Don Pino Puglisi nacque a Palermo il 15 settembre e fu assassinato a Palermo il 15 settembre. Anni diversi, il 1937, il 1993. Fu ammazzato dalla mafia il giorno del suo compleanno. Lo vogliamo ricordare attraverso un testo inedito di Wladimiro Settimelli, già direttore di Patria Indipendente.

Un uomo buono, paziente, colto, semplice e gentile. Il giorno del suo 56° compleanno, torna a casa e scende dalla sua utilitaria in Piazza Anita Garibaldi, nel rione Brancaccio di Palermo. Qualcuno lo chiama: “don Pino, don Pino”. Lui si gira e, dietro, un killer lo colpisce alla testa con un paio di rivoltellate. Non c’è nessuno intorno perché sono quasi le nove di sera. Don Pino Puglisi cade morto nella polvere della strada, in una giornata palermitana ancora afosa e chiusa a riccio. Quella è la città di Falcone e Borsellino, del generale Dalla Chiesa, di Pio La Torre e di tante, troppe altre vittime.

Don Pino è il primo prete ucciso dalla mafia, in una zona che conosceva bene: quella dove era nato, da sempre in mano dei fratelli Graviano e Bagarella.

Il giornale mi chiede di andare giù per qualche “pezzo” su quel prete di borgata conosciutissimo per la sua battaglia di tanti anni nel cercare di togliere dalle strade ragazzi e ragazzini, con un campetto di calcio piccolo piccolo, qualche merenda e i giocattoli per i più piccoli. A Brancaccio è comunque dura perché è una delle periferie più degradate della città, un luogo molto povero fatto di casette e casucce che trasudano miseria, in mezzo a strade e stradine sempre sporche e per nulla accoglienti.

Appena arrivato in città, dopo uno schifosissimo viaggio in cuccetta, prendo un taxi e mi faccio portare al Centro “Padre nostro”, proprio nel cuore di Brancaccio. È lì che don Pino lavorava con i ragazzi. La porta è aperta e sta uscendo una ragazza. Dietro di lei ecco la suora che aiutava don Pino. Parla con la ragazza a bassa voce e tiene la testa bassa. Gli occhi sono quelli di una povera persona sconvolta e piena di dolore.

Mi faccio avanti, mi presento e la suora mi porge la mano: una mano bianca, diafana, senza vigore. Chiedo, parlo, spiego. La suora risponde un po’ a monosillabi, rigida e diffidente. Poi mi guarda in faccia è dice: “Lei è fiorentino vero?”. Dico di sì e lei aggiunge: “Anche io sono di Firenze. Stavo in convento al Campo di Marte”. Ed è come se l’essere tutti e due fiorentini aprisse una porta. La suora si avvicina e si copre il viso con le mani. Ora è piena di singhiozzi e piange a dirotto. Tra le lacrime dice a fior di labbra: “Venga, venga a visitare il Centro”. In realtà è un povero appartamento dimesso al piano terra, con qualche stanzuccia, il bagno, la cucina, una sala più grande e un paio di camerette. C’é in giro qualche fiore e qualche disegno dei bambini appeso al muro. Poi usciamo in un giardino trasformato in campetto di calcio polveroso e con qualche ciuffo d’erba. La suora dice che don Pino voleva allargarlo di non più di mezzo metro, ma che lì accanto dovevano tirare su un grattacielo. La suora, ora, mi guarda negli occhi e con un sussurro mi dice: “Forse lo hanno ammazzato per quello. Lo minacciavano da anni”. Torniamo dentro e in uno sgabuzzino vedo un mucchio di giocattoli di plastica mezzi rotti e un paio di monopattini senza ruote. La suora dice ancora: “Don Pino li raccoglieva in giro per Palermo e poi, uno per uno, faceva, personalmente, le riparazioni necessarie. Dopo, appena pronti, erano per i bambini che venivano al Centro”.

Tutto appariva così povero, misero e dimesso da far salire il pianto in gola. Per quello uscii quasi di corsa.

Due giorni dopo, ecco il funerale. Io, laico, ateo, miscredente, mi aspettavo chissà mai che cosa. Don Pino, anche per me, era un martire della fede, un uomo povero morto tra i poveri e il suo corpo lo credevo degno della splendida cattedrale di Palermo. Il giorno precedente già mi ero immaginato il cardinale Pappalardo che celebrava una messa solenne tra gli ori e gli incensi per quel “Cristo” ammazzato dalla mafia per difendere un campetto di calcio per i ragazzini. Mi immaginavo fasti, riconoscimenti e il dito accusatore del cardinale puntato verso gli assassini. Mi sbagliavo, eccome se mi sbagliavo!

Un’istantanea nel rione Brancaccio a Palermo di due anni fa (da https://palermo.repubblica.it/cronaca/2013/04/12/ news/rifiuti_emergenza_in_tutti_i_quartieri _a_brancaccio_cassonetti_rovesciati-56509457/)

Il giorno del funerale, il carro funebre arrivò in cima alla lunga strada di Brancaccio, oltre la ferrovia e si fermò sulla destra. Non c’era nessuno. Pochi minuti prima era arrivato Luciano Violante, presidente della Commissione antimafia scortato da due agenti che portavano, sotto la camicia semiaperta, le rispettive “mitragliette” puntate verso l’alto. Il carro funebre cominciò a muoversi lentamente al centro della strada. Dietro, Violante, i due agenti di scorta, io ed un paio di altre persone. Camminavamo passo dopo passo, sotto un sole implacabile. Da dietro le persiane s’intravedevano gli occhi di persone che guardavano. Altre persone, via via, continuavano a chiudere le imposte e le finestre all’arrivo del carro funebre. Guardavo Violante e lui guardava me, ma non ci scambiavamo una parola. Gli agenti, invece, guardavano in alto. La paura mi stringeva la gola. Sì, avevo paura esattamente come tutti quelli che ci guardavano dalle case. Poi, all’improvviso, vidi una bandiera rossa, laggiù davanti alla chiesa di don Puglisi e mi si aprì il cuore. Erano i compagni. I compagni della Federazione del Pci di Palermo che erano venuti a rendere omaggio a don Pino, un altro generoso caduto nella lotta contro la mafia.

Il carro funebre si fermò un momento davanti alla chiesa. Qualcuno era uscito dalle case. Ci furono alcuni incredibili minuti di silenzio, poi un lieve mormorio, mentre un aereo passava altissimo.

I compagni e la bandiera si allontanarono e il carro funebre riprese a marciare. Ma dove andava? Eravamo di nuovo soli. I poliziotti di scorta camminavano ai lati con le facce rosse e sudate. Il carro si fermò in mezzo ad un mucchio di casse accatastate e ad un paio di container, sul marciapiede di una stazione ferroviaria, forse quella centrale della città, o una della periferia. In un angolo era stato preparato un altare e il feretro di don Pino venne sistemato per terra. Un prete cominciò la messa. Intorno c’era solo un foltissimo gruppo di francescani scalzi, sudati e spettinati, con un saio grigio. Tutti giovani dall’aria viva e vitale, ma con le facce tristi e gli occhi bassi.

Decisi che bastava e mi allontanai in silenzio, verso Brancaccio. Dietro di me, l’onorevole Violante e i poliziotti di scorta.

Una povera messa per un povero prete di borgata. Oggi don Pino Puglisi, per la Chiesa, è quasi un santo e i suoi assassini si sono pentiti. Il cerchio si è chiuso così, dicono.

Tratto da un libro inedito di Wladimiro Settimelli: “Comunisti miei amatissimi – Storie, battaglie, ricordi (Dagli appunti di un ex cronista dell’Unità)”. Con un ringraziamento alla moglie e alla figlia di Settimelli