Il titolo di questo articolo è sbagliato. Volutamente. È sbagliato perché il soggetto dell’articolo, la cultura Picena, era composta di persone che non avevano idea di cosa volesse dire essere “multietnici” o “pagani”. Se poteste chiedere a un antico Piceno: “Sei femminista?” lui vi guarderebbe interdetto. Chiedete a un’antica Picena della parità di genere e non capirebbe di che cosa state parlando. Questi aggettivi moderni non avevano senso oltre duemila anni fa, non erano ancora stati inventati. Ci servono, oggi, per indicare alcuni aspetti della vita che gli antichi Piceni davano per scontati e vivevano con spontaneità, apparentemente senza farci neanche caso. Quindi il titolo è sbagliato. Non è fuori luogo, però.
Non lo è in un contesto, quello attuale, in cui sono stati sdoganati sovranismi che cercano di giustificare il proprio razzismo tirando in ballo non meglio precisate “radici Europee”. Vi siete mai imbattuti, su internet, nella foto in cui un muro è stato imbruttito da una scritta che recita “L’Italia è nata romana e cristiana, non morirà gay e mussulmana”? Ecco, è questo il genere di ignoranza per confutare la quale un titolo come quello che ho scelto non è fuori luogo.
Per raggiungere lo stesso obbiettivo avrei potuto scegliere una qualsiasi tra le tantissime, variegate culture che hanno formato il continente e la patria in cui viviamo. Avrei potuto prendere come esempio gli antichi culti della fertilità femminile, oppure le pratiche religiose in ossequio alle quali i nostri antenati decapitavano i bambini e ne seppellivano le teste mozze sotto l’uscio delle abitazioni. Avrei potuto parlare del non indifferente apporto che hanno avuto medici, architetti e scienziati musulmani nel progresso del nostro Paese, o di come Giulio Cesare fosse considerato “il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti” senza che questo ne mettesse in alcun dubbio la popolarità o la normalità.
Tuttavia, durante i miei studi mi sono specializzato sugli antichi Piceni, e anche per questo ho deciso di circoscrivere gli esempi al contesto che conosco meglio. Sotto il nome di “cultura Picena” si indica quella cultura protostorica fiorita tra Marche e Abruzzo intorno al nono secolo avanti Cristo, che si fa terminare convenzionalmente con la conquista romana della regione durante il terzo secolo. Si tratta, dunque, di una cultura durata circa seicento anni.
Una delle cose che ho trovato più difficili da realizzare, e questo nonostante io sia un addetto ai lavori, è che seicento anni sono un’enormità. Noi archeologi scaviamo, troviamo un coccio, e diciamo: “È del terzo secolo avanti Cristo”. Scaviamo altri dieci centimetri, troviamo un altro coccio, e diciamo: “Questo è del settimo secolo avanti Cristo”. E in dieci centimetri siamo andati indietro di quattrocento anni. O di circa sedici generazioni, se vogliamo. Sedici generazioni di uomini e donne che sono nati in un posto, sono cresciuti, magari si sono spostati per fare la guerra, oppure si sono sposati con qualcuno del villaggio vicino e sono andati a vivere là, oppure hanno seguito la loro vocazione di mercanti, o magari sono stati fatti schiavi e sono finiti a vivere da tutt’altra parte. Insomma, sedici generazioni di persone che non hanno vissuto sotto una campana di vetro. Si sono fatti contaminare da influenze esterne, idee diverse, stili di vita differenti da quelli che conoscevano.
Questo concetto bisogna tenerlo ben chiaro, altrimenti non si riesce a capire come i nostri antichi Piceni abbiano potuto essere, come diremmo oggi, multietnici e multiculturali, omosessuali, pagani e per la parità di genere. Li ho messi in fila, questi aggettivi, per creare un filo logico che mi facilitasse il compito di illustrare una delle tante radici culturali Europee. Andiamoli a vedere uno per uno.
Multietnicità e multiculturalità
Abbiamo detto che la cultura Picena si forma intorno al nono secolo, e che si sviluppa tra le Marche e la parte settentrionale dell’Abruzzo. Ma non è che prima questi posti fossero disabitati: in alcune importanti città delle Marche (Ancona, Sirolo, Fermo…) vivevano già gli esponenti di una cultura della tarda Età del Bronzo, la cultura Protovillanoviana, che ha forti legami materiali e religiosi con altre culture dell’Italia settentrionale e centro Europee. Nello stesso periodo, nelle campagne dell’entroterra si trovano tracce della cosiddetta cultura Subappenninica, che tradisce alcune influenze laziali e toscane. Per quanto riguarda le coste, la situazione è meno chiara, anche se ci sono pervenute alcune tracce che testimoniano antichi scambi con Micene (come al Montagnolo di Ancona). A un certo punto, su questo substrato di culture diverse cominciano a innestarsi influssi esterni.
Alcune indagini odontologiche condotte su scheletri rinvenuti in molte necropoli Picene, infatti, dimostrano evidenti similitudini tra i Piceni della zona Nord e gli Etruschi, e tra i Piceni della zona Sud, i Campani e i Sanniti, suggerendo per questi gruppi umani una antica radice biologica comune [1]. Più recentemente, una revisione di numerosissimi materiali archeologici ha portato alla conclusione che la prima età del Ferro in area medio-adriatica vede sì la nascita dell’identità picena, ma all’interno di un territorio non culturalmente omogeneo ed anzi suddiviso in varie culture che si differenziano non solo per i materiali prodotti, ma anche e soprattutto in campo ideologico [2].
Sempre analizzando sia i materiali che le modalità di sepoltura dei defunti, le quali forse più di ogni altra cosa caratterizzano l’identità e la cultura di una società, la studiosa Patrizia Von Eles ha osservato una complicata rete di interscambio tra la cultura Villanoviana e quella Picena, spingendosi ad affermare che “…l’area adriatica sembra avere elementi culturali condivisi, indipendentemente dall’appartenenza all’ambiente villanoviano o piceno” [3], concetto che la dott.ssa Lucentini ha addirittura ampliato alle culture rivierasche che si affacciavano sull’Adriatico affermando che “…alcune tombe di rango, a Sirolo, Numana e Novilara permettono di cogliere nei riti e negli oggetti […] rimandi insiti ed espliciti alle diverse componenti etniche del bacino adriatico” [4].
Passando i decenni e i secoli, la cultura Picena si evolve, muta, assume alcuni caratteri delle popolazioni con cui viene a contatto. È il caso dei Galli, che intorno al V° secolo cominciano a mettere piede nel Piceno, finendo per insediarsi nelle campagne rimaste spopolate a causa di un qualche tipo di calamità non ancora chiarita dall’archeologia. I Galli daranno il loro contributo all’evoluzione delle fasi finali della cultura Picena, importando oggetti e ritualità tipici della loro identità culturale e facendosi a loro volta influenzare da particolari caratteri della cultura Picena [5].
Prima ancora dei Galli, fondamentale fu l’apporto della cultura vicino orientale e greca: il bacino del medio e alto Adriatico, per secoli mantenutosi impermeabile alla colonizzazione greca, intorno al VII° secolo comincia ad aprirsi sempre più agli scambi commerciali. Con le merci, giungono nel Piceno anche gli uomini, che portano le loro idee, i loro usi e costumi: nasce così un periodo della cultura Picena che non a caso è chiamato Orientalizzante.
L’Orientalizzante vede una vera e propria rivoluzione sociale in seno alla civiltà Picena. Lo vediamo dai corredi funebri, soprattutto quelli maschili: nelle tombe più antiche le armi sono appannaggio di pochi, i corredi non hanno l’opulenza che dimostreranno in seguito. Questo denota un modo di fare la guerra modellato sullo scontro tra eroi di memoria omerica: due capi si combattono a duello, portando in guerra ciascuno la propria tribù.
Con l’avanzare dell’Orientalizzante, le panoplie sepolte cambiano: tra le altre armi, arrivano scudi, elmi e schinieri greci tipici degli opliti. Non è da escludere che la loro adozione stia a significare che è cambiato il modo di fare la guerra: non più un affare tra due capi, tra due clan, ma forse interi abitati che si armano e vanno a combattere [6]. Sicuramente l’ostentazione di queste armi importate significa che è cambiata anche la società, inglobando caratteri peculiari di civiltà vicino orientali e, soprattutto, di quella greca [7]. Si giunge alla stessa conclusione anche considerando la nuova abitudine di seppellire, oltre alle armi, anche tutto il necessario per allestire opulenti banchetti, specchio ancora una volta di una tradizione di stampo omerico.
Tiriamo le somme: appare chiaro che la cultura Picena sia il risultato di una mescolanza di genti e culture anche molto diverse tra loro. C’è un po’ di Europa centrale, un po’ di Balcani, un po’ di Grecia e perfino un po’ di Francia. Tutti hanno contribuito a formare questa affascinante cultura protostorica italiana. E proprio lo studio delle tombe che ci ha lasciato ci introduce al prossimo capitolo.
Omosessualità
Cari omofobi, istruiti non lo siete, fatevene una ragione! Mi sento di cominciare così, parafrasando un’espressione dal contenuto originario arretrato e anacronistico, la sezione che riguarda la pratica dell’omosessualità in seno alla cultura Picena. O meglio, la normalità di questa pratica in seno alla cultura Picena. Dal momento che sembra necessario dimostrare l’ovvio con fatti incontrovertibili, per sostenere la tesi appena esposta mi avvarrò ancora una volta di alcuni ritrovamenti archeologici.
Il primo è uno dei pezzi più belli della toreutica Picena. Si tratta di un disco-corazza frontale, ovvero un disco in bronzo che proteggeva il petto di un guerriero. È accompagnato da un secondo disco-corazza, più piccolo, destinato a proteggerne la schiena: in origine erano collegati da un sistema di cinghie, oggi scomparso, e sono entrambi accuratamente decorati a rilievo. Opera di maestranze locali, sono stati rinvenuti nella tomba 17 di Pitino di San Severino, e sono databili alla fine del VII° secolo a.C. [8].
Ci interessa la decorazione del disco frontale: questo presenta quelle fasce concentriche, perlinature e tratteggi “a denti di lupo” che sono comuni in altri dischi-corazza coevi. Tuttavia, la particolarità del disco di Pitino risiede nella raffigurazione presente nel campo centrale: alla presenza di un personaggio maschile, raffigurato nudo, itifallico e di profilo, un mostro a doppio corpo di cavallo sodomizza un nemico abbattuto, capovolto, a gambe divaricate e braccia aperte.
Come dice il dottor Landolfi, in questa scena è stata vista l’espressione di una violenta sopraffazione e prepotente aggressione, con l’umiliante sottomissione a sfondo sessuale del vinto. La dottoressa Raffaela Papi incalza: “…l’ideologia militare, nella quale entra in gioco contestualmente alla forza fisica e al valore in combattimento anche la potenza sessuale, appare enfatizzata al massimo grado nella drammatica scena sbalzata sul disco pettorale della tomba 17 di Pitino, dove il guerriero defunto, rappresentato itifallico, sembra sovrintendere, in veste di despotes hippon alla violenza esercitata sul nemico abbattuto da un mostro a doppio avancorpo di cavallo” [9].
Insomma, immaginiamoci la scena. Siamo nel seicento e qualcosa prima di Cristo. Una piana erbosa ospita due schieramenti contrapposti, con i guerrieri luccicanti di bronzo e di ferro ai raggi del sole. All’improvviso avanza un capo, agita le armi verso i nemici con gesto di sfida: al petto ha un disco imponente, che riluce come fosse d’oro. Impossibile per i nemici non notare il lugubre presagio che quel disco porta: se vi sconfiggo, questo è quello che vi farò – una minacciosa promessa di completa dominazione, di sopraffazione totale.
Il che, tornando a noi, indica chiaramente che l’omosessualità era apertamente praticata presso i Piceni, anche come strumento punitivo. Mi si controbatterà: ma non è rappresentato un atto sessuale tra due uomini! Quello attivo è un quadrupede! Già, ma la scena non raffigura certamente un atto di zoofilia: animali simili a quello raffigurato nel disco di Pitino sono rappresentati in circa 150 altri dischi-corazza, come quelli rinvenuti a Numana, Paglieta eccetera. Questo particolare quadrupede è stato identificato come una “chimera” che doveva rivestire una funzione apotropaica e profilattica, alla quale dovevano riferirsi miti e credenze religiose [10]: evidentemente poteva anche rappresentare la potenza del guerriero, ben esemplificata nella decorazione del disco di Pitino.
Altri tipi di animali, come felini ed uccelli, trovano posto in dischi-corazza leggermente più antichi, a riprova che il pantheon faunistico Piceno era nutrito e variegato [11]. Se una rappresentazione tanto esplicita non fosse sufficiente a dimostrare la pratica dell’omosessualità presso i Piceni, possiamo forse averne altre testimonianze in un altro tipo di record archeologici: le deposizioni dei defunti. Tra l’VIII e il VII secolo i Piceni prendono l’abitudine di seppellire più di un morto nella stessa fossa: danno così luogo a quelle che oggi chiamiamo tombe bisome, se dentro ci sono due defunti, trisome se ce ne sono tre, o plurime nel caso in cui i sepolti siano più di tre [12].
Esempi di tombe Picene con più di un defunto sono la 5 di Numana, in cui furono sepolte due donne, la 57 di Novilara, la 4 di Capo delle Vigne, le 174 e 176 dell’area Quagliotti di Numana, la VIII di Campodonico di Numana, la tomba con sei defunti rinvenuta a contrada Mossa (FM) ed infine la tomba 14, trisoma, dell’ex fondo Fabiani (Sirolo-Numana) e la tomba bisoma di via Trento e Trieste ad Ascoli Piceno. A interessarci sono soprattutto le tombe 5 di Numana, la 14 dell’ex fondo Fabiani e quella di Ascoli Piceno. Questo perché i defunti qui deposti erano tutti dello stesso sesso: due donne nella 5, tre maschi nella 14 e due maschi nella tomba Ascolana.
Per quanto riguarda le sepolture maschili, è interessante notare che tutti i cinque inumati sono stati seppelliti, tra le altre cose, con delle armi, particolare che li denota come guerrieri. Ora, è rilevante che queste tombe siano datate in piena Età orientalizzante: come detto, dal vicino Oriente e dalla Grecia giunsero nel Piceno usi e costumi diversi, che influenzarono la cultura locale. Tra questi potrebbe esserci stato quel particolare tipo di relazione pederastica più tardi descritta da Platone a proposito degli eromeni, ovvero quei ragazzi che “…amano gli uomini e si divertono vivendo con gli uomini ed essendo abbracciati da uomini”.
Siamo nel campo dell’erotopedagogia propugnata dal filosofo Greco e standardizzata da Kenneth Dover nel suo saggio “Greek homosexuality” [13]. E sebbene non vi siano prove concrete che i defunti delle tombe di Sirolo-Numana ed Ascoli Piceno siano stati amanti, d’altro canto possiamo fare parallelismi con tombe bisome di altre culture, per gli inumati delle quali è stata proposta una relazione intima.
Penso, a esempio, alla cosiddetta “Tomba degli sposi” della Necropoli E della colonia Greca di Himera, in Sicilia, nella quale i due defunti maschi sono stati deposti in una posizione che pare suggerire un legame amoroso in vita ben più duraturo ed intimo del fugace rapporto tra erastès e eromenos, come starebbe a testimoniare anche l’età matura di ciascun inumato [14].
Un altro esempio, benchè non pertinente all’epoca di cui ci stiamo occupando, è quello degli Amanti di Modena: due uomini di circa trent’anni, vissuti nel capoluogo Emiliano in età tardoantica e sepolti mano nella mano. Dopo aver scomodato perfino Platone, direi che l’argomento della normalità dei rapporti omosessuali nella nostra Età del Ferro sia stato abbastanza discusso. E proprio il terribile quadrupede sodomizzatore del disco di Pitino mi è utile per introdurre il prossimo.
Paganesimo
È quasi scontato parlare di paganesimo in relazione a una cultura che nasce e fiorisce molti secoli prima della nascita di Gesù. Effettivamente, da quando la civiltà Picena comincia a formarsi a quando il Cristianesimo diventa religione ufficiale dei Romani passano milleduecento, milletrecento anni! Nel frattempo il mondo cambia, ma da un punto di vista antropologico è affascinante notare come esistano dei sottili fili rossi che congiungono il Cristianesimo, anche quello moderno, a quegli antichissimi tempi remoti.
Vi siete mai soffermati a pensare come mai il Cristianesimo sia una delle poche religioni monoteiste ad aver avuto la necessità di assegnare a una donna, Maria, un’importanza fondamentale? I primi predicatori Cristiani avevano la necessità di rendere comprensibile la nuova religione a persone abituate a venerare un gran numero di dèi e dee. Dare a Maria un ruolo primario consentiva ai predicatori di far meglio accettare il Verbo a gente i cui padri e nonni avevano venerato una Venere, una Diana.
A pensarci bene non è una pratica così inusuale: nell’alto medioevo i Longobardi accettarono volentieri la figura di San Michele Arcangelo, il santo guerriero, che tanto gli ricordava l’Odino venerato dai loro antenati. E, per quanto riguarda le Marche, gli stessi Romani ebbero buon gioco a far accettare il culto delle loro dee ad una cultura, quella Picena, della cui religiosità sappiamo ben poco se non che venerassero in particolare una figura femminile, Cupra, la cosiddetta Bona Dea.
Vogliamo spingerci ancora più indietro? Che cosa poteva essere la Bona Dea se non la reminiscenza di culti ancora più antichi, nei quali forse si metteva la donna al centro di una religiosità incentrata sulla fertilità? Ma sto anticipando particolari che sarà più appropriato approfondire nel prossimo capitolo: torniamo al paganesimo Piceno.
Ne sappiamo ben poco, abbiamo numerosissime attestazioni archeologiche ma scarse informazioni letterarie. Silio Italico, per esempio, nelle sue “Puniche” ci informa che sui litorali Piceni ardevano gli altari dedicati alla dea Cupra (ancora lei!), ed un santuario trovato a Colfiorito le venne attribuito negli anni ’60 [15]. Per quanto riguarda i reperti archeologici, abbiamo decine di figurine votive in bronzo e terracotta che rappresentano guerrieri, figure femminili, vasi ed animali: sono state trovate ovunque, sia negli abitati che nei sepolcreti, seppur con diverse caratterizzazioni a seconda del contesto.
Proprio i contesti di rinvenimento di questi reperti possono aiutarci a formulare delle ipotesi sulla religiosità dei Piceni. Alcuni bronzetti, ad esempio, sono stati rinvenuti in santuari montani tanto impervi da essere stati identificati come esclusivi luoghi di culto. Numerosi altri depositi votivi, inoltre, sono stati rinvenuti presso sorgenti o sponde di fiumi e torrenti, suggerendo un qualche tipo di pratica religiosa in connessione con le acque, come del resto sembrano suggerire anche le incisioni rupestri del Monte Conero (nelle quali un probabile simbolo sessuale femminile è associato a delle canalette e pozzetti per la raccolta di liquidi). Infine, un deposito votivo rinvenuto in località Sant’Andrea, a Cupra Marittima, era collocato giusto nel punto di passaggio obbligato fra l’insediamento e la sua necropoli [16].
Sempre all’area di Cupra rimanda una particolare classe di reperti archeologici: gli anelloni di bronzo a quattro o sei nodi. Si tratta di grossi anelli costituiti da verghe piene con quattro o sei protuberanze; tipici delle necropoli di area Cuprense essi erano deposti in tombe femminili particolarmente ricche. Il loro uso ci sfugge: sappiamo che, nella maggioranza dei casi, furono deposti sopra il bacino della defunta, a parte un paio di casi in cui vennero sepolti in posizioni diverse. Questa caratteristica porta ad ipotizzare un valore magico-religioso per questa classe di oggetti, valore che forse rifletteva un ruolo sacerdotale delle loro proprietarie [17].
Infine, volendo leggere il mito fondante dei Piceni come espressione della loro religiosità, non possiamo non citare il fatto che, secondo la leggenda, i Piceni giunsero nelle Marche dalla Sabina a seguito del ver sacrum. Questa era una pratica religiosa piuttosto comune fra le popolazioni protostoriche e prevedeva che, in caso di sovrappopolamento, una parte degli abitanti di un luogo migrasse verso nuove terre. A quanto pare i futuri Piceni scelsero di farlo seguendo un picchio, che finì per portarli nelle Marche, della cui Regione non a caso è diventato il simbolo.
Allo stato attuale delle ricerche non è possibile presentare informazioni più dettagliate o specifiche di queste. Da quanto sappiamo, dunque, si ricava il quadro di una società molto religiosa, praticante un credo rivolto alla venerazione tanto di luoghi simbolici (le alture, i corsi d’acqua) quanto di particolari figure (i guerrieri, le donne e gli animali, anche fantastici).
E la particolare attenzione rivolta al femminile in veste sacra non è solo desumibile da qualche figurina di bronzo: esamineremo ora i casi di vere e proprie principesse Picene che hanno saputo ritagliarsi un ruolo di primissimo piano in questa antica società.
Parità di genere
Ora, i Piceni certamente non avevano idea di cosa significasse “parità di genere”. Ma, a quanto ci è dato di dedurre basandoci su alcune tombe ricchissime, la praticavano eccome! Abbiamo visto come il sesso femminile avesse un ruolo tutto suo nella religiosità Picena, della quale pure ci sfuggono molte caratteristiche. Abbiamo anche accennato alla particolarità di alcune tombe femminili di Cupra, i ricchi corredi delle cui inumate ci inducono a pensare che esse, in vita, facessero parte di una particolare casta sacerdotale.
Da tutto questo si ricava un’impressione preliminare inconfutabile: e cioè che alcune donne Picene abbiano avuto, in vita, ruoli importanti tanto quanto quelli dei più importanti uomini Piceni. Questa impressione viene rafforzata quando andiamo a confrontare alcune particolari tombe femminili. La prima tra queste, per popolarità e ricchezza del corredo, è senz’altro la tomba della cosiddetta Regina di Sirolo. Si tratta di una tomba monumentale nella quale la defunta venne inumata insieme ad un corredo ricchissimo, comprendente addirittura due carri, ed è databile al VI secolo a.C.
Già solo l’imponenza della struttura tombale testimonia chiaramente l’altissimo rango della defunta: essa venne infatti deposta all’interno di un’area funeraria di oltre 40 metri di diametro, delimitata da un fossato anulare largo 4 metri e profondo 1,80. Un vero e proprio tumulo sepolcrale che non a caso è la più grande tomba gentilizia dell’intera necropoli “I Pini” di Sirolo-Numana [18], nonché uno tra i contesti funerari più famosi e rappresentativi del Piceno ed una delle tombe di VI° secolo più ricche d’Europa [19]. Oltre alla monumentalità della tomba, stupisce l’esorbitante ricchezza del corredo funerario. Questo è composto, oltre che dai già citati due carri, da due mule e da decine di oggetti preziosissimi, come vasi in bronzo, argento e terracotta decorata, gioielli in metallo impreziositi da grossi pezzi d’ambra e d’avorio scolpiti, pendagli di tutti i tipi e perfino esclusivi accessori per l’abbigliamento, come sandali e cinture di fattura esotica.
Sono poche le tombe Picene maschili che possono rivaleggiare in ricchezza con quella della Regina di Sirolo: segno che questa donna, in vita, dev’essere stata un personaggio di altissimo rango, senz’altro insignita di un ruolo sociale che la metteva alla pari dei più ricchi uomini suoi contemporanei. E, suggestione personale, forse non è un caso che questa donna ricchissima abbia prosperato all’ombra del Conero, montagna sacra che sia l’archeologia, sia alcune tradizioni orali e toponomastiche ci suggeriscono legata a qualche tipo di culto religioso che legava assieme l’acqua e la fertilità femminile.
La tomba della Regina, però, non è l’unica sepoltura femminile Picena degna di nota: si pensi alle tombe di Matelica, le cui inumate sono state sepolte con preziosi monili d’ambra e simbolici oggetti per il banchetto, nonché con carri e con interi corredi vascolari sia ceramici che metallici. Proprio grazie alla ricchezza di questi corredi è stato possibile ipotizzare una partecipazione attiva delle donne Picene ai vari rituali del banchetto, partecipazione che in altri contesti era del tutto negata alle donne [20].
Altre tombe femminili molto ricche provengono da pressoché tutte le necropoli Picene finora indagate: segno che, se è vero che il funerale di una persona è sempre stata un’occasione per ribadire l’importanza del defunto e della sua famiglia di fronte alla comunità riunita, nella società Picena alle donne era consentito accumulare e ostentare ricchezze, al pari degli uomini. Ciò che induce a pensare che la società Picena vedesse una divisione piuttosto schematizzata dei ruoli maschili da quelli femminili: guerrieri e artigiani i maschi; forse sacerdotesse e dedite alla conduzione della casa le femmine. A fronte di questo, però, sorprende che la considerazione in cui venivano tenute le donne fosse senz’altro pari a quella di cui godevano gli uomini: una parità nient’affatto scontata per quei tempi remoti, e del resto ancora difficile da raggiungere pienamente ancor oggi.
Penso di aver condensato in poche pagine una velocissima galoppata tra alcune caratteristiche della cultura Picena. L’argomento è vastissimo e merita studi più approfonditi, per i quali rimando all’essenziale bibliografia indicata nelle note. Quel che mi premeva di sottolineare è che, circa duemilacinquecento anni fa, è vissuto in Europa un popolo in cui gli omosessuali non erano visti con disprezzo e in cui le donne avevano le stesse possibilità degli uomini di arricchirsi e occupare posizioni sociali rilevanti. Una società influenzabile da usi e costumi esterni, aperta ai contatti culturali e pronta ad assimilare i caratteri più rilevanti di culture lontane. Una società talmente fiera delle proprie origini da rivendicare e tramandare con orgoglio la provenienza estera dei suoi antenati, come dimostra la tradizione del ver sacrum. E la cultura Picena non è che una goccia nel mare infinito di correnti culturali ed etnie che, nel corso e ricorso dei millenni, hanno posto le radici per l’Europa in cui viviamo oggi.
Viene quindi da chiedersi perché, e a che titolo, pretendere di decidere per tutti che l’Europa sia “nata romana e cristiana”. Perché non siciliana e musulmana? Perché non ostrogota e animista? Perché non picena e pagana? Prima di fare certe sparate, varrebbe forse la pena di studiare più approfonditamente la meravigliosa storia della nostra Europa: si conoscerebbero mondi e popoli lontanissimi che, però, hanno tutti contribuito a farla diventare quello che è oggi. E alla fine si capirebbe che le radici Europee affondano in un mosaico di culture, religioni ed etnie diversissime tra loro. È sempre stata questa, la forza dell’Europa.
Mauro Fiorentini, archeologo e storico, Anpi Ancona
NOTE
[1] A. Coppa, “Analisi antropologiche su resti scheletrici umani a cultura Picena”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp 9-10.
[2] F. Macerola, “Considerazioni sugli aspetti formativi della cultura picena nella prima età del Ferro”, in “Archeologia Picena”, atti del convegno, Edizioni Quasar, Gorgonzola (MI) 2022, pp. 57-71.
[3] P. Von Eles, “Verucchio e il Piceno”, in “I Piceni e la loro riscoperta tra Settecento e Novecento”, QuattroVenti, Urbino 2008, pp. 201-234.
[4] N. Lucentini, “Ascoli prima dei Romani”, in “Storia di Ascoli dai Piceni all’epoca romana”, Edizioni Lìbrati, Ascoli Piceno 2014, pp. 39-81.
[5] V. Kruta, “I Senoni nel Piceno”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp 174-176.
[6] T. Sabbatini, “L’oplita del tumulo 1 in località Santa Maria in Campo”, in “Potere e splendore – Gli antichi Piceni a Matelica”, “L’Erma” di Bretschneider, Torino 2008, pp. 129-132.
[7] A. Naso, “Per una storia della cultura picena”, in “Il prestigio oltre la morte – Le necropoli picene di Contrada Cugnolo a Torre di Palme”, AndreaLivi Editore, Fermo 2018, pp. 31-37.
[8] M. Landolfi, “Coppia di dischi”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 253 figg. 447-448.
[9] R. Papi, “I dischi-corazza”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 120-122.
[10] R. Papi, “I dischi-corazza”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 120-122.
[11] E. Mangani, “Disco corazza”; M. Landolfi, “Coppia di dischi”; R. Papi, “Coppia di dischi”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 252-253, figg. 441, 442, 443-444, 445-446.
[12] M. Natalucci, “La necropoli Davanzali di Numana (AN). Studio di un lotto di sepolture e analisi della ceramica a vernice nera della necropoli”. Tesi di dottorato, Università “Sapienza” di Roma, ciclo XXXIV.
[13] K. J. Dover, “Greek homosexuality”, Bloomsbury USA Academic, 2016.
[14] S. Viva, N. Lonoce, P. F. Fabbri, “Sepolture bisome dalle necropoli della colonia greca di Himera: interpretazione e analisi demografica”, in “Studi in onore di Stefano Vassallo”, Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, Palermo 2020.
[15] G. Baldelli, “I luoghi di culto”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 86-87.
[16] V. nota 15.
[17] N. Lucentini, “L’ornamentum personale e l’instrumentum domestico”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 122-130.
[18] M. Landolfi, “La tomba della Regina nella necropoli picena “I Pini” di Sirolo-Numana”, in “Eroi e Regine – Piceni popolo d’Europa”, Edizioni De Luca, Roma 2001, pp. 350-365.
[19] G. Bardelli, F. Milazzo, I. A. Vollmer, “La Tomba della Regina di Sirolo. Ricerca e restauro a trent’anni dalla scoperta”, in “Archeologia Picena – Atti del convegno internazionale”, Vol. II, Edizioni Quasar, Gorgonzola 2022, pp. 415-434.
[20] A. Coen, “La principessa della tomba 1 in località Passo Gabella a Matelica – Il banchetto aristocratico e il ruolo della donna”, in “Potere e splendore – Gli antichi Piceni a Matelica”, “L’Erma” di Bretschneider, Torino 2008, pp. 159-165.
Pubblicato domenica 5 Maggio 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/finestre/alla-ricerca-delle-origini-multiculturali-delleuropa-il-caso-dei-piceni/