Se le leggi razziste del 1938, volute dal fascismo – è bene ricordare che più volte Mussolini aveva stigmatizzato la fobia antiebraica di Hitler – e non per pressione nazista e firmate da Vittorio Emanuele III, re d’Italia e imperatore, furono il grande tradimento nei confronti dei nostri concittadini ebrei, furono anche radici di quanto portò poi al loro rastrellamento a Roma il 16 ottobre 1943. E a quanto tragicamente dovettero subire fino alla Liberazione. Nell’indifferenza la vita degli ebrei era diventata sempre più difficile, spesso drammatica tra privazioni di ogni genere, dalla perdita del lavoro, alla proibizione a frequentare le scuole pubbliche, all’espulsione, in poche parole, dalla società e alla perdita dei più elementari diritti civili.
Italiani sì, ma di quale categoria? Eppure nessuno ebreo, anche se pessimista, poteva pensare a ciò cui si sarebbe arrivati. Non potevano conoscere le parole che Mussolini ebbe a rivolgere a Ciano durante il Gran Consiglio del 6 ottobre 1938: “Ora l’antisemitismo è inoculato nel sangue degli Italiani. Continuerà da solo a circolare e a svilupparsi”. Con l’infierire della guerra e delle vittorie e occupazioni naziste, certamente a Roma – e non solo nella capitale – qualche notizia su quanto stava accadendo agli ebrei dell’Europa dell’Est, in particolare, era arrivata. Ma si trattava di notizie e racconti cui era impossibile dare credito, tale la loro drammaticità. D’altro canto c’era una guerra in corso e si sa che guerra e violenze e brutalità sono inscindibili. Inoltre mai gli italiani sarebbero stati capaci di essere come i tedeschi, mai molto amati, né l’avrebbero voluto. Non fu così. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e essersi di fatto impadroniti di Roma, da Berlino arrivò alla Gestapo e ai Servizi di sicurezza nazisti l’ordine perentorio di deportare gli 8.000 ebrei della Comunità romana, la più antica tra quelle della diaspora. Comunità ben inserita nella vita sociale e culturale della città e dell’intero Paese da secoli. Nonostante la lunga ghettizzazione, iniziata per volere papale nel 1555 e terminata nel 1870.
Di fronte a difficoltà poste da Herbert Kappler, da Berlino venne inviato a Roma l’SS Theo Dannecker, uno specialista di rastrellamenti e deportazione di ebrei che organizzò quella che conosciamo come “la razzia del ghetto”. In attesa del suo arrivo e della messa in atto del rastrellamento, vennero totalmente saccheggiate le Biblioteche del Collegio Rabbinico e della Comunità e fu perpetrato l’inganno dei 50 chili d’oro consegnato a Kappler. Furono poi gli abitanti dell’antico ghetto romano che pagarono il più alto prezzo della barbarie nazista. Ma tutta Roma, divisa da Dannecker in 26 zone d’azione, venne colpita, a partire dalle 5,30 del mattino. Gli furono di particolare utilità gli elenchi nominativi degli ebrei romani, preparati dal commissario della Questura Gennaro Cappa.
Per ricordare quanto misero in atto gli uomini del Kommando giunto dalla Germania, dagli uomini di 3 compagnie di polizia di sicurezza e da due di polizia, con la voluta esclusione di poliziotti italiani per mancanza di fiducia, vado alle parole di Settimia Spizzichino, l’unica donna tornata dal lager (Auschwitz e Bergen-Belsen) delle circa 600 che vennero catturate e deportate: “Il 16 ottobre, all’alba, ci stavamo svegliando tutti. Bisognava alzarsi presto per mettersi in fila per trovare da mangiare, o le sigarette o qualunque cosa. C’era un gran silenzio per le strade, perché con il coprifuoco non si poteva uscire […] Sentimmo passare dei camion e poi dei passi pesanti, passi militari. Pensammo a delle esercitazioni. Non sapevamo che stavano circondando il ghetto. All’improvviso la piazza esplose. Sentimmo ordini in tedesco, grida, imprecazioni. Ci affacciammo alla finestra. Vedemmo i soldati tedeschi che spingevano la gente fuori dalle case e l’avviavano in lunghe file verso il Portico d’Ottavia. “Prendono gli ebrei” sussurrò mio padre”. Così iniziò “la razzia”. Gli ebrei del ghetto e tutti quelli catturati nella città vennero portati a Palazzo Salviati, sede del Collegio Militare in via della Lungara. Dopo una prima selezione, 1.019 ebrei, donne, bambini (273), uomini, giovani e vecchi, malati, il 18 ottobre vennero portati alla stazione Tiburtina e, caricati disumanamente in 28 in vagoni piombati, partirono per una destinazione ignota che scopriranno chiamarsi Auschwitz-Birkenau. La vittima più piccola era il figlio di Marcella Perugia, nato il giorno prima della partenza e la più anziana Rachele Livoli di 90 anni. All’arrivo solo 149 uomini e 47 donne entreranno nel campo. Tutti gli altri immediatamente al gas. Solo 15 uomini troneranno a Roma. Nessun bambino. Dopo la azione antiebraica del 16 ottobre, altri ebrei romani vennero deportati. In totale 1.753, di cui 743 donne e 281 bambini.
Portato a termine il suo compito romano, Dannecker organizzò i rastrellamenti di ebrei a Firenze, Montecatini Terme, Siena, Bologna, Milano, Torino e Genova. Sempre con la collaborazione italiana. Il “tradimento” iniziato nel 1938 fu ulteriormente e definitivamente aggravato con il punto 7 della carta costitutiva della RSI che dichiarava: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica” e con la circolare n° 5 del ministro dell’interno Buffarini-Guidi che, in data 30 novembre 1943, ordinava che gli ebrei “siano per intanto concentrati in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati”. Da quel momento i tedeschi affideranno ai fascisti e soprattutto alle loro bande il compito di scovare, arrestare gli ebrei e consegnarli a loro per la deportazione e lo sterminio. Veri e propri cani da caccia, molto interessati ai beni ebraici e ai generosi compensi elargiti loro dai camerati occupanti.
Aldo Pavia, vice presidente nazionale ANED
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2020
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