Vorrei iniziare il mio intervento con un tema a voi assolutamente noto: la partecipazione del mondo del lavoro e degli operai alla lotta di Liberazione e alla Resistenza, motivo della nostra presenza, e, a partire da ciò, sviluppare un ragionamento su cosa questo ha significato e significa per il lavoro, oltre a riflettere sull’oggi e sui pericoli e le disattenzioni alle quali possiamo andare incontro, quelli già individuati dal professor Smuraglia nella relazione introduttiva, ma anche altri, legati ai temi del disagio sociale e delle disuguaglianze.
Siamo tutti d’accordo – credo – che dietro le varie forme di terrorismo nel mondo, anche nel nostro continente, ci sia una logica totalitaria fascista. Gli studiosi potrebbero definirla in tanti modi, ma qui la possiamo chiamare così. E, credo, siamo tutti d’accordo anche sul crescente razzismo che colpisce gli immigrati colpevoli per il solo fatto di professare una religione additata a responsabile morale dei fatti terroristici che insanguinano i nostri Paesi. Ci sarebbe da riflettere sui messaggi che vengono lanciati e su come incidano sui comportamenti.
La libertà delle donne
D’altro canto non si ragiona neppure sul perché un tema come quello della libertà delle persone, e in particolare delle donne, possa essere sottaciuto. La libertà delle donne non è solo una questione di costumi, come viene in gran parte rappresentato. Si tratta di un tema economico, che investe la loro diretta partecipazione alla creazione di progetti di vita. Si tratta di un tema di istruzione, della possibilità e capacità di costruire quei progetti. Si tratta della messa in discussione degli equilibri e delle determinazioni precedenti. Si tratta di un’altra faccia delle nuove forme di razzismo e fascismo che si agitano nel mondo. Forse è più complicato rapportare queste tematiche al fenomeno del terrorismo, ma basterebbe osservare le scelte di Erdoğan in Turchia per cogliere come quello sia uno dei versanti rispetto cui si determina un regime illiberale.
Diseguaglianze e Costituzione
Il secondo ragionamento, più generale ma non totalmente estraneo a quello che ho appena detto, ruota attorno al tema delle disuguaglianze. Potremmo definirlo anche come il contrasto a due princípi fondamentali della nostra Costituzione: il diritto al lavoro e l’universalità dei diritti sociali delle persone e delle risposte che a questi bisogna dare.
L’assenza di lavoro da cosa è determinata? In particolare per un’intera generazione che si sente esclusa dalla costruzione del processo di cittadinanza e dalla partecipazione? C’è una cosa che non viene più sottolineata, ma ritengo sia straordinariamente importante: la fragilità di una democrazia nel momento in cui le persone non hanno una condizione che permette la realizzazione di sé. Non solo quella materiale, ma anche quella dell’istruzione, del fare parte del mondo del lavoro, del definire un proprio orizzonte di cittadinanza. Se non esiste questo orizzonte, se non si realizza un approccio partecipativo, se non ci si sente parte di qualcosa, il contesto in cui queste persone si muoveranno sarà un contesto di serenità e tranquillità, oppure un contesto disponibile alla ricerca di una qualunque soluzione che li rappresenti e fornisca loro delle risposte?
La “cintura della ruggine”
Mi colpisce moltissimo come le forme più razziste e populiste hanno utilizzato e utilizzano il lavoro come argomento per la loro affermazione. Ne sono un esempio la cosiddetta “cintura della ruggine”, come viene chiamato il luogo dove Donald Trump va a caccia di voti. Oppure, in Francia, la fabbrica Electrolux sulla quale si sono scontrati Marie Le Pen ed Emmanuel Macron. Si tratta delle zone con maggiori difficoltà economiche e di impoverimento. Sono diventati i luoghi in cui si affermano i movimenti razzisti e di chiusura nazionalista che danno per scontato che la democrazia si può anche sacrificare al raggiungimento degli obiettivi. Nel disagio che si manifesta in queste zone e in questi strati sociali si incrociano condizione economica di marginalità e riduzione della partecipazione all’istruzione.
Mi torna in mente allora quello che univa le Camere del Lavoro bracciantili e le Brigate Partigiane: si studiava, si leggeva, si insegnava. L’assenza degli strumenti di informazione e interpretazione del mondo veniva considerata come una maggiore possibilità di essere subalterni rispetto al potere.
Se noi pensiamo agli effetti della fuga e dell’abbassamento dei livelli di istruzione (parlo dell’Italia, non necessariamente di altri Paesi) come alle conseguenze di una discussione che vorrebbe il sistema formativo puramente funzionale all’apprendimento di un lavoro, anziché all’apprendimento della propria capacità di cittadinanza, di critica e di libera scelta, ci ritroviamo all’interno di un circuito che riduce gli strumenti a disposizione delle persone per valutare la realtà e, a mio avviso, rende più fragile la democrazia.
Guerra fra poveri
Altro tema è quello più propriamente economico della disoccupazione. I sistemi legislativi (in particolare dell’Europa) sono sempre più fondati su una tipologia di intervento sul lavoro che determina competizione tra chi cerca lavoro e chi vive una condizione di precarietà lavorativa. Sia nella dimensione nazionale che su scala continentale, se si abbandona la costruzione di standard omogenei tra Paesi europei si verificherà sempre una competizione che andrà a scaricarsi direttamente sui lavoratori. Gli esempi sono evidenti: quando i lavoratori inglesi, o di un altro Paese, pongono il problema dell’arrivo di stranieri disposti ad accettare condizioni inferiori alle loro, significa che la guerra dal mercato e dal libero commercio si è spostata sul lavoro, sulla sua retribuzione. Viene cioè salvaguardato il libero mercato – dogma intoccabile per chiunque – esercitando una guerra tra poveri.
Non è tanto diverso da quanto avviene nei cantieri italiani, dove appaiono sempre più spesso manifesti di agenzie interinali rumene. Praticamente, si sottintende che i lavoratori italiani guadagnano troppo. Rivolgendosi a loro, il lavoratore italiano se la prenderà con quello straniero. Insomma, si manifesta in queste modalità uno straordinario strumento di esaltazione delle forme razziste. Dietro la propaganda “ti rubano il lavoro”, c’è una molteplicità di reazioni da parte delle persone. Il messaggio che arriva dalla propaganda condotta esplicitamente dalla Lega e dalle organizzazioni razziste non è che esiste una precisa responsabilità nelle scelte e nelle politiche economiche portate avanti, ma che esiste una persona fisica diversa da me che è colui che ruba il lavoro. Non costruire anticorpi, rappresenta l’apertura di una voragine.
Se ciò riguarda massimamente il tema dell’Europa e dei migranti, esiste però una guerra esercitata anche tra lavoratori di questo Paese. Ogni giorno si costruisce una forma di lavoro che costa meno dell’altra, con meno diritti dell’altra. Qualunque riduzione dei costi viene presentata come uno straordinario modello capace di creare ricchezza e sviluppo. In realtà, ancora una volta non viene percepita la responsabilità di chi legifera e si incolpa l’altro, il lavoratore che fa parte di un appalto senza un contratto regolare, oppure in nero che arriva a incarnare il nemico attraverso il quale constatare il peggioramento della propria condizione.
La fine del compromesso fra capitale e lavoro
A cosa si deve tutto ciò? Intanto, al venir meno dello straordinario compromesso postbellico: il rapporto tra capitale e teoriche dei modelli di democratizzazione del capitale, dove il patto e lo scambio era sul welfare universale. Si aveva dunque una condizione determinata e subordinata dal rapporto di lavoro, ma l’universalità del welfare era ciò che consentiva a tutti di immaginare la propria condizione di benessere. E la funzione degli Stati era quella di erogare welfare. Ormai da circa vent’anni l’universalità del welfare è messa sistematicamente in discussione. Da un lato, a favore delle forme di privatizzazione. E dall’altro, attraverso l’idea che non si tratti di un diritto uguale per tutti.
Basta prendere ad esempio la discussione sul servizio sanitario negli Stati Uniti. Oppure, da noi, la dinamica del costo delle prestazioni sanitarie che in molte occasioni diventano più costose nel pubblico che nel privato che, unita a una condizione economica derivante dal lavoro sempre più svantaggiata, che consente sempre meno di affrontare i bisogni che si presentano, un cocktail micidiale che ci fa ritenere che questo sistema non fornisca più le risposte essenziali di cui abbiamo bisogno. Così facendo si mette in discussione il diritto di accessibilità universale. E senza gli strumenti di interpretazione, anche questo diventa uno straordinario bacino con cui si alimentano razzismo e populismo.
Papa Francesco
Personalmente, sono tra coloro che non amano citare il Papa. Però in tante occasioni il Papa ha detto parole straordinarie sul lavoro e sulla sua dignità. Stamane – mentre si trovava a una grande assemblea di operai dell’ILVA di Genova – ne ha pronunciate altre contro l’ideologia della meritocrazia. Sono stata molto colpita dall’idea che l’ideologia della meritocrazia è la copertura delle disuguaglianze. E dalla connessione al tema della povertà come colpa, e quindi come alibi per non affrontarlo.
Al di là della lettura da dare alle parole di Bergoglio in chiave di attività sindacale o politica, ritengo che qui risieda un altro tema fondamentale. Vale a dire il rovesciamento dei fattori: sei povero non perché diminuisce il lavoro e non vi hai più accesso, ma perché non sei bravo; e non sei bravo perché non hai fatto le cose che servivano per diventarlo, non perché sei vissuto fuori dall’istruzione, nel circuito di precarietà del lavoro o addirittura al di fuori della possibilità di accedervi. Cioè, colpevolizzazione individuale. Dico una cosa che non vorrei suonasse come una bestemmia: se la dimensione fosse stata solo quella dell’individualismo, non sarebbe esistita la Resistenza. Per poter cambiare le cose c’è bisogno di una dimensione collettiva. La logica dell’individualizzazione estrema favorisce solo il rancore. L’idea che a tutto ciò si possa rispondere unicamente con forme di assistenza reddituale, è nuovamente uno straordinario campanello di allarme.
Gli operai e la moltitudine
Se la dimensione non è più quella in cui esercitare una progettualità, una relazione con gli altri, che consente di essere insieme attori del cambiamento, ma esclusivamente una dimensione dei sussidi disponibili, si stimola una logica di dipendenza passiva che elimina qualunque condizione collettiva. L’esistenza di ogni singolo individuo dipenderà dalla personale condizione di lavoratore, precario, disoccupato o altra categoria. E su questa strada, purtroppo, siamo già un bel pezzo avanti.
Concludo con uno spunto che proviene dalla cronaca di questi giorni. Qualche giorno fa l’ISTAT ha fornito un quadro di lettura del nostro Paese. A parte la discutibilità assoluta di come sono state costruite queste confuse aggregazioni di dati, al di là della continua riproposizione delle pensioni come costo da abolire – un altro attacco al welfare, appunto – un dato che stava dietro a quella ricostruzione statistica, in realtà, aveva un senso. Vale a dire che le antiche classi che determinavano un confine e che attraverso il conflitto facevano progredire la società, non esistono più. C’è chi dice che non ci sono più gli operai ma a ben vedere di operai ce ne sono ancora tanti, come ci sono altri lavoratori in un mondo del lavoro che non è più esattamente quello di prima. Ma di operai ce n’è una moltitudine. Semmai è in atto un processo in cui l’antica distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ha subito un tale cambiamento, che oggi molti impiegati hanno una condizione lavorativa e sociale vicina a quella di tanti operai. Il problema di cosa sono oggi gli operai nella loro moltitudine esiste sicuramente, ma gli operai intesi come coloro che lavorano trasformando la materia in prodotti continuano a esserci. Anche in settori non industriali.
Perché c’è bisogno di negare la loro esistenza? Perché ciò che produce nuovi razzismi e nuove chiusure è la negazione del conflitto come motore dell’innovazione sociale, del miglioramento delle condizioni di tutti. Il ritornello “siamo tutti nella stessa barca” consiste, di fatto, in un discorso in cui c’è chi determina le condizioni per stare sulla barca e chi si accontenta di non essere fuori. Il conflitto – sia che si eserciti tra uomini e donne, sia che si eserciti in termini di classi – è sempre stato e continuerà a essere quello che determina una condizione effettiva di miglioramento.
Democrazia e conflitto
Se cresce il disagio, se cresce l’individualizzazione, se si nega la potenzialità del conflitto, allora ci troviamo in una condizione di straordinaria fragilità della democrazia. Perché la conseguenza è che chi si trova in difficoltà non può affidarsi agli strumenti che hanno contribuito alla costruzione della democrazia, deve cercarne altri dentro a un conflitto con i suoi simili. Allora credo che la funzione di una giornata come questa è anche quella di misurare il valore del dirsi antifascisti, oggi. Non ovviamente nelle modalità di puro studio proprie di un seminario, ma per provare a leggere e decifrare le questioni e le condizioni sociali. La vera questione che va posta è quella degli anticorpi che progressivamente vengono meno quando si sottovalutano gli effetti che le condizioni economiche e sociali producono sulla democrazia. In realtà si aprono quei vulnus che poi hanno determinato e determinano, nella storia recente e anche attuale – penso a quanto sta avvenendo in America Latina per esempio – le condizioni per il ritorno, il rigurgito di forme che hanno tutte uno stesso fine. Possiamo dilettarci su quale sia la denominazione da attribuire loro, ma l’obiettivo è sempre quello di generare una condizione di subalternità e impotenza dei cittadini e, al contempo, l’affermazione di un potere che consiste innanzitutto nella privazione della libertà delle persone.
Susanna Camusso, Segretario Generale CGIL
Pubblicato giovedì 20 Luglio 2017
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