Un breve riassunto, a mo’ di preambolo. Intervistato dal direttore di «Libero» Pietro Senaldi in occasione di una manifestazione elettorale di Fratelli d’Italia a Milano, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha eletto Dante Alighieri a «fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese», in ragione della «visione dell’umano, della persona, delle relazioni interpersonali» espressa dal poeta, ma anche della «costruzione politica» illustrata in «saggi diversi dalla Divina Commedia».
Queste (testuali) affermazioni lasciano sorpreso e smarrito il lettore mediamente colto. Che cosa esattamente intende il ministro per “pensiero”? Una concezione del mondo, un organico sistema d’idee (cioè una filosofia), un sentimento della vita, una tavola di valori, tutte queste cose insieme? E da dove desume l’originale paradigma dantesco di “relazioni interpersonali”? Dall’amore per Beatrice, dall’amicizia con Guido Cavalcanti e con Forese Donati, dalla filiale devozione nei confronti di Brunetto Latini? Oppure dall’avversione per i Ghibellini prima e poi per i Guelfi neri, dal contrastato rapporto con alcuni fra i capi dei Guelfi bianchi (la parte politica in cui militò fino alla sua cacciata da Firenze) e con gli stessi esuli fiorentini? Certo, nei suoi rapporti con gli altri Dante fu mosso da forti e opposte passioni, ma non si riesce a scorgere dove stia l’esemplarità della sua condotta. Per ultimo, in che cosa la visione dantesca “dell’umano, della persona” differirebbe sostanzialmente da quella cristiana?
Al di là di tali banalità, da un ministro della Cultura sarebbe lecito attendersi il possesso almeno di conoscenze manualistiche. Per esempio, la Divina Commedia – come sanno anche gli alunni delle scuole medie – è un poema e non un saggio; a voler essere pignoli, il termine “saggio” e il corrispondente genere letterario fanno la loro prima apparizione nella seconda metà del Cinquecento, e dunque opere quali il Convivio, il De vulgari eloquentia, il De monarchia (cui sembra alludere Sangiuliano) devono essere correttamente definite trattati.
Quanto alla “costruzione politica”, è noto che Dante – non soltanto nel De Monarchia, ma anche nella Commedia – vagheggiò l’instaurazione di una monarchia universale capace di porre fine alle lotte intestine che avevano trasformato l’Italia in una «nave sanza nocchiere in gran tempesta», addirittura in un «bordello» (Purg., canto VI); in questa circostanza il ministro incorre in un clamoroso lapsus perché, a voler essere logicamente conseguenti, l’assunzione del poeta fiorentino a modello della cultura della destra lascia trasparire velleità autocratiche e persino imperialistiche.
Sommerso dalle critiche e dai sarcasmi, il ministro ha tentato una goffa correzione di rotta in una lettera al «Corriere della Sera», assegnando alle sue dichiarazioni il senso di una semplice «provocazione culturale» ma, al contempo, invocando a sostegno della sua “appropriazione indebita” del poeta fiorentino un fitto stuolo di intellettuali, di destra e illiberali (Giovanni Gentile, Augusto Del Noce, Marcello Veneziani, Oswald Spengler, Giuseppe Prezzolini) ma anche democratici e antifascisti (Enrico Ghidetti, Norberto Bobbio, Federico Chabod, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti), e infine virando verso l’attribuzione a Dante della più modesta qualifica di «conservatore» (a sua volta spia della equivoca natura politica di FdI, sospesa tra la fedeltà alla matrice postfascista e la conversione al conservatorismo).
La toppa però si rivela peggiore del buco: perché, a prescindere dal fraintendimento (non si comprende fino a che punto involontario) degli ironici giudizi di Eco e di Sanguineti, tutti i testimoni chiamati in causa dimostrano soltanto che della figura di Dante è stato fatto a lungo un uso ideologico, del tutto irrispettoso dei significati reali della sua opera.
Sangiuliano ricalca le orme di illustri predecessori. Cominciò il Risorgimento, che elevò il poeta fiorentino a “padre spirituale” di una nazione che fino ad allora era esistita in una dimensione esclusivamente letteraria e che aspirava a diventare Stato unitario. Circa un secolo dopo, il fascismo aggregò Dante «al Pantheon eroico della Nazione, facendolo entrare in una lunghissima lista di campioni dell’italianità» e addirittura riducendolo a «una controfigura del Duce», al fine di esaltare il primato di Roma e i magnifici destini del regime (si veda in proposito l’arguto e informato articolo di Stefano Jossa apparso sulla rivista «Doppiozero», da cui sono tratte le citazioni).
Difficile credere che il ministro ignorasse anche questo, e dunque che sia inciampato nell’ennesimo lapsus; né si deve considerare “insensata” la sua provocazione, come fa Augias. A guardar bene il partito postfascista (cui il ministro afferisce), estraneo al patto costituzionale e per decenni relegato a una collocazione subalterna nello scacchiere politico, nel momento in cui assume primarie responsabilità di governo avverte la necessità di costruirsi un profilo identitario che non abbia il suo fondamento in una tradizione culturale minoritaria, marginale e – per molti aspetti – impresentabile. Di qui l’invenzione di un albero genealogico composto di prestigiosi antesignani, che serva a legittimare la destra e la aiuti a radicarsi, a consolidare le posizioni, ad allargare il consenso, esorcizzando al contempo il timore di un rapido declino e di un ritorno all’irrilevanza del passato.
Il disegno è ambizioso, per quanto Sangiuliano si sforzi di mascherarlo con rassicuranti professioni di pluralismo («non dobbiamo sostituire l’egemonia culturale della sinistra, quella gramsciana, con un’altra egemonia, quella della destra. Dobbiamo liberare la cultura che è tale solo se è libera, se è dialettica»). E se i primi, maldestri passi suscitano una giustificata ilarità, la sfida non va sottovalutata.
Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi, italianista
Pubblicato martedì 17 Gennaio 2023
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