Ora che si sono spenti i riflettori dell’attenzione mediatica, è opportuno approfondire la riflessione sulle caratteristiche e sugli scopi del convegno organizzato a Roma il 6 aprile scorso dal think tank sovranista Nazione futura e intitolato “Pensare l’immaginario italiano”. L’evento, presentato anche come “Stati generali della cultura di destra” (o “nazionale”: l’oscillazione terminologica è sintomatica, come si vedrà appresso), è stato salutato con entusiasmo dai giornali e dai blog dell’area conservatrice e postfascista, ma accolto con scetticismo e commentato con malcelata ironia dai più importanti organi di stampa. Con qualche buona ragione, bisogna aggiungere.

(Imagoeconomica, 2022, Carlo Lanutti)

Intanto, va segnalato che la destra ha confermato in questa occasione di avere difficoltà a maneggiare concetti complessi: “immaginario” è una sineddoche, non un sinonimo di “cultura”, perché ne designa solo una parte (forse che le scienze sociali e le scienze esatte non appartengono alla costellazione del sapere?). La durata temporale del convegno è apparsa poi sproporzionata per difetto alle sue ambizioni conclamate, e riassunte nella dizione di “Stati generali”. È impensabile, infatti, che poche ore siano sufficienti a mettere a punto, seppure per sommi capi, un progetto di ampio respiro: non stupisce dunque che non si sia andati oltre le petizioni di principio e la reiterazione di trite parole d’ordine.

Il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, a “Pensare l’immaginario italiano. Stati generali della Cultura Nazionale” (Marco Ponzianelli, Imagoeconomica)

Si è affermata la volontà di sdoganare la cultura di destra, di emanciparla dal suo complesso d’inferiorità – dalla sua “sudditanza psicologica” – nei confronti della “vulgata catto-comunista” per alcuni, per altri dell’ideologia liberal, woke e politically correct (bersaglio prediletto, si noti per inciso, anche del premier polacco Morawiecki), di «scardinare le casematte del potere culturale» (Mollicone dixit); ma non si è ben compreso se l’obiettivo strategico sia quello di costruire una contro-egemonia, come predica Emanuele Merlino, oppure, come assicura il ministro Sangiuliano, di garantire il pluralismo delle idee (purché – si badi bene – compatibile con il supremo interesse della Nazione, con l’iniziale rigorosamente maiuscola), oppure ancora di “promuovere la cultura nazionale”, magari cominciando con la messa al bando dei forestierismi dalla lingua d’uso, come propone l’onorevole Rampelli.

I partecipanti

Sicché, a tirare le somme, il convegno si è risolto in un grido di battaglia, in una chiamata alle armi che però, stando al pur fitto elenco dei relatori (composto da intellettuali che gravitano da tempo nell’area postfascista) e alla composizione della platea (in cui spiccava la presenza di dirigenti Rai e di qualche vecchia gloria del varietà), non sembra – almeno nella circostanza – aver raccolto apprezzabile seguito al di fuori del perimetro della destra. Pur tuttavia, sarebbe sbagliato sottovalutare il significato dell’iniziativa.

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni (Imagoeconomica, Sara Minelli)

A leggere i resoconti giornalistici, nella sala del convegno si respirava un’aria di rivalsa, si percepiva l’orgogliosa baldanza di un partito e di un’area politico-culturale finalmente usciti da una lunga condizione di minorità e investiti di primarie responsabilità di governo: sentimento peraltro esibito dalla stessa Presidente del Consiglio, e destinato purtroppo ad alimentare l’aggressività dello squadrismo neofascista (come si è visto a Firenze, e non solo).

Ma a preoccupare non deve essere tanto questa postura bellicosa, quanto l’intento di tracciare “le linee programmatiche per una cultura nazionale”. Gli Stati generali hanno infatti inaugurato una poderosa campagna di autolegittimazione culturale della destra, le cui direttrici fondamentali appaiono chiare: accreditare la mutazione del partito postfascista in partito conservatore e incidere durevolmente, attraverso la creazione appunto di un nuovo “immaginario”, sulla mentalità, sulle opinioni e sugli orientamenti di larghi strati della società italiana.

Ritratto di Giacomo Leopardi, troppo “materialista” e fustigatore dei costumi dei connazionali, secondo la destra, che quindi disdegna di reclutare

Da un lato dunque, dopo qualche iniziale e maldestro tentativo di attribuire remoti capostipiti (Dante in primis) al suo “pensiero”, la destra lascia il recinto vigilato dai suoi antichi maestri (da Prezzolini a Evola) e posa le prime pietre del pantheon in cui raccogliere le personalità intellettuali che avrebbero contribuito in misura decisiva a forgiare l’identità nazionale: Vico, Cuoco, Gioberti, Croce, Gentile, persino Gramsci (ma la galleria è suscettibile di ulteriori ampliamenti: è probabile che vi accedano il “patriottico” Foscolo e il cattolico Manzoni, ma altrettanto prevedibile che ne venga escluso il materialista Leopardi, che ha sì composto la canzone “All’Italia” ma ha pure fustigato i costumi dei connazionali). Per questa via i postfascisti non soltanto si proclamano eredi e custodi della ‘autentica’ tradizione italiana in opposizione alle “minoranze ideologiche”, e se ne intestano la tutela contro ogni contaminazione, ma pretendono addirittura di riscrivere la nostra storia culturale.

A nulla vale rammentare loro che analoga operazione fu compiuta dal fascismo, che si spinse fino al punto di annoverare Mazzini fra i suoi predecessori; e che la migliore cultura italiana è stata sempre cosmopolita (lo aveva lucidamente compreso Gramsci), ha intrattenuto un costante, fecondo dialogo con le culture straniere, arricchendosene e arricchendole. Lo spregiudicato sincretismo della destra non è figlio d’ignoranza e di superficialità ma di un cinico calcolo strumentale, volto a dissimulare il suo settarismo e a identificare se stessa con la nazione (non per caso l’on. Meloni giudica le critiche mosse al governo da lei presieduto come lesive del prestigio dell’Italia).

(Saverio De Giglio, Imagoeconomica)

Dall’altro lato, i postfascisti procedono a una sistematica, capillare occupazione dei centri di direzione delle istituzioni culturali e dell’informazione radiotelevisiva pubblica, oppure brandiscono minacciosamente la clava dei finanziamenti statali per condizionare pesantemente le attività dei settori su cui non riescono a mettere le mani. In altri termini, col pretesto di combattere l’egemonia culturale della sinistra – che, se esiste, è circoscritta a ristretti circoli intellettuali e ad alcuni ambienti accademici – e di essere risarcita per le (presunte) discriminazioni subite, la destra vuole porre sotto controllo gli apparati che concorrono in larga misura a plasmare la sensibilità collettiva e il senso comune. La posta in palio è la conquista di sempre più vaste quote di consenso. E non è possibile ignorare che il piano della destra è oggettivamente favorito dal diffuso, allarmante indebolimento dell’intelligenza critica e della capacità di giudizio – un indebolimento causato dall’intreccio di fattori vecchi e nuovi: il crescente abbandono scolastico, la bassa percentuale – rispetto a quella dei Paesi europei più sviluppati – di diplomati e di laureati, la disaffezione alla lettura (anche dei giornali), l’alto tasso di analfabetismo di ritorno, la logica utilitaristica e aziendalistica che si è voluto imporre al sistema pubblico della formazione.

Per finire, addolora constatare che FdI è l’unico partito italiano a elaborare una politica culturale, pur se ancora approssimativa e marcatamente dirigista. Ai postfascisti non sfugge che, soprattutto da qualche tempo a questa parte, i cicli politici si consumano rapidamente; per scongiurare il pericolo del ritorno alla marginalità, essi devono dunque approfittare della permanenza al governo per lasciare il segno, e preparano il terreno per la realizzazione del loro obiettivo principale, che rimane la modifica della forma di Stato, ossia il presidenzialismo. Per converso, da decenni le forze politiche democratiche e di progresso sono sprovviste di una politica culturale: anche questa mancanza ha contribuito alla fortuna della letteratura revisionistica che rimuove, o addirittura nega, la matrice e il carattere antifascista della Costituzione repubblicana – una letteratura che l’Anpi si è trovata spesso da sola a denunciare e a confutare. Ma non tutto è perduto: vi sono nella società gli anticorpi adeguati a fronteggiare con successo l’offensiva culturale della destra. Attivarli e organizzarli non è però compito che possa essere delegato, come finora è avvenuto, all’associazionismo democratico e alle sue pur notevoli energie intellettuali e morali. I partiti che si riconoscono senza riserve nei valori della Carta costituzionale hanno l’obbligo non soltanto di intervenire attivamente nella “battaglia delle idee”, ma di proporre da subito – e di impegnarsi ad attuare – le riforme necessarie a garantire la libertà e il pluralismo dell’informazione e della cultura. Ne va della qualità e del futuro stesso della nostra democrazia.

Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi