Come parlano le nuove destre agli elettori italiani? E soprattutto, dicono qualcosa di nuovo?
Quando si fa riferimento al Novecento, spesso, si parla di secolo breve, per via dell’alta concentrazione di eventi storici intercorsi tra lo scoppio della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Urss. Oggi, però, a meno di 75 anni dalla Liberazione dell’Europa dal nazifascismo, si assiste alla ricompattazione delle frange di estrema destra e viene da chiedersi, invece, se il riferimento non sia, piuttosto, alla memoria a breve termine di molti.
In un clima di tensione sociale crescente, le destre si stanno imponendo con prepotenza, addestrando i loro adepti a una ferocia inaudita sui social (e fuori) al punto da ricordare l’ascesa di un certo fascismo rurale e picchiatore. Ma, guardando meglio, queste non sono le premesse, ma più le conseguenze della stagnazione della cosiddetta alt-right, la nuova destra che si riverbera in euroscetticismo, xenofobia e conservatorismo. Nel panorama italiano si possono identificare due filoni dominanti: il primo, riconducibile a Matteo Salvini e al restyling della Lega e, in minor misura, a Giorgia Meloni con il suo fascismo pop e un po’ outsider, il secondo, individuabile in quel sottobosco molto più che nostalgico che fa capo a CasaPound e Forza Nuova e che segue canali meno convenzionali. Osservandoli entrambi molto da vicino, però, viene quasi da riconsiderare la prospettiva di queste “nuove” destre. E se avessero solo assimilato gli insegnamenti e gli errori della sinistra, appropriandosi dei processi e dei meccanismi vincenti?
Mira al cuore
La parabola discendente della sinistra italiana, a partire dall’inizio del nuovo millennio, è coincisa con una parallela espansione della destra, non solo in termini di consenso, ma già da un punto di vista fisico. Se la sinistra iniziava ad abbandonare le piazze e gli ultimi malinconici girotondi erano ormai un ricordo, ecco insinuarsi le grandi adunate dell’era berlusconiana: esibizioni ai limiti del circense in cui si scongiurava l’attacco comunista. Un elemento, questo, che è rimasto particolarmente radicato nel modo di fare politica di Salvini e che, insieme alla presenza capillare sui territori, ha portato all’acquisizione di popolarità e di fiducia: nel suo periodo di ascesa, l’attuale vicepremier non lesinava slogan, proteste, e prese di posizione come il sit-in a sostegno dei dipendenti del gruppo siderurgico Riva nel 2013.
Piazze, cortei, proteste, operai. Una terminologia che rievoca immediatamente la sinistra, i suoi valori, i suoi luoghi e le sue lotte. Eppure non è così: non più, almeno. Gli esponenti delle “nuove” destre hanno disinnescato il glossario della controparte politica, mettendo in atto, in molti casi, un processo di risemantizzazione in cui le parole sono rimaste invariate, ma è radicalmente cambiato il significato ad esse attribuito. È il caso delle periferie, un tempo roccaforti di un saldo retaggio comunista, oggi additate come focolai di razzismo, incubatori di rancore e odio sociale. Lo dimostrano i recenti fatti di Torre Maura: da una parte la speranza rappresentata dal giovane Simone e dal suo pensiero autonomo come antidoto al razzismo; ma dietro la facciata di un episodio che rincuora e, al tempo stesso, diverte, si comprende chiaramente quanto le periferie siano ormai territori che la destra xenofoba ha eletto come proprio domicilio. Il substrato culturale, la quasi totale assenza delle istituzioni e la scomparsa di una sinistra capace di parlare al sottoproletariato urbano, sono fattori che hanno trasformato le periferie nella base operativa di chi fa leva su una generica insofferenza della cittadinanza per radicarsi e provare a diventare un punto di riferimento. Così, se da una parte la sinistra si è allontanata progressivamente dai problemi delle piazze per chiudersi in stazioni dismesse e in dibattiti sempre più autoreferenziali, dall’altra, i neofascisti hanno cambiato il pelo ma, come ogni lupo che si rispetti, di certo non il vizio, insinuandosi sottopelle e sfruttando gli errori altrui a proprio vantaggio.
Lotta di classe (senza classe)
In una società in cui il lavoro è diventato liquido, privo di garanzie e prospettive, allora non resta che saccheggiare alla sinistra anche il concetto di coscienza di classe per manipolarlo, distorcerlo e restituirlo nella feroce opposizione tra gente comune e oligarchie culturali e monetarie, chiamate élite con grande disprezzo. Una dicotomia che trova nell’ignoranza il suo fulcro. Se, fino a qualche tempo fa, il non sapere generava imbarazzo e disagio, oggi si assiste quasi a un’ostentazione dell’ignoranza, come se fosse l’ambrosia del popolo, la liberazione dalle catene dell’élite e dei suoi paroloni. La conoscenza diventa una colpa e l’esclusività non viene più intesa come prestigio, ma assume una connotazione estremamente negativa. Un meccanismo difficile da comprendere e dipanare, questo, soprattutto in un periodo in cui è ancora quotidianamente in fieri: ciò che si può dire, è che agisce su due fronti. Il primo, quello abusato della manipolazione dei significati (si pensi, anche, a termini come buonista, criticone, radical chic…), il secondo, quello di ampliare le distanze e l’odio del “popolo” nei confronti della cerchia ristretta di “intellettuali di sinistra amici di Soros” (definizione fuori dai denti plausibile per un sovranista), estendendo al massimo il terreno di scontro.
Lo scollamento tra (presunto) Paese reale e intellettuali, infatti, si è riproposto anche in occasione di un evento dall’animo fortemente nazional-popolare come Sanremo. L’ultima edizione del Festival, infatti, ha visto trionfare il rapper Mahmood, accompagnato da un malcontento popolare nemmeno lontanamente assimilabile a quello che si manifestò in Francia nel luglio 1789. L’Italia – si sa – è quel posto in cui tutti, dalla celeberrima casalinga di Voghera al ministro dell’Interno, avvertono l’esigenza di dire la loro (e poco importa che si stia parlando dei mondiali di calcio o di disastri ambientali). E, anche in questa occasione, è andata così.
Durante la premiazione, Matteo Salvini ha pubblicato un post a cui affidava il disappunto per la vittoria di una canzone “poco italiana”, dando il via a centinaia di migliaia di commenti razzisti camuffati da opinioni musicali, cui hanno fatto seguito le giustificazioni (non dovute) di Mahmood sulla sua cittadinanza (italiana, in qualsiasi caso) e sulle sue origini egiziane, il livore del secondo classificato, le spiegazioni da parte di alcuni giornalisti presenti in sala stampa e, soprattutto, le offese a carico dei membri della giuria d’onore: l’élite, in pratica, colpevole di farsi carico di un’opinione impopolare, perché non suffragata dal 46% del pubblico a casa che con il televoto aveva espresso la sua preferenza per Ultimo. Un caso emblematico, quello di Sanremo, in cui si slatentizzano i processi di “interazione” tra pancia e cervello del Paese, con l’uomo qualunque che attacca e il “professorone sinistroide” che tenta un’arringa difensiva. Oppure soccombe.
Political influencers (?)
Ma, se da una parte, le destre premono per aumentare il divario tra base e vertice, dall’altra riconoscono la necessità di avere ambasciatori attendibili e facilmente riconoscibili dal grande pubblico. Negli anni, le sinistre hanno trovato decine di personaggi noti capaci di veicolare dei messaggi politici e di raggiungere e sensibilizzare l’elettorato su determinate tematiche. Le destre, invece, da sempre scisse tra sparuti intellettuali e un elettorato che non stava ad ascoltare i teorici di dio-patria-famiglia, hanno arrancato al cospetto dello stuolo di intellettuali di sinistra: almeno fino a quando questa alt-right in salsa tricolore ha ritenuto necessario costituire una propria “intellighenzia”.
Gli esiti disastrosi di questo tentativo di imporsi come polo dialettico nel dibattito politico e culturale sono evidenti e quotidiani: l’ultimo in ordine di tempo è quello che vede Alessandra Mussolini scagliarsi contro Jim Carrey per aver pubblicato una vignetta che raffigura l’impiccagione a Piazzale Loreto. La reazione della discendente del duce è stata irosa e ridicola, indirizzando un “You are a bastard” all’attore, per poi tirare in ballo le responsabilità degli Stati Uniti in altri genocidi (attacco doppiamente inutile, se si considera che Carrey è canadese) e sublimare il tutto con un “Vuoi l’applauso?” tradotto in inglese maccheronico, in risposta a un altro utente.
Questo non è affatto un caso isolato: come dimenticare Rita Pavone che con un “Ma farsi gli affari loro no?” attacca i Pearl Jam, gruppo rock che durante la data romana dello scorso giugno si era espresso a favore dell’accoglienza dei migranti e dell’apertura dei porti.
E poi ancora, Claudia Gerini che sostiene il censimento rom proposto da Salvini, Riccardo Scamarcio che le fa eco elogiando l’accordo giallo-verde al governo e le intenzioni salviniane, considerate nazionaliste «nel senso più nobile del termine». E, infine, la querelle tra Lorella Cuccarini e Heather Parisi che, da sempre dipinte come rivali, hanno dimostrato poca affinità anche in campo politico, a partire dallo scontro sulle adozioni da parte di coppie omosessuali avvenuto qualche anno fa. Lorella Cuccarini, in tempi recenti, si è attestata, in diverse occasioni, su posizioni sovraniste, maschiliste e filo-salviniane che le sono valse sia un pubblico elogio a mezzo social da parte di Matteo Salvini, sia dei tweet sferzanti da parte della collega Heather Parisi.
Il risultato, stando a quanto visto fino a questo momento, è caricaturale: nel tentativo di sottrarsi alla spada di Damocle del gran varietà berlusconiano e acquisire credibilità, la destra del terzo millennio in Italia procede un po’ per tentativi. Tenta la via dell’arroganza, salvo poi non avere né la minima idea di chi sia l’interlocutore, né conoscenza degli argomenti trattati.
«Lei non sa chi sono io»
E in questo certosino tentativo di scardinare le parole e i concetti della sinistra, mettendo in atto una quotidiana inversione dei ruoli, le destre sconfinano nel paradosso. Dopo aver messo all’indice la diversità, l’integrazione o – più semplicemente – la coesistenza di molteplici religioni e gruppi etnici (sembra assurdo parlare ancora in questi termini nel XXI secolo, eppure…), l’estrema destra ha addirittura invertito questo canone per appropriarsi, in modo vittimistico, di un razzismo au contraire. Lo stesso Matteo Salvini si è scagliato innumerevoli volte contro quelli che definisce “nazisti rossi” – principalmente anarchici ed esponenti di centri sociali che apostrofano il vicepremier con appellativi non troppo lusinghieri. Così, la disamina perversa di questo meccanismo porta a pensare che, se le destre rappresentano gli interessi del popolo, del ceto medio, delle vittime dell’élite, allora tacciare le suddette destre di razzismo diventa una colpa: la prospettiva si ribalta e gli accusati, da lupi, diventano agnelli. Si lamentano, piagnucolano, farfugliano di un razzismo a parti invertite, di una mancanza di libertà d’espressione. Non si assiste solo a un ridicolo ribaltamento di prospettiva, ma anche l’utilizzo dei termini, violento e ossimorico, non fa che sottrarre terreno all’avversario. Insomma, l’elettore medio, in questo modo, è portato a pensare che, se è Salvini a riconoscere e additare i nazisti, allora non può egli stesso essere accusato di neofascismo. Lineare, no? E, per chi prova ad affermare il contrario, querela e gogna social.
Übermensch o Superman, questo è il dilemma
Negli ultimi anni, le destre hanno provato a cambiare volto (o maschera) e ciò di cui si sono appropriate, un po’ l’hanno trovato per strada, abbandonato da una sinistra che aveva deciso di volgere lo sguardo verso interessi più borghesi, un po’ lo hanno sottratto con la forza e restituito col vilipendio e l’offesa, ribaltando il significato e le intenzioni dei gesti originari. Ma in questo patchwork di elementi politici e comunicativi, non bisogna dimenticare di come la nuova destra abbia attinto dal proprio baule dei ricordi, recuperando antiche abitudini squadriste e violente e applicandole con perizia allo scenario 2.0. Infine, si deve riconoscere anche una certa dose di novità: i selfie, i “bacioni” ai detrattori, la presenza massiva sui social e lo storytelling semplice e quotidiano, che trae in inganno, portando a pensare che la personalità politica lasci spazio alla persona. Ma, si sa, anche preferire la foto di una torta, di un calice di vino o di un eroe dei cartoni animati, è una scelta ben precisa capace di veicolare messaggi politici, spesso anche incisivi.
Il filosofo Furio Jesi considerava la cultura di destra fondata su “idee senza parole”: concetti assoluti sublimati e non parafrasabili. Tra ingerenze poco giustificabili nella cultura popolare e appropriazioni indebite da altri retaggi politici, però, viene da pensare che la nuova destra sia, al contrario, caratterizzata da parole senza idee: assenza di contenuti, sovrabbondanza di luoghi comuni e feroci offese creano quella fiumana che esonda, ricoprendo di melma l’attuale scenario politico.
Letizia Annamaria Dabramo
Pubblicato martedì 23 Aprile 2019
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