E cosa hai sentito figlio mio dagli occhi azzurri? E cosa hai sentito figlio adorato?/Ho sentito il fragore di un tuono e il suo rombo era un monito/Ho sentito il ruggito di un’onda che potrebbe affogare il mondo intero (…) Ed è una dura, dura pioggia quella che cadrà
Bob Dylan, A Hard Rain’s A-Gonna Fall, 1962
«Non possiamo dimenticare il pericolo di guerra nucleare che proprio allora minacciava il mondo. Perché non imparare dalla storia? Anche in quel momento c’erano conflitti e grandi tensioni, ma si scelse la via pacifica. Sta scritto nella Bibbia: Così dice il Signore: “Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita”». Imparare dalla storia per scegliere la via della pace. È l’appello, sessant’anni dopo la crisi dei missili a Cuba, arrivato da Papa Francesco durante l’Angelus del 9 ottobre scorso, mentre in Ucraina si teme l’escalation nucleare.
La crisi dei missili si apre negli stessi giorni del 1962 in cui inizia il Concilio Vaticano II, dove sono riposte forti speranze di riscatto. In particolare per i popoli dell’America Latina, perché porta alla ribalta problemi, vitalità ed energie di Chiese che chiedono maggiore considerazione per la loro specificità culturale, religiosa e sociale. Un mese prima di dare il via al Concilio ecumenico, Giovanni XXIII aveva affermato che la Chiesa si presentava quale è e vuole essere, la «Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».
Sul fronte diplomatico, proprio mentre si inaugura una nuova fase di distensione tra i blocchi Est-Ovest con la visita di Chručšëv negli Stati Uniti, la vittoria della rivoluzione cubana nel gennaio 1959, con la presa del potere da parte dei barbudos, aveva allamato la Casa Bianca, preoccupata della perdita di controllo di un punto così strategico del quadrante latinoamericano, e per questo motivo aveva avviato operazioni politico-economiche di accerchiamento, tese a destabilizzare il governo dell’Isola.
«Davanti all’America Latina e davanti al mondo, come un impegno storico, ecco il dilemma irrinunciabile: o Patria o morte». Di fronte a un milione di donne e uomini riuniti a Plaza de la Constitución “José Martí”, Fidel Castro con la prima Declaración de l’Habana ribadisce il diritto dei popoli alla rivoluzione adottato in risposta al documento approvato nel corso della VII riunione dei ministri degli Esteri dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) che si era tenuta in Costa Rica alla fine del mese di agosto. Sotto la pressione del segretario di Stato degli Stati Uniti, infatti, l’Osa aveva approvato una dichiarazione di condanna del governo cubano, accusandolo di instaurare un regime comunista in America e di avere tra i suoi obiettivi la distruzione dell’“unità americana”.
È il 2 settembre 1960 e acutamente il líder máximo internazionalizza lo scontro con gli Stati Uniti nell’intento di essere riconosciuto alfiere delle istanze dei popoli del Terzo Mondo che avevano preso forma a Bandung proprio mentre era in corso la “guerra fredda ai tropici”, definita così con riferimento ai processi di decolonizzazione africani. Nello scacchiere geopolitico, sul fronte Est, mentre il mito sovietico si sta sgretolando a seguito dei fatti ungheresi, la retorica antimperialista ne approfitta per ricostruirsi un’immagine su scala globale. L’apice dello sforzo di riposizionare l’Urss quale retroterra dell’indipendentismo viene raggiunto proprio dopo la rivoluzione castrista. In quest’ottica il vice primo ministro sovietico Anastas Mikoyan vola a Cuba per stringere rapporti con il regime di Fidel Castro, confessando a un interlocutore americano: «Dovete rendervi conto di cosa significhi Cuba per noi vecchi. Abbiamo aspettato tutta una vita che un altro Paese diventasse comunista senza l’aiuto dell’Armata Rossa […] Ci fa sentire di nuovo giovani!».
In questo clima la guerra di liberazione nazionale cubana è elevata a emblema della vittoriosa avanzata del socialismo e del comunismo sull’imperialismo su scala mondiale. Ma intanto all’Avana occorre fare i conti con gli yankees e i rapporti tra il giovane governo rivoluzionario e l’amministrazione statunitense si cominciano a irrigidire in seguito alle nazionalizzazioni ed espropriazioni che colpiscono le industrie americane. «Dobbiamo dimostrare – aveva detto nel febbraio 1959 in un discorso al Senato il democratico John Fitzgerald Kennedy – che sappiamo concedere energia, intelligenza, idealismo, sacrificio alla causa della sopravvivenza e del trionfo della società aperta, almeno nella stessa misura in cui i despoti russi sanno estorcere tutto ciò con la forza e a difesa del loro sistema chiuso e tirannico».
Nel novembre 1960 JFK è eletto alla presidenza Usa, ma nonostante le premesse, il primo appuntamento della politica internazionale della nuova amministrazione si rivela un fallimento sia dal punto di vista politico sia diplomatico: dell’aprile 1961, neanche tre mesi dopo l’insediamento del neopresidente alla Casa Bianca, è il tentativo, fallito, della Cia di far sbarcare un nutrito drappello di guerriglieri esuli cubani anticastristi alla baia dei Porci a segnare una svolta nei rapporti con Cuba.
“Non possono perdonare che qui, proprio sotto il loro naso, noi abbiamo fatto una rivoluzione socialista”, Fidel Castro, 16 aprile 1961
Intanto con l’avvento dell’amministrazione Kennedy e la crisi di Berlino, che culmina con la costruzione del Muro dal 13 agosto 1961, è iniziata la nuova corsa agli armamenti.
Il ministro della Difesa statunitense Robert McNamara, nel giugno 1962, delinea la nuova strategia in virtù della quale «l’equilibrio attuale della potenza atomica» porta a escludere l’ipotesi che razionalmente un qualunque avversario possa scatenare un conflitto nucleare sia mediante un attacco improvviso, sia ricorrendo alle armi atomiche in un conflitto limitato. Cionondimeno, il pericolo della guerra permane in conseguenza degli errori di calcolo. E in questa deprecabile ipotesi – prosegue McNamara – occorre tornare a un modo più tradizionale di condotta della guerra, cioè puntare «alla distruzione delle forze militari del nemico, non della sua popolazione civile»: per questo gli Stati Uniti devono attrezzarsi per conservare «anche di fronte a un massiccio attacco a sorpresa, una sufficiente riserva di potenza da distruggere la società del nemico, se portati a farlo». In questo modo si offre a un potenziale nemico il massimo incentivo immaginabile per astenersi dal colpire le città Usa.
In buona sostanza, si elargisce base teorica al processo di riarmo che rappresenta il presupposto fondamentale della garanzia atomica degli Stati Uniti all’Europa occidentale nel caso di un attacco convenzionale sovietico. Ma questa visione chiama in causa il rapporto con i Paesi Nato (che perseguono strade diverse), e più nello specifico il sistema di difesa nucleare dell’Alleanza atlantica su basi globali, che evidentemente necessita di un maggiore coordinamento sul terreno militare.
Il neoglobalismo lanciato dall’amministrazione Kennedy richiede il potenziamento dell’armamento bellico dei Paesi europei che non gradiscono l’impostazione americana. Su queste difficoltà si incunea, come fatto catalizzatore, la crisi dei missili cubana.
Sin dal maggio 1962 dall’Urss parte segretamente l’“Operazione Anadyr” e si moltiplicano i segnali di massicci invii via mare di armamenti sovietici a Cuba. Si tratta di iniziative che destano inevitabilmente l’allerta negli Stati Uniti, preoccupati di un’eventuale penetrazione comunista nell’emisfero occidentale, che avrebbe rappresentato un altro duro colpo dopo quello della vittoriosa rivoluzione cubana. Fino al 15 ottobre a Washington non hanno la certezza che nell’isola, oltre ai missili antiaerei, si stanno installando missili a medio raggio e rampe di lancio per alcuni IRBM, missili con testate nucleari (che però non giungeranno). Il 22 ottobre il “Journal-American” di New York titola: Highest National Urgency. Jfk talks to nation tonight (Massima urgenza nazionale. Jfk parla alla nazione stasera). Nel drammatico discorso, Kennedy rivela l’inganno sovietico e annuncia la ferma decisione degli Stati Uniti di procedere, come primo passo, al blocco navale attorno a Cuba per evitare che vi pervenissero ulteriori armi offensive e che la situazione potesse precipitare in un conflitto.
Solo dieci anni prima, il 1° novembre 1952, gli Stati Uniti avevano fatto esplodere la prima bomba termonucleare nel piccolo atollo del Pacifico per sperimentazione, che si era rivelata settecento volte più potente della bomba sganciata a Hiroshima. Sono ore concitate di trepidazione pubblica in tutto il mondo. Il 25 ottobre Giovanni XXIII invia due note diplomatiche congiunte, e memorabile rimane il “Radiomessaggio per l’intesa e la concordia dei popoli”, un accorato appello dai microfoni di Radio vaticana «ai governanti della Terra» e «a tutti gli uomini di buona volontà» perché si eviti la guerra atomica e si risolva per via diplomatica la crisi cubana che sta mettendo in pericolo l’intera umanità.
«Brandire le armi nucleari come minaccia è un conto, ma usarle è tutt’altra cosa», Nikita Chručšëv, 23 ottobre 1962
Dal 26 ottobre iniziano le trattative segrete che coinvolgono il governo brasiliano di João Goulart come mediatore con Castro, mentre pubblicamente Che Guevara minaccia Washington. Il 27 il mondo sembra sull’orlo di una guerra atomica, ma dai messaggi che giungono da Mosca e da Washington emerge la volontà sovietica di ritirarsi dal confronto, cioè di ritirare i missili da Cuba in cambio della sospensione del blocco navale, dell’impegno a non invadere l’isola e, come richiesta separata (e tenuta segreta), del ritiro dei missili Jupiter a medio raggio dislocati nelle basi statunitensi in Turchia.
Fidel Castro, sorpreso e seccato dalla retromarcia sovietica, si sfogherà più tardi con Saverio Tutino, inviato de “l’Unità” a Cuba: «Fino all’ottobre 1962, noi avevamo camminato con spontanea e completa fiducia nella politica di Chručšëv». Il segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica gli risponderà chiaramente: «noi non stiamo combattendo l’imperialismo per morire» commentando con i suoi collaboratori: «solo una persona che non ha idea di cosa significhi una guerra nucleare […] può parlare così».
Andrea Mulas, storico Fondazione Basso
Pubblicato sabato 22 Ottobre 2022
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