In politica il contrasto, la lotta per prevalere, la dialettica, anche aspra e pesante, sono quasi sempre la regola, se non la normalità. Ripensando alle più antiche esperienze storiche di comunità organizzate, possiamo facilmente capire che già gli antichi egizi, i popoli della Mesopotamia, i greci e i romani erano sempre divisi in diverse, e spesso radicalmente opposte, fazioni. Dunque non vi è nulla da stupirsi se, nell’Italia repubblicana – ma ancora prima in quella monarchica, e ancor prima nello Stato sabaudo – vi siano sempre stati conflitti tra diverse visioni del mondo e sulle cose da farsi. Ma ciò, oltre che nel mondo della politica, accade anche nella vita dei condomini, delle associazioni culturali e sportive, nelle società commerciali e dovunque si confrontino pareri, idee, esperienze e bagagli culturali diversi.

Esercito Assiro

In altri termini, la disparità di vedute è un fatto naturale di ogni società pluralista e il contrasto che tali circostanze generano è altrettanto naturale, e si chiama conflitto. Tuttavia questa situazione non può essere definita in modo negativo, o addirittura rifiutata, qualora sussistano regole o metodi che governano il conflitto e lo risolvano in modo accettabile per tutti. Cioè che vi sia un modo condiviso di gestirli e che, una volta che si addivenga a una certa determinazione, questa possa essere, se non accettata, quanto meno tollerata anche da coloro che non la condividono.

(Imagoeconomica, Alessia Mastropietro)

A giudicare dalle reazioni che assai spesso, per non dire sempre, provengono dal governo a fronte delle critiche che dissenzienti e opposizioni politiche propongono, viene sistematicamente addebitata ai critici la patente di diffamatori, disfattisti, propalatori di menzogne e demolitori della concordia nazionale. Ma il dissenso e la pluralità sono gli ingredienti principali della vita politica, ricordando sempre che, ove il dissenso viene represso e annullato, si parla di dittatura. Dunque l’alternativa a ciò non può che essere l’imposizione totale e indiscriminata di un unico pensiero; di un’unica opinione e di una unica volontà, che piaccia o non piaccia. Una volontà che deve essere la sola a essere enunciata e diffusa, senza se e senza ma.

Lo storico discorso del filosofo Jean Jaques Rousseau sull’origine delle diseguaglianze

La differenza tra queste due possibili soluzioni dei sempiterni e ricorrenti conflitti si possono ricondurre in una sola condizione che ne è l’eventuale presupposto: l’uguaglianza dei consociati, o dei cittadini nel caso del confronto politico.

Ovviamente, l’esistenza di gravi e pesanti disuguaglianze, nella nostra società, è un fatto evidente, quanto scontato, purtroppo. Infatti, là dove vige il principio di uguaglianza, chi prevale nelle opinioni non potrà mai utilizzare il proprio vantaggio di consenso per annientare le altrui opinioni politiche e tanto più ove si giunga all’eliminazione fisica, eliminare i propri avversari; insomma, là dove dovesse prevalere il principio di disuguaglianza, ne conseguirebbe che chi prevale potrebbe, come spesso è accaduto, mettere a tacere con ogni mezzo, lecito o illecito, le voci difformi e dissidenti.

In tal caso il conflitto verrebbe eliminato con una sorta di “pax romana”, ma il prezzo sarebbe quello di dividere la società tra chi comanda e chi deve soltanto obbedire. E cioè con la istituzionalizzazione e legalizzazione delle disuguaglianze.

Quanto sopra sta a significare che ciò che riconosce e valorizza il conflitto si può chiamare democrazia, mentre ciò che abolisce o soffoca il conflitto non può che essere chiamato totalitarismo o dittatura. Ma la domanda che ci si può e deve porre è la seguente. Può coesistere una situazione di totalitarismo con le forme di uno stato di apparente assetto istituzionale democratico? La risposta è sì.

Costituzione, organismi di rappresentanza del popolo, elezioni sono tutti elementi che certamente entrano nell’assetto istituzionale democratico, ma non ne sono di per sé la garanzia assoluta. Assistiamo ogni giorno nel mondo a evoluzioni politiche di Stati diversi, di ogni continente, in ogni posizione geografica e con diverse storie, che si danno Costituzioni che concentrano i poteri in poche mani; che prevedono parlamenti eletti con regole limitative, che svolgono elezioni non propriamente libere.

(Imagoeconomica)

Dunque esistono Stati che hanno una forma apparentemente democratica, ma nei quali l’esercizio della democrazia appare assai improbabile. Alcuni sono anche in quell’Europa che si ritiene, insieme agli Usa, il luogo dove la democrazia è nata e si è imposta su antichi imperi dispotici e su monarchie assolute. Ma allora bisogna chiedersi che cosa, innestandosi in un contesto istituzionale e costituzionale apparentemente democratico, orienta la vita del Paese in tal senso, o la condizione in senso totalitario e dittatoriale? La risposta è complessa ma non così complicata.

L’uguaglianza sostanziale dei cittadini

L’articolo 3 della Costituzione italiana, vero e proprio programma politico dello stato democratico, da attuarsi a prescindere da qualsiasi maggioranza lo governi, afferma che è compito dello Stato rimuovere tutti gli ostacoli, sociali ed economici, che impediscono od ostacolano di fatto l’effettiva uguaglianza tra i consociati. In altri termini, per realizzare tale situazione che è, ribadiamo “compito della Repubblica”, non si potrà evitare il conflitto tra chi sostiene la permanenza dello stato presente delle cose, e chi tende a modificarlo, in nome di interessi e garanzie diversi.

È questa la chiave per rendere effettiva la dinamica sociale e per fare sì che il conflitto, connaturato a qualsiasi forma di società, emerga in tutte le sue positive potenzialità, secondo la prospettiva del citato articolo 3 della Costituzione. Così, dove si scontrano soggetti e forze la cui disparità è evidente, si verificherebbe solo un’imposizione, da parte del più forte, delle proprie condizioni.

Manifestazione di rider. Tra loro molti immigrati (Imagoeconomica, Clemente Marmorino)

Un esempio lampante lo si può trovare nei trattamenti retributivi imposti da numerosi datori di lavoro alla manodopera straniera, che è soggetto per definizione più debole, per imporre condizioni più favorevoli a proprio vantaggio. Dunque la dialettica democratica si deve basare su situazioni di sostanziale parità, o quanto meno deve tendere a tali situazioni, a meno che non si voglia dare per scontata la disuguaglianza; in tal caso si dovrà parlare di democrazia zoppa, se non di regime classista. Da tale considerazione deriva il fatto che la dialettica politica e sociale, se gestita correttamente e in modo aperto, si caratterizza come il sale della democrazia, e il conflitto politico come linfa vitale di una sana vita sociale.

I contrappesi al potere

Montesquieu, il primo teorico della divisione dei poteri

Ma, come garantire, la lealtà la correttezza e la chiarezza dello scontro? Il potere, diceva Montesquieu, ha sempre, in ogni situazione, la tendenza a concentrarsi, e così rafforzarsi. Per questo, nelle costituzioni democratiche si sono ideati i cosiddetti contrappesi istituzionali, come strumenti di garanzia avverso la tentazione di abusare di quei poteri che la legge conferisce a ciascun organo politico.

La maggioranza parlamentare ha infatti, come fattore limitativo, l’opposizione della minoranza. Il Governo ha il Parlamento che controlla gli atti e le leggi che lo stesso propone. La Magistratura ha la Carta Costituzionale che verifica la coerenza con la Costituzione delle leggi che i Giudici devono applicare. Ma anche nei paesi ritenuti con più forte tradizione democratica ci sono i contrappesi.

Francia, la reggia di Versailles dove si riuniscono in seduta comune le due Camere del Parlamento

Un esempio immediato è dato dalla odierna situazione in Francia, dove il potente Presidente della Repubblica deve comunque confrontarsi con un Parlamento diverso da lui per fare il Governo. Insomma, ogni costituzione democratica prevede limitazioni e vincoli per chi può abusare del grande potere che già detiene.

Il governo Meloni in aula alla Camera (Imagoeconomica)

Come potrebbe esserci questa limitazione, però, se dalla elezione diretta del Presidente del Consiglio, visto sempre di più nella posizione di effettivo Capo politico di Governo, ne esce un Parlamento assoggettato, perché eletto contestualmente alla maggioranza politica governativa?

Sarebbe questo, infatti, il senso della riforma sul “premierato” che la compagine governativa, al potere in Italia, vorrebbe introdurre. Invero, tale nuova formulazione del dettato costituzionale riguardante l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, prevede l’elezione, in un’unica scheda, anche dei deputati e senatori, con la conseguenza che chi vota il “premier” voterà anche il suo partito e i suoi candidati al Parlamento. Ma vi è di più.

Il partito che otterrà la maggioranza relativa (e si presume che dovrà essere quello del Presidente del Consiglio eletto) avrà la maggioranza dei seggi in Parlamento. Così il Parlamento fungerà solo da mero organo cortigiano del Governo, visto che la eventuale uscita di scena del premier comporterà, come ordinaria conseguenza, lo scioglimento delle Camere; le quali, giocoforza, per tale perverso meccanismo diverranno ostaggio della Presidenza del Consiglio. Dove sono quindi i contrappesi che limitano il potere del “premier”? Non se ne vede traccia.

Ecco perché anche quella proposta si caratterizza in senso antidemocratico; perché annulla il conflitto politico e annichilisce il dissenso, che ha nelle camere parlamentari, il suo naturale e sommo luogo di espressione.

Il ruolo della Magistratura

Roma, Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magisgtratura (Imagoeconomica, Carlo Carino)

L’ordine giudiziario ha il potere-dovere di fare applicare le leggi. E ciò vale anche per il potere politico, atteso che nessuno in uno stato democratico, che è per definizione stato di diritto, può ergersi sopra la legge. I parlamentari sono soggetti, pur con le dovute garanzie, all’azione penale di cui sono titolari i Pubblici Ministeri. Pure i Ministri sono giudicabili da una sezione specializzata di un Tribunale. Ma se la magistratura requirente (i pm, per intenderci) vengono separati dal sistema giudiziario, e dal sistema di garanzia che esso garantisce secondo l’art. 111 della Costituzione, a questo punto non vi sarà più la certezza delle garanzie per nessuno, politici compresi.

In altri termini, verrà attenuato certamente, se non azzerato, quel principio secondo cui il pm comunque deve agire secondo giustizia, anche tutelando i diritti degli accusati. Con la separazione delle carriere, anch’essa proposta dall’attuale governo, si imbocca una strada che inevitabilmente modificherà la figura del pm, da magistrato imparziale quale ora deve essere, a inquisitore che deve a tutti i costi perseguire le proprie ipotesi accusatorie.

Il ministro Nordio in aula durante un question time (Imagoeconomica, Sara Minelli)

E in tale grave quadro ci perderemo tutti, in termini di tutela e protezione da ogni tipo di abuso. I cittadini in quanto a garanzie di tutela; la democrazia in termini di cessazione, o comunque forte attenuazione del sommo principio della separazione e autonomia dei poteri dello Stato.

Conclusioni

Fatte tutte le suesposte considerazioni, dobbiamo trarne le dovute conclusioni. Perché dobbiamo ritenere il conflitto come un fatto negativo e controproducente? Perché chi è al potere ha interesse a criticare il conflitto, e a predicare la propria pace e concordia? La risposta è semplice; il potere, per rafforzarsi, ha bisogno di tranquillità e di consenso. Ma il consenso si può ottenere non solo reprimendo o evitando il conflitto, bensì gestendolo e risolvendolo, anche mediante compromessi con l’opposizione e il dissenso. Le contrattazioni sindacali ne sono l’esempio più chiaro.

Palazzo Chigi. Un incontro tra governo e sindacati (Imagoeconomica)

Rifiutare la strada del negoziato, strumento da sempre utilizzato per superare il conflitto, costituisce una scelta politica che va nel senso contrario alla democrazia e allo stesso articolo 3 della Costituzione; il conflitto che tale norma evoca può trovare soluzione proprio in altre norme costituzionali e nelle leggi ordinarie che devono attuarle.

A Karl von Clausewitz è attribuita la famosa battuta sulla guerra come continuazione della politica

Dunque, tenere in conto il punto di vista delle opposizioni, quali che esse siano, in Parlamento; tenere presente l’obbiettivo della sostanziale uguaglianza dei cittadini; governare nel nome di tutti e non assecondando interessi definiti; rispettare in modo assoluto l’autonomia della Magistratura, sono gli strumenti per coltivare il conflitto, ma anche per gestirlo in modo corretto e democratico, senza degenerare in contrapposizioni che lo trasformerebbero in una sorta di guerra civile, anche se non combattuta con le armi.

Uno scrittore di qualche secolo fa diceva che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Noi rifiutiamo la guerra e perciò anche quella rozza concezione delle soluzioni del conflitto, perché i Padri costituenti “hanno già dato gli strumenti per regolare, non negandolo, il conflitto, e che loro stessi hanno riconosciuto come molla essenziale della vita democratica.

Seguiamo con costanza e determinazione la loro strada e così potremo avviarci a risolvere il grande tema della conquista sostanziale della parità non formale dei cittadini, attuando in tal modo una delle norme più importanti della nostra Carta Costituzionale.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi e socio di Libertà e Giustizia, legale di parte civile nei processi celebrati per la strage di Brescia, e autore con Saverio Ferrari del libro “Piazza della Loggia cinquant’anni dopo”