattenti, futuristi, transfughi del socialismo, anarco-sindacalisti. È espressione delle inquietudini e delle aspirazioni di taluni strati della piccola borghesia urbana, che sui campi di battaglia e nel fango delle trincee hanno interiorizzato la forza dirompente dell’uso incondizionato della violenza. Ne danno prova immediatamente con la devastazione dell’Avanti il 15 aprile 1919, provocando il ferimento di 39 persone e la morte di un soldato e tre socialisti. Un cruento episodio prontamente rivendicato dal tribuno di Predappio quale “primo atto della guerra civile”.
Il fascismo rimane una formazione politica ininfluente sino a quando – con l’assalto a Palazzo d’Accursio, in occasione dell’insediamento della giunta comunale socialista di Bologna (21 novembre 1920) – non mette le sue energie al servizio della reazione. Diviene, a cavallo tra il ’20 e il ’21, il braccio armato dei proprietari terrieri dell’Emilia, prima, della Toscana, del Veneto, della Lombardia e del Piemonte, poi. In questa fase il fascismo è essenzialmente squadrismo, “illegalismo autorizzato”» (Gaetano Salvemini).
Comandate dai cosiddetti ras – tra cui Italo Balbo, Leandro Arpinati e Roberto Farinacci – le spedizioni delle camicie nere prendono di mira case del popolo, sedi sindacali e di partito, circoli del dopolavoro e cooperative. Spostandosi da una località all’altra a bordo di camion, munite di manganelli e olio di ricino, di fucili e rivoltelle, ma talvolta anche di mitragliatrici e bombe a mano, terrorizzano, umiliano, bastonano, feriscono e uccidono, spesso con la connivenza di esercito, polizia e magistratura, migliaia di militanti e dirigenti della sinistra sindacale e politica, nonché delle leghe bianche (complessivamente circa 4.000 morti). Insanguinano la campagna elettorale per le votazioni del 15 maggio 1921 (170 vittime e decine di feriti), in virtù delle quali entrano alla Camera 35 fascisti, tra cui gli organizzatori e i responsabili di eccidi e rappresaglie. Si tratta di “una svolta politica e di civiltà senza più ritorno”, di una data storicamente rilevante, ancor prima della fatidica marcia su Roma (Fabio Fabbri).
Il 31 dicembre 1921, l’intellettuale torinese Zino Zini, che ha intensamente collaborato all’Ordine Nuovo di Gramsci annota nel Diario: “Lo Stato-forza prende il posto dello Stato-legge (…). I fascisti hanno vinto il nemico interno”. Le “squadracce” sono composte, in gran parte, da figli di ex mezzadri e di modesti fittavoli, divenuti proprio in quegli anni, grazie anche all’inflazione che azzera i debiti, piccoli proprietari e perciò decisamente ostili alla “socializzazione della terra” propugnata dalle leghe rosse. Nelle zone rurali lo squadrismo trova adepti e sostenitori nel ceto medio dei borghi e dei campi, tra i contadini arricchiti e gli affittuari, tra i bottegai e gli artigiani un po’ più agiati, tra gli imprenditori dello zucchero e delle conserve alimentari, nonché tra i professionisti di provincia. Questa appartenenza sociale, che si coniuga con una precisa appartenenza generazionale tutta imperniata sulla giovinezza delle nuove leve, trasforma, tra il 1920 e il 1921, la fisionomia del movimento fascista, distinguendola nettamente dall’originaria matrice sansepolcrista del 1919.
Il fascismo agrario, incarnazione del partito della guerra civile, è certamente il più strutturato, ma non avrebbe potuto chiudere la partita a suo favore se Mussolini non avesse stabilito un “compromesso autoritario” con gli altri centri di potere, che lo disarcioneranno più di vent’anni dopo, nel 1943, per salvare il salvabile dall’imminente catastrofe bellica. Tra il ’21 e il ’22 il duce è abilissimo nel rassicurare Vaticano e Corona e, una volta a capo del governo, nell’esaudire le richieste più importanti per la borghesia industriale: l’abolizione della nominatività dei titoli e della progressività dell’imposta di successione e la messa in mora definitiva di ogni intenzione di tassare parte dei sovrapprofitti di guerra.
La “controrivoluzione preventiva” dello squadrismo dilaga quando lo spettro del bolscevismo si è pressoché dileguato dopo la “grande paura” suscitata nella borghesia dal biennio rosso culminato nell’occupazione delle fabbriche nel 1920. La controffensiva fascista si scatena nel momento in cui il Paese avverte, in tutta la loro pesantezza, gli effetti della recessione postbellica. A pagarne il prezzo più alto è la classe operaia, flagellata dai licenziamenti di massa, il cui ridimensionamento mette a nudo i limiti del gruppo dirigente del Psi, diviso tra una direzione massimalista, non in grado di rinnovarsi negli strumenti di analisi e nei metodi di lotta, e una minoranza riformista, chiusa in un’angusta prospettiva gradualistica.
Pronta ad approfittare delle fratture che solcano il campo socialista e che provocano nel gennaio 1921 la fondazione del Partito comunista d’Italia (Pcd’I) e nell’ottobre 1922 l’uscita dei riformisti dal Psi, è l’estrema destra, la cui strategia eversiva si prefigge di sgominare innanzitutto il movimento operaio, già debilitato dalla crisi economica. Mentre i lavoratori e i militanti di base sono sottoposti a un durissimo attacco, i leader socialisti invitano alla calma, a mantenere una “savia e oculata passività”, a non reagire alle provocazioni e alle offese. Diverso è l’atteggiamento del neonato Partito comunista, che incita a “rispondere colpo su colpo”, ma la cui azione è inficiata dal settarismo e dall’ostilità nei confronti di tutto ciò che non possa dirigere direttamente. Il Pcd’I si preclude, così, la possibilità di mettersi alla testa degli Arditi del Popolo, che – armi in pugno – contrastano efficacemente i fascisti in talune occasioni, come a Sarzana, in provincia di La Spezia, nel luglio 1921 e a Parma nell’agosto 1922, dove spicca la figura di Guido Picelli, che cadrà nel gennaio 1937, combattendo volontario nella guerra civile spagnola.
Se lo squadrismo prende corpo nei punti alti dello sviluppo capitalistico italiano, esso è pressoché assente nelle aree povere e arretrate del Mezzogiorno, dove il fascismo penetra grazie al trasformismo del notabilato locale che, cambiando casacca, riesce a mantenere intatto il proprio dominio sul resto della società. Tuttavia, la Campania e la Puglia costituiscono un’eccezione. Nella prima, specialmente nel Napoletano, dove l’industria è più diffusa e il movimento operaio è più robusto, le spedizioni punitive degli squadristi si fanno, nel 1921, meno sporadiche, più massicce e sistematiche. Si pensi in primo luogo ai “fatti di piazza Spartaco” del gennaio di quell’anno a Castellammare di Stabia, che lasciano sul terreno 6 morti, molti feriti e portano allo scioglimento dell’amministrazione socialista, o al micidiale colpo inferto all’altro caposaldo rosso della provincia, Torre Annunziata, che viene piegato da un manipolo fascista guidato da alcuni squadristi, tra cui Aurelio Padovani. Numero uno del fascismo partenopeo, ex capitano, repubblicano, massone, con un folto seguito personale, Padovani entrerà in contrasto con i vertici del Partito nazionale fascista (Pnf), da cui sarà espulso nel 1923 e morirà, trentasettenne, nel 1926 in un incidente le cui dinamiche sono rimaste a lungo oscure. Nelle zone rurali della Campania, invece, le vecchie classi dirigenti trovano la loro sponda politica nei nazionalisti capeggiati dall’onorevole Paolo Greco.
In Puglia, terra di braccianti e di aziende capitalistiche agrarie, i conflitti sociali e politici percorrono la regione da un capo all’altro. Le prime squadre assoldate dagli agrari sono formate da mazzieri, mercenari armati di mazze da caprai. Poi le camicie nere si riconoscono in Giuseppe Caradonna. Ex capitano anche lui, sa “mettere in linea” una mobilissima cavalleria per terrorizzare con le sue efferate scorribande i salariati agricoli e i contadini pugliesi. Durissima la contrapposizione con Giuseppe Di Vittorio, il giovane leader dei “cafoni” di quelle contrade, bagnate dal sangue dello stillicidio di ferimenti e assassini avvenuti con la complicità o sotto lo sguardo compiaciuto delle forze dell’ordine. L’ultima impresa della cavalleria di Caradonna, affiancata da fascisti lucani e calabresi, è l’occupazione di Foggia il 29 ottobre 1922.
Pure in Calabria, dove i contadini hanno maturato una certa coscienza dei propri diritti per impulso delle leghe bianche (con il sacerdote Carlo De Cardona) e dei movimenti di sinistra (con Pietro Mancini e Fausto Gullo), si verificano numerosi episodi di sangue. Come ha narrato Mario La Cava in I fatti di Casignana, un appassionante quanto dimenticato romanzo del 1974 basato su documenti e testimonianze, in provincia di Reggio Calabria, precisamente nel paese di Casignana, appunto, all’incirca un mese prima della marcia su Roma carabinieri e fascisti commettono un eccidio ai danni dei contadini, rei di aver occupato – sull’onda dell’eco della Rivoluzione d’ottobre – le terre del maggiorente locale, don Luigi Nicota, esponente della più retriva conservazione sociale.
“I fatti di Casignana” accadono nell’anno dell’intensificarsi delle violenze fasciste, del clamoroso fallimento dello “sciopero generale legalitario” indetto dall’Alleanza del lavoro – la “Caporetto del socialismo”, come lo definirà poi Filippo Turati – che offre per contro ai fascisti il 1° agosto l’opportunità per esibire la loro protervia e accreditarsi paradossalmente come tutori dell’ordine. Inoltre, le forze capitanate da Mussolini si giovano sempre più dei favori della stampa benpensante e borghese. Intanto il mondo liberale nutre ancora la speranza, che coltiverà sino al delitto Matteotti, di poter costituzionalizzare un movimento che è servito a mettere in riga i “rossi”.
È in questo clima che si arriva alla marcia su Roma, preceduta di qualche giorno dall’adunata a Napoli di migliaia di camicie nere. Senza incontrare ostacoli, lo sgangherato esercito privato dei manipoli fascisti convergerà il 28 ottobre 1922 sulla Capitale, per dare poi una severa lezione a chi aveva provato a resistere (13 morti tra gli operai del quartiere di San Lorenzo). Vittorio Emanuele III – il re soldato della propaganda nazionalista di guerra – non firmerà lo stato d’assedio, spalancando le porte all’ascesa della “trincerocrazia”. E così Mussolini potrà giungere in vagone-letto da Milano, dove aveva ricevuto l’investitura degli ambienti industriali.
Il 31 ottobre, a conclusione di rapidissime trattative, il capo del fascismo forma il suo primo governo. Ne fanno parte cinque fascisti – Mussolini tiene per sé la presidenza, i ministeri dell’Interno e degli Esteri – tre indipendenti, un nazionalista, due demosociali, un liberale di destra, un demoliberale e due popolari. È la tappa iniziale di un percorso più che ventennale, con il quale gli italiani – o meglio una parte di essi – non si sono misurati fino in fondo. Hanno preferito far propria l’immagine edulcorata, fuorviante, assolutoria della loro autobiografia, veicolata dalle tante letture distorte e banalizzanti del fascismo che hanno trovato negli ultimi decenni una potente cassa di risonanza nell’universo mass-mediatico.
L’aver insistito a lungo sul tema controverso, quanto peraltro ineludibile, del consenso goduto dal fascismo, l’aver fornito la rappresentazione di una dittatura paternalistica e blanda, che avrebbe sbagliato solo col varo delle leggi razziali del 1938 e poi con l’entrata in guerra nel 1940, ha finito per mettere quantomeno in secondo piano il nodo genetico della violenza, i tanti misfatti di un regime che ha soppresso le libertà civili, politiche, sociali e si è macchiato di gravi crimini in patria e fuori dei confini nazionali, con la riconquista feroce della Libia, con l’uso dei gas in Etiopia (dove ha sfiorato l’olocausto) e con la brutale occupazione dei Balcani. È ora più che mai necessario fare i conti, senza alcuna reticenza, con i luoghi comuni, con gli stereotipi e le immagini rassicuranti ma false, di un passato che continua a riverberarsi – e non poco – sul nostro presente.
Francesco Soverina, Istituto campano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
Pubblicato lunedì 24 Ottobre 2022
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