Domenica scorsa, 5 luglio, l’Anpi del territorio genovese ha voluto ricordare l’eccidio di Passo Mezzano sull’Appennino ligure-piemontese. Quest’anno, infatti, per il lockdown dettato dall’emergenza Covid 19, in primavera non si era potuto commemorare, come sempre abbiamo fatto in passato, quanto accadde su quelle montagne. Così, non appena la situazione sanitaria lo ha permesso, con un tam tam sul web e il passaparola, ci siamo ritrovati, seppure in forma ridotta (neanche tanto) lassù.
Molti sono saliti a piedi dal comune di Campomorone per rendere omaggio ai fucilati, il sindaco Giancarlo Campora, in testa. Dopo decenni abbiamo voluto offrire un tributo anche al primo monumento realizzato nel 1946, proprio in cima al monte (arrivarvi è molto difficile e faticoso) e pure al monumento più recente sorto nel punto dove don Gallo ha spesso detto messa.
L’eccidio di Passo Mezzano fu parte di un’operazione più ampia, morirono in 147 e 400 furono i deportati a Mauthausen, da cui in tantissimi non fecero ritorno. Una carneficina legata alla strage della Benedicta. Erano i giorni della Pasqua 1944.
E questa è la storia che insieme abbiamo rivissuto.
Avevano cominciato da zero, forti solo dei loro ideali e della loro esperienza, vivendo in un mondo contadino, da sempre povero, abbandonato e spopolato dalle guerre fasciste e dalla miseria.
I contadini sapevano che, ospitare i ribelli, aiutarli o assisterli, in qualsiasi modo, poteva significare la deportazione, la perdita della casa e dei pochi averi, se non della vita stessa.
Cosi è stato in tante località della VI zona operativa, come a Barbagelata o a Cravasco, con l’incendio di case e cascine. Erano casolari di pietra grigia, illuminati da lampade ad olio, il calore del ceppo in un camino e le cucine affumicate con travi annerite e consunte. Case con piccoli prati, spesso coltivati a terrazze, con muri a secco. Si seminava ogni genere di cultura, solo che ne venivano quantità modeste, che non copriva il fabbisogno delle famiglie.
Le poche “fasce” con tanta fatica erano da secoli a grano. A mezza estate, con lo scarso raccolto i capifamiglia scendevano ai mulini del fondovalle e si riportavano a casa uno o due sacchi di farina; il resto lo vendevano, e si compravano le scarpe per loro, le mogli e i figli. Perché d’estate si poteva anche andare per le strade a piedi nudi ma non al pascolo, a causa delle vipere. Nelle altre stagioni le scarpe erano il pensiero costante dell’economia familiare: i vestiti duravano tanti anni, le scarpe no.
Erano comunità con miseria e fatiche da sempre, però con una grande dignità e proprio per questo non potevano che schierarsi, con la loro gente, respirando in pieno il vento di speranza per una nuova Italia che portava la lotta per la libertà. Un vento che nasceva anche tra queste montagne.
Quello che colpiva i ribelli di oltre 70 anni fa, me lo hanno raccontato in diversi, era il silenzio e la luminosità delle albe e quel colore incandescente dei tramonti. Io penso sempre al monte Tobbio.
Con la primavera ’44, le bande avevano ripreso i contatti con le città e tra formazioni diverse, erano più organizzate. Nella zona c’erano la Brigata Autonoma “Alessandria” con oltre 200 uomini; la 3ª Brigata d’assalto “Garibaldi” , divisa in sette distaccamenti, poco più di 700 ribelli in tutto.
Ai nazifascisti preoccupava quella forza partigiana che minacciava le vie di comunicazione. Decisero così di spazzarla via, pur sapendo che molti ribelli erano male armati e privi di istruzione militare. Un grande rastrellamento per eliminare ogni resistenza nella zona e per terrorizzare le popolazioni, quei partigiani erano un esempio pericoloso per altri.
L’attacco scattò con migliaia di uomini dotati di armi automatiche, lanciafiamme, autoblindo, una batteria da campagna e un aereo da ricognizione che segnalava dall’alto i movimenti partigiani.
Il giovedì Santo, 6 aprile, già dal mattino cominciava l’azione militare e nella notte si dava la caccia ai partigiani tra i monti.
I nazifascisti (preponderanti erano i tedeschi, ma le brigate nere e i bersaglieri parteciparono in forze) circondarono la Benedicta e le altre cascine dove erano dislocati i distaccamenti, colpendo duramente quei giovani, impossibilitati a difendersi adeguatamente.
Il rastrellamento proseguì per tutto il giorno e nella notte successiva.
Molti ribelli riuscirono a sganciarsi ma, per la violenza dell’urto e la velocità dell’azione, per centinaia di loro non ci fu via di scampo.
Ecco chi erano quelle persone tanto giovani i cui nomi sono incisi sul monumento: Ettore Binci 20 anni di Rivarolo, operaio dell’Ansaldo di Campi, già nei Gap con diverse azioni di sabotaggio in Val Polcevera; Giovanni Campora 19 anni di Campomorone, operaio Ansaldo; Primo Cavallieri, 19 anni, di Campomorone; Serafino Dellepiane, 19 anni, di Pontedecimo, Croce al Merito di Guerra; Giovanni Dellepiane, 21 anni, fratello di Giovanni, Croce al Merito di Guerra; Amerigo Frediani, 19 anni, di Campomorone, Croce al Merito di Guerra; Giuseppe Gastaldo, 21 anni, di Tagliolo; Rizzardo Giuliani, 40 anni, di Sampierdarena; Elio Grondona, 19 anni, di Pontedecimo, Croce al Merito di Guerra; Liliano Giordano, 20 anni, di Rivarolo; Nicola Leone, 38 anni, di Foggia, comandante distaccamento, già capitano di complemento; Carlo Ponschin, 38 anni, operaio meccanico a Chiavari, svolgeva funzioni di collegamento fra la montagna e la città; Andrea Prasio, 35 anni, operaio Ansaldo; Giacomo Rivera, 19 anni, di Campomorone, era in montagna da appena 12 giorni; Battista Trucco, 19 anni, di Campomorone. Insieme a loro morirono altri 4, rimasti ignoti, due erano carabinieri.
Erano tutti del V distaccamento della III Brigata Garibaldi Liguria, composto da 80 uomini perché avevano aggregato anche altri ribelli nel tentativo di sganciarsi e mettersi in salvo in quella Pasqua di sangue del ’44. Li comandava il tenente Emilio Casalini “Cini”.
Era la notte fra il 6 e il 7 aprile l’operazione pareva riuscire e la loro salvezza sembrava essere ormai vicina. Verso le 22, c’è una calma apparente, quando vicino a una chiesetta e a quel passo montano, vedono le sagome delle autoblindo tedesche.
Cercano di sgusciare via, strisciando carponi, ma si dirada la nebbia e di colpo il chiaro della luna rende quasi giorno il buio della notte. Cadono nell’imboscata nazifascista, si scatena l’inferno e reagiscono con la forza della disperazione, infliggendo anche perdite al nemico, però sono male armati e scarsi di munizioni. Non hanno mitragliere pesanti, né mortai. I tedeschi li falciano con un volume di fuoco enorme. Qualcuno cade subito colpito a morte, altri sono feriti gravemente, strazieranno in quella notte di luna con le loro sofferenze.
I carnefici, privi di scrupoli e di rimorsi, portavano sul cinturone o sulla manica la scritta: “Gott mit uns” (Dio è con noi): quel motto ne giustificava ogni violenza e crudeltà. Torneranno dove hanno ucciso il mattino dopo alle 7, finendo la loro opera, prima massacrando chi ancora respira e poi lasciando lì quei poveri corpi, come fossero carogne di animali.
Ma non bastò tanto orrore: i cadaveri verranno trovati imbottiti di piombo o squarciati dalle bombe a mano lanciate non da tedeschi e i fascisti che erano con loro; qualcun altro aveva gli arti inferiori bruciati dai lanciafiamme. Evidentemente ne ha avevano fatto bersagli da tiro a segno.
La tragedia del V distaccamento non finisce lì.
Una parte dei partigiani sono arrestati e successivamente uccisi: Giulio Cannoni, condotto a Marassi, dove sarà sottoposto a terribili violenze e sarà fucilato al passo del Turchino con altri 42 ribelli il 19 maggio 1944.
II comandante Casalini è portato a Masone, Campomorone, Crocefieschi e Voltaggio. I tedeschi vogliono pubblicizzare la sua cattura e lui li accontenta: dovunque passano, Casalini si alza in piedi, rigido sulla macchina che lo trasporta, salutando tutti col pugno chiuso.
Dopo un processo farsa, è condannato a morte ed è ancor più provato perché lo hanno sbeffeggiato, quando si è offerto di prendere il posto dei suoi ragazzi. Sarà ucciso il giorno 8 aprile con altri 7 a Voltaggio. A monsignor Zuccarino che lo vede per ultimo dice che è orgoglioso di morire per l’Italia libera.
La sua era una famiglia davvero partigiana: il padre Giovanni “Silvio” era nella Sap Guglielmetti;
il fratello Lino “Ettore” era vice comandante della Brigata Sap Rissotto, verrà ferito gravemente in combattimento all’inizio dell’insurrezione a Pontedecimo il 23 aprile ’45.
E l’altro fratello, Cesare “Aida”, è stato commissario di Brigata nel 3° e nel 5° distaccamento.
A Cesare Casalini e agli altri è dedicata la canzone “I ribelli della montagna”. L’ho conosciuto bene, Cesare; era un amico di mio padre e io un bambino, e sono stati io ad accompagnarlo, a Staglieno, nel suo ultimo viaggio. Cesare dopo la guerra è stato un dirigente sindacale Cgil, prima nella categoria dei tranvieri e poi nella Confederazione. Era un dirigente dell’Anpi Genova.
Dicevo che gli eccidi erano parte di un’operazione più ampia. Ci fu in contemporanea una terribile azione di rappresaglia nei confronti delle popolazioni della zona che fu investita da quella ventata di terrore e violenza. Furono prelevati ostaggi, devastate e incendiate le cascine del territorio interessato al rastrellamento, razziato il bestiame.
L’azione della Benedicta, però, ebbe l’effetto contrario di quello voluto.
I mesi successivi alla strage segneranno infatti la graduale riscossa del fronte partigiano, i giovani che chiederanno di entrare nelle bande invece di diminuire aumenteranno; molte volte saranno gli stessi sopravvissuti alle stragi gli artefici della ripresa e le nuove formazioni porteranno il nome di un Caduto.
Uomini e donne di estrazioni diverse ma davvero straordinari. Uomini e donne che con il loro comportamento hanno riempito di speranza quei giorni bui, pieni di violenza e al contempo colmi di gesti di solidarietà.
Il merito della Resistenza e di quegli uomini, è aver aperto finalmente le porte alla politica nel senso moderno, nel senso della democrazia, con la lotta popolare di ogni giorno, con la partecipazione volontaria della gente di ogni ceto e credo politico e di ogni sesso.
Su questo abbiamo riflettuto sui monti domenica scorsa. Oggi, uno dei nostri compiti fondamentali è ricordare a tutti, perché l’impressione forte è che, anche per gli appuntamenti sociali o politici vicini e importanti, si stia dimenticando la più alta lezione trasmessa dai partigiani: saper fare unità.
I partigiani la seppero costruire ogni giorno, con tutti coloro che combattevano il fascismo e il nazismo, al di là della loro tradizione politica e della loro condizione sociale, o insieme a quanti neppure avevano una precisa idea politica; che fossero comunisti, cattolici, liberali, socialisti, monarchici e quant’altro.
E oggi dobbiamo ripartire da quell’insegnamento da quell’esempio.
E sta proprio in quell’unità la carta vincente di quella lotta che fu veramente lotta di popolo non di una parte del popolo.
Questa pratica di dialogo, di unità sostanziale, di obiettivi comuni da condividere e perseguire, è stata sperimentata, oltre che nella lotta partigiana, nel lavoro Costituente.
Uomini e donne, espressione della Resistenza, hanno sognato il futuro del nostro Paese, e quei sogni li hanno trasformati in articoli. Erano donne e uomini, che anche dopo la guerra formarono nel cuore e nella mente le coscienze di tante generazioni. È stata questa la carta vincente che ci ha fatto attraversare e superare i momenti difficili e gravi che ha vissuto più volte la nostra democrazia
Oggi di fronte a un nuovo scenario, vediamo, in Europa e in Italia, un cielo denso di nubi nere e autoritarie. Si diffondono i virus della violenza con episodi intimidatori e violenti che fanno perno sulla discriminazione e sull’odio verso chi è bollato come diverso. Ben sapendo che la crisi economica ha indebolito i principi d’uguaglianza, libertà e democrazia, previsti dalla nostra Costituzione.
Tutto si lega: una profonda crisi economica mondiale, una crisi ricorrente di democrazia, il ritorno di varie forme di autoritarismo, lo sviluppo – in molti Paesi – di un liberismo sfrenato, ovunque la tendenza al predominio dell’economia sulle ragioni del diritto e dei diritti.
Per questo su quei monti, domenica scorsa, abbiamo ribadito che è urgente uscire dalla crisi, ma il “come” è fondamentale.
Perché ripresa significa sviluppo dell’economia; impiego programmato ed equo delle risorse; riduzione delle disuguaglianze; lotta alla povertà; allargamento dell’occupazione; non fittizia o ipotetica, ma verso una direzione reale e concreta; vuol dire lavoro sicuro e dignitoso. Altrimenti c’é la prevalenza dell’economia sul diritto e crescono le disuguaglianze sociali.
Ed è per questo che a Passo Mezzano abbiamo voluto ricordare don Gallo, in uno dei luoghi dove ha detto messa tante volte. Don Gallo è stato un grande uomo, stupenda sintesi del sacerdote portatore della parola di Dio, e insieme difensore dei valori della Resistenza contenuti e affermati nella Costituzione della Repubblica Italiana. Iscritto all’Anpi, non ha mai rinunciato a legare il messaggio del Vangelo con gli articoli espressi nella Carta fondamentale della Repubblica. Lo ricordo bene, proprio a Passo Mezzano, sottolineare che le ingiustizie non sono finite il 25 aprile 1945, ma sono proseguite: dall’America latina alla scuola Diaz o alla caserma di Bolzaneto col G8; dall’Africa a Scampia; dalla Thyssen, dove sette operai sono bruciati vivi, ai barconi affondati nel canale di Sicilia. E credo che oggi aggiungerebbe la Turchia, la Siria e il Kurdistan, e tanti altri luoghi, come la Palestina, l’Egitto per la morte di Giulio Regeni, o in Libia dove un massacro di migliaia di uomini e donne e bambini sembra sconosciuto all’umanità, che pare far finta di non vedere e ipocritamente gira la testa di lato; oppure nel Mar Mediterraneo, divenuto la tomba di uomini, donne, bambini in cerca di una vita migliore.
Gallo, partigiano della Costituzione, ci spronava a viverla come uno straordinario programma per costruire un domani migliore. Ci diceva spesso di averla vista nascere e, quasi urlando, diceva: “Non me la fate vedere morire!”. Così a Passo Mezzano abbiamo voluto rilanciare un impegno: se stati capaci di difendere la Carta e continueremo a farlo, oggi più che mai, lotteremo anche per farla applicare. Anche così renderemo omaggio ai nostri Caduti a Passo Mezzano.
Massimo Bisca, Comitato nazionale Anpi, presidente Comitato provinciale Genova
Pubblicato martedì 7 Luglio 2020
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cronache-antifasciste/quasi-un-pellegrinaggio/