Senza indugiare nella narrazione eroica, in cui è facile cadere quando per spirito di appartenenza ci si sente vicini a fatti accaduti, vorrei raccontare la battaglia contro brigate nere e SS che il 31 agosto 1944 infuriò a Fonteno e sul Monte Torrezzo, nel territorio di Bergamo, con le parole di Mario Zeduri, nome di battaglia “Tormenta”. Era un giovanissimo partigiano della 53ª Brigata Garibaldi che nello scontro a fuoco rimase ferito. “Tormenta” nell’ottobre successivo scrisse alla madre: “L’ultimo rastrellamento è stato terribile; 800 fascisti e tedeschi assalirono le nostre posizioni preparate a difesa. Allora sì che si sentiva la morte, regina del campo di battaglia! 12 ore di combattimento continuo; i nemici furono ributtati con ingenti perdite. […] Il mio mortaio da 81 nella sua trappola spara sempre a zero, come un vulcano; le mitraglie, i mitra, i parabelli dei miei compagni sgranavano razzi di morte. Verso sera […] uscii dalla postazione col mio tenente, imbracciando il mitra per inseguire il nemico. In mezzo al sibilo dei proiettili nemici sparammo 8 raffiche ben aggiustate su ognuno dei fascisti che si ritirava; solo in questo punto abbiamo trovato 18 morti. Ma il mio tenente era a terra inchiodato ed io a pochi metri dal nemico fui inchiodato al terreno da un colpo di mitraglia. Quello che ho visto in quel momento non te lo posso scrivere! Sangue, sangue, sangue! La caviglia era fracassata. Raccolto dai portaferiti […] si sentì un sibilo e arriva un colpo di mortaio nemico; l’esplosione mi ha [fatto] fare un salto di 5 metri e una scheggia mi colpisce al sedere; per fortuna questa era una cosa da poco. Sono stato portato all’infermeria del campo dove mi trovo tutt’ora (ferito il 31 agosto). […] il tenente medico ha dovuto ingessare la caviglia, perché era leso l’osso; ora dopo un mese e mezzo leverà il gesso e settimana ventura ho l’ordine del comandante Montagna di rientrare al reparto. Ora sto benissimo e cammino bene. Certo cara mamma che il mio calvario non avrei dovuto raccontartelo, per non farti soffrire; ma ho dovuto sfogarmi. Ma non piangere mamma, perché il tuo Mario ritornerà; lo sento dentro al mio cuore; sento che ho sopra il mio capo la protezione della Vergine, la quale dopo avermi preservato centinaia di volte dalla morte […] sono sicuro che mi preserverà anche in avvenire” [1].
“Tormenta” non sapeva, invece, che di lì a un mese avrebbe trovato la morte alla Malga Lunga, vittima di un rastrellamento fascista. Le sue parole ci aiutano però a identificare almeno tre elementi preziosi per spiegare i significati che la lotta di Liberazione ha assunto, sia in termini complessivi sia nel nostro territorio.
Anzitutto, il coraggio: i partigiani combattevano a viso aperto repubblichini e tedeschi in inferiorità numerica e con armi e munizioni spesso insufficienti. Per la prima volta, giovani – magari di soli diciassette anni come Zeduri – si trovavano a vivere e sperimentare in prima persona una violenza inaudita, quella descritta in maniera vivida dalla ripetizione della parola “sangue”, seguita dal punto esclamativo, nella lettera che “Tormenta” indirizza alla madre. La battaglia di Fonteno e del Monte Torrezzo fu effettivamente combattuta in quelle condizioni: inferiorità numerica, condizioni ambientali impervie, armi e munizioni raffazzonate. Eppure i partigiani la vinsero. E lo fecero grazie alle grandi abilità tattiche e all’organizzazione. Prima accettando la trattativa con il maggiore Langer, il capo delle SS di stanza a Bergamo inviato a Fonteno dopo la cattura di due soldati tedeschi e di un interprete, grazie alla quale fu evitata la decimazione della popolazione di Fonteno; poi difendendosi sul Monte Sicolo e sul Monte Torrezzo, e infine sorprendendo le SS a Fonteno. Fu una battaglia che rappresentò, dal punto di vista militare, un grave smacco per i nazifascisti e, dal punto di vista psicologico, un enorme risarcimento per i partigiani che tante sofferenze avevano subito sin dai primi giorni della loro clandestinità.
Il secondo elemento che possiamo individuare nella lettera di Zeduri è la sua fede cattolica. Non deve stupire, tuttavia, che un giovane proveniente da una famiglia assai devota decise di arruolarsi in una brigata comunista. Se c’è una caratteristica che connota la 53ª, infatti, è la sua laicità. Comunisti i capi, comunisti gli orizzonti che si intendevano dare al Paese dopo la guerra, ma ecumenica, aperta, solidale l’adesione a una lotta resistenziale che nelle intenzioni di tutti doveva inevitabilmente incrociare altre culture politiche e altre visioni del mondo per poter ricacciare indietro quella funesta che aveva dominato il ventennio precedente. E allora anche da questo aspetto abbiamo forse da imparare oggi: unità, quella che permise alla 53ª Brigata Garibaldi di distinguersi sui campi di battaglia, è una parola da ritrovare e rendere attuale.
È nell’oggi, infatti, che va agita in termini trasformativi la memoria. È oggi che, con sempre maggiore evidenza, assistiamo a recrudescenze verbali e comportamentali tristemente associabili al fascismo, alla discriminazione, all’esclusione, alla sopraffazione. Sempre più spesso, e con sempre meno pudore da parte di chi le pronuncia, ascoltiamo frasi come “Mussolini ha fatto anche cose buone”, sentiamo invocare il bene supremo della patria con toni e sfumature che non possono non far pensare a quelle distorte forme di nazionalismo che portarono alla guerra e alla tragedia d’Europa.
Oggi più che mai – oggi che la società sembra davvero fluida, liquida, priva di riferimenti ideali, di ragioni per cui combattere se non quelle del diritto individuale, oggi che ci lasciano i testimoni di quel tempo cupo e nel contempo allegramente liberato in un’apoteosi di desiderio: di ricostruire, rabberciare, guardare al futuro – ecco che oggi più che mai questo solco di memoria che proviamo a tracciare appare indispensabile: sia perché dentro ci sono i contenuti delle nostre lotte, sia perché qualcuno ancora trova il coraggio di pensare e di affermare che sia possibile mettere partigiani e repubblichini sullo stesso piano, che le loro esperienze siano equiparabili. Quando invece noi sappiamo che allora, come oggi, c’è stata una parte giusta della storia e che da quella parte – a volte inconsapevolmente, certo, e con tutti gli errori, le leggerezze e magari persino le crudeltà di una guerra che richiedeva una scelta di campo precisa – ci stavano quelli come Zeduri.
Ci serve coltivare questa memoria, unitaria per noi, e che inevitabilmente ci deve dividere da chi invece si professa ancora oggi fascista o si comporta come tale, per capire anche come si arrivò al fascismo. C’è infatti una narrazione, alimentata da gruppi come CasaPound o Forza Nuova, che vorrebbe ascrivere al fascismo un tratto rivoluzionario, rigenerativo.
Ebbene, leggendo la storia anche in termini economici, quelli che ci consentono di radiografare le disuguaglianze, sappiamo per esempio che anche nel Bergamasco il fascismo si saldò immediatamente con il potere dei grandi proprietari terrieri, coloro che facevano morire di povertà o fatica i braccianti. Sappiamo che il fascismo fu violenta e ingiustificata reazione nei confronti di chi cercava giustizia e libertà nei campi e nelle fabbriche. In una parola, nel lavoro.
Sappiamo che il povero mezzadro della Valcalepio che nel secondo dopoguerra denunciava di essere stato trattato come una bestia, prostrato da un padrone ingiusto e crudele, era vittima dei rimasugli di quella società diseguale che il fascismo aveva voluto [2]. Quel contadino aveva chiamato quelle poche righe annotate su un libretto contabile negli anni Cinquanta “diario del sofferente”, quasi a ricordarci, da un lato, che violenza e sopraffazione passano e continuano a passare ancora oggi da meccanismi di sfruttamento del lavoro e, dall’altro lato, che anche dopo la Seconda guerra mondiale il lungo cammino verso la libertà non si è esaurito con le conquiste democratiche e che, anzi, è per molti stato tradito. Certo non è un caso che i padri costituenti vollero inserire il lavoro come valore fondante della Repubblica, sancito nell’articolo 1 della nostra Carta. Lo fecero perché il fascismo è stata oppressione ideologica, fisica, politica, razziale. Ed è stato anche abolizione del concetto di libertà connessa al lavoro. Conservazione, dunque, e non rivoluzione. Questo fu il fascismo.
E allora entra in gioco il terzo elemento che possiamo estrarre dalla lettera di Zeduri e che può essere un’ulteriore bussola da cui ripartire: l’umanità. “Tormenta” è solo un diciassettenne che si sente fragile, ha paura, non riesce a trattenersi dal comunicare alla madre di trovarsi in una condizione critica. Questo ci deve far pensare alla gravità, alla difficoltà, ma anche alla straordinaria generosità insita nella scelta che lui come tanti altri fecero allora: mettere a rischio la propria esistenza per liberare il Paese e costruire spazi e tempi condivisi e collettivi.
Grazie ai partigiani oggi abbiamo i mezzi e gli strumenti per parlarci, dialogare, dedicare il nostro tempo individuale alla dimensione comune. Ed è questa la vera salvaguardia dal fascismo e da chi vorrebbe perfino imporre una concezione dei rapporti personali in termini privatistici.
Viene in mente cosa deve aver significato per quegli uomini che 75 anni fa soffrirono il freddo, il terrore, le malattie, a volte anche il dolore fisico e la morte, avere vicino un compagno. Poter sentire in lui la pulsione prima e definitiva che li spingeva un passo più avanti, una battaglia dopo l’altra. Verso il sogno di un’Italia, e magari di un’Europa, libere. Pensiamo al bisogno imprescindibile che abbiamo oggi di stare insieme. Di costruire, a partire da questa bella dimensione umana, l’unità.
È a partire da qui che possiamo continuare a dirci che la Resistenza non è mai finita.
Roberto Villa, ricercatore, componente della Commissione Cultura/Formazione/Memoria del Comitato provinciale Anpi di Bergamo
Note:
[1] Archivio Istituto Bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Carte Zeduri, b.a., fasc. 4, “Zona d’operazione 15-10-1944”.
[2] Archivio Biblioteca “Di Vittorio” della Cgil di Bergamo, Fondo Vincenzo Beni, b.3, fasc.1, taccuini e libretti contabili personali appartenuti al mezzadro Paolo Del Prato, 1952-1954.
Pubblicato giovedì 31 Ottobre 2019
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