Questo articolo non è solo la narrazione di un procedimento molto sui generis, testimonia anche un’Italia che non resta alla finestra a veder trionfare ciò che ritiene un’ingiustizia. L’autrice è sociologa e docente universitaria alla Statale di Milano, a sue spese segue le udienze, attraversando il Paese, recuperando i verbali per riferirne con puntualità sui social e sul sito dell’agenzia di stampa www.pressenza.com. La ringraziamo di averlo fatto anche per Patria. Perché Mimmo Lucano siamo tutti noi.
Da quando il 2 ottobre 2018 Domenico Lucano, sindaco di Riace dal 2004, viene arrestato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, una violenta tempesta di tiri incrociati si abbatte sul piccolo borgo calabrese, ed è ancora oggi lontana dal finire. Comincia un turbinio di misure cautelari, con undici mesi di un esilio insensato, ricorsi e sentenze nei vari settori della giustizia; un’opera di delegittimazione da macchina del fango mediatica; un’azione ostile e demolitoria da parte delle istituzioni. E comincia, otto mesi dopo a Locri, un processo penale per gravissimi reati, dall’associazione a delinquere al favoreggiamento di immigrazione clandestina, truffa, peculato, falso ideologico, abuso d’ufficio, concussione ecc. Un processo ancora in corso.
Una tempesta decisamente sproporzionata. Per prendere la misura delle cose, basta pensare a questi giorni, in cui la Calabria ci viene descritta come una terra consumata fra una ‘ndrangheta che spadroneggia e una politica subordinata, incapace di emanciparsi dai clientelismi criminali. Ebbene, in quella stessa Calabria, nel cuore della Locride infestata dalle cosche, da più di un anno e mezzo si processano per gravi reati penali Lucano e altre 26 persone per il modello di accoglienza che avevano messo in piedi a Riace… La sproporzione ci dice che non si tratta di una storia solo calabrese. Quel processo, quei reati, quella poderosa indagine della Guardia di Finanza che per quasi due anni ha portato avanti intercettazioni personali, ambientali, perfino video-intercettazioni, la bocciatura del Gip che giudicava la gran parte di quelle accuse raffazzonate e prive di prove a sostegno, trattenendone solo due (matrimoni e raccolta rifiuti), quelle incongrue misure cautelari, e alla fine il rinvio a giudizio su tutti i capi di reato già smontati dal Gip – insomma, tutto questo è un po’ troppo perché si tratti di una semplice iniziativa locale. Il processo contro Lucano e Riace è una storia nazionale.
Sin dall’inizio è apparso come un processo “speciale”, come si evinceva anche dalla costituzione in parte civile del Viminale e della prefettura di Reggio Calabria, cosa mai successa nei processi di ‘ndrangheta. D’altronde si era aperto, quell’11 giugno del 2019, in una Locri blindata, con un imponente schieramento di polizia a protezione del Tribunale, e nemmeno questo succede spesso nei processi contro le ‘ndrine. Un tratto paradossale, questo, che mi ha subito incuriosita e mi ha spinta a seguire il processo e scriverne.
Ho avuto la sensazione netta che in quel processo penale, che appariva così fuori misura in confronto a qualsiasi possibile irregolarità rispetto alle Linee Guida di Sprar e Cas, si giocasse una posta molto più alta: tradurre in termini di giustizia penale la torsione imposta alle politiche migratorie italiane da Minniti, prima, e poi molto più apertamente dal governo giallo-verde con Salvini al Viminale, e portare al suo culmine la politica di criminalizzazione dell’accoglienza, attraverso una sorta di processo esemplare ai danni di chi era da tanti ritenuto l’artefice di un modello di accoglienza virtuoso. Che si trattasse insomma di un processo politico.
Allora però diventava importante non lasciarlo nell’ombra del palazzo di giustizia di Locri, non affidarlo solo alla voce della stampa locale e nemmeno a quella degli “esperti”, ma dar voce anche ad un punto di vista diverso, da semplici cittadini. Perché qualsiasi cittadino che condivida con Lucano i valori dell’accoglienza e della solidarietà, del rispetto dei diritti umani, agli antipodi del “prima gli italiani” salviniano, non può sentirsi estraneo a quanto accade in quell’aula. Era necessario sottoporlo ad un “monitoraggio di cittadinanza”, per illuminare la scena, per informare e mantenere viva l’attenzione pubblica su un processo che di per sé non dava sufficienti garanzie di pubblicità. L’obiettivo è che sia possibile, indipendentemente dagli esiti giudiziari, ragionare pubblicamente su cosa esattamente si sta processando, cosa si vuole attaccare e delegittimare, quali azioni vengono trattate come reati, quali idee additate come illecite, nella convinzione che queste azioni e queste idee siano parte integrante delle nostre libertà.
Così ho iniziato i miei viaggi al Tribunale di Locri e ho assistito alle udienze, almeno finché il covid-19 lo ha permesso; grazie all’agenzia di stampa online Pressenza ho potuto pubblicare i report del mio monitoraggio, che si possono leggere sul sito www.pressenza.com. Ed è a partire da questa mia esperienza che racconto qui del processo, senza nascondere il carattere soggettivo delle impressioni e valutazioni che ho potuto mettere insieme in questi lunghi mesi di osservazione. Questo è forse il momento più adatto, perché, ad un anno e mezzo di distanza dal suo avvio, si è finalmente conclusa la lunga presentazione delle tesi dell’accusa, e dalla prossima udienza ormai imminente, il 30 novembre, dovremmo finalmente ascoltare la voce della difesa, il suo contro-esame ed i suoi testimoni.
Il processo è iniziato con le deposizioni dei funzionari che, a partire da fine 2016, per conto della prefettura di Reggio Calabria o dell’Ufficio Sprar avevano svolto ispezioni nei servizi Sprar e Cas di Riace; dopodiché il colonnello Sportelli per più di un anno ha illustrato, attraverso l’informativa della Guardia di Finanza, le ipotesi di reato avanzate dall’accusa e le prove a loro sostegno.
Fin dall’inizio, il processo è apparso imprigionato in un dilemma da cui non si è mai liberato, per la semplice ragione che è radicato nell’indagine da cui è nato: si tratta di irregolarità amministrative o di gravi reati penali? La materia del processo (sistemi di accoglienza e integrazione) è normata da regole prodotte dall’amministrazione – regolamenti, linee guida, ecc. – che prevedono già al loro interno una vigilanza sul rispetto delle norme, delle procedure qualora questo rispetto venga meno, fino all’applicazione di penalità e sanzioni vere e proprie. Se anomalie rispetto a quelle regole ci sono state a Riace, come dichiarano gli ispettori, dovrebbe trattarsi pur sempre di reati di tipo amministrativo. Vediamo allora quali sono le “gravi anomalie” che denunciano: le borse lavoro, i bonus, i cosiddetti lungo-permanenti. Dicono che per effetto di queste pratiche a Riace sono state accolte più persone di quelle ammesse ai progetti di accoglienza, o sono state accolte più a lungo. Eppure si tratta degli aspetti più salienti di quell’esperienza, portati avanti per anni alla luce del sole, noti non solo agli uffici che avevano continuato ad approvare i progetti, ma anche a quell’opinione pubblica che nel tempo si è interessata a Riace e alla sua forza innovativa. Come mai solo a partire da fine 2016 queste pratiche innovative diventano anomalie, e finiscono addirittura per portare alla chiusura dello Sprar e a sostanziare ipotesi di reati penali?
Su questo dilemma, la sentenza del Consiglio di Stato (aprile 2020), confermando definitivamente l’illegittimità della chiusura dello Sprar di Riace da parte del Viminale, parla chiaro: le anomalie emerse nella conduzione dello Sprar andavano affrontate con gli strumenti di controllo indicati dalle Linee guida stesse, e non con procedimenti demolitori di chiusura del servizio. La sentenza solleva così una questione che tocca il cuore del processo penale: quel processo tratta come gravi reati penali delle irregolarità amministrative, mentre è il principio della leale collaborazione che avrebbe dovuto orientare la correzione di quelle irregolarità. C’è insomma un vuoto fra i due piani, che il processo vorrebbe saltare a piè pari. Eppure gli ispettori non riescono a fondare il sospetto che quelle azioni fuori dalla lettera delle Linee guida siano state fonti di lucro; riconoscono che è per ragioni umanitarie che Lucano accoglieva anche soggetti diversi da quelli ammessi nei progetti di accoglienza, non rifiutava mai nessuno, non mandava via chi terminava il periodo di copertura del progetto. Ma se non si riesce a provare l’abuso personale, un dolo che spezzi la “leale collaborazione” fra Stato e Comune, come giustificare allora questa improvvisa ostilità?
È proprio sul terreno friabile di questa confusione di piani mai risolta, nonostante gli sforzi del Presidente di chiedere più chiarezza sulla distinzione fra i due piani, che la Procura ha costruito le sue ipotesi accusatorie. Ma neanche lei riesce a provare che ci sia stato vantaggio economico, anzi deve riconoscere che quelle “anomalie” sono nate in nome degli ideali di umanità e accoglienza che hanno ispirato l’azione pubblica di Lucano. Ad un certo punto, prova ad argomentare che il vantaggio era invece politico-elettorale, ma anche questo movente appare fragile, anche perché Lucano non si è candidato a nessuna competizione elettorale da quando è stato rieletto sindaco per la terza volta nel 2014. E così a poco a poco la questione del movente sparisce dalla narrazione della Procura, che si concentra piuttosto nel descrivere tutte le attività d’integrazione messe in atto a Riace in termini di reati penali. Che si tratti di peculato, truffa, malversazioni, o altri capi d’imputazione, al cuore di ogni attività finalizzata all’integrazione l’accusa indica un’origine da una distrazione di fondi pubblici che allunga su tutte l’ombra del reato. In buona sostanza, la rappresentazione dell’accusa recita più o meno così: a Riace non ci si limitava a coprire le spese di vitto e alloggio con i 35 euro forniti dallo Stato, si faceva anche “altro”. Ma Lucano lo ha sempre detto apertamente, anche in sedi tecniche e istituzionali, che in contesti come Riace vitto e alloggio costavano poco, e che i fondi risparmiati potevano essere impiegati per creare le condizioni dell’integrazione; non è stata certo una clamorosa scoperta dell’indagine! L’accusa sostiene, però, che avrebbe dovuto restituire tutte quelle “economie” che riusciva a fare. E allora come si fa l’integrazione? Aver usato tutto quello che restava dei fondi pubblici per creare opportunità di lavoro per rifugiati e autoctoni, in un contesto privo di risorse e votato all’abbandono, rappresenta per l’accusa una distrazione come un’altra, indipendentemente dalle finalità. Infatti quando il Presidente chiede: ma se pur in modo eterodosso, non erano comunque attività finalizzate all’integrazione? l’accusa si limita a rispondere che comunque non si potevano fare, o meglio, per farle si sarebbe dovuto presentare una domanda agli uffici, come prescritto dalle linee guida. Ma se il problema è la mancata domanda, allora torniamo al piano delle irregolarità amministrative, in una sorta di ragionamento circolare.
Rifiutarsi di prendere in conto le finalità d’integrazione delle azioni sotto esame, ne fa sparire il valore specifico. Prova ne sia il persistere delle accuse sull’affidamento della raccolta dei rifiuti a due cooperative sociali di Riace, che pure la Corte di Cassazione aveva demolito nella sentenza del febbraio 2019 sulle misure cautelari, sostenendo che tutto era stato regolare e non c’erano prove di comportamenti fraudolenti. O il Riace in festival, che la Procura sa esser stato sempre finanziato in autonomia, su fondi ReCoSol e Tavola Valdese, e ciò nonostante insinua a più riprese che sia stato finanziato con i fondi pubblici dell’assistenza. O il frantoio di comunità, che nel frattempo ha ripreso a funzionare dando lavoro a 15 persone ed è diventato fulcro dell’economia locale, ma che per l’accusa nasce dal desiderio di Lucano e Città Futura di “farsi un frantoio” a spese dell’accoglienza. O le case del turismo solidale, e tutti i progetti di lavoro per la riqualificazione urbana. La forza di Lucano è che tutta la sua azione pubblica è avvenuta sotto gli occhi di tutti, di ognuna di queste attività ha detto pubblicamente, finanche in tribunale nelle sue deposizioni spontanee, la logica d’integrazione che la reggeva, al fine di costruire una comunità coesa. La Procura invece riduce quelle azioni ad una distrazione qualunque, ne nega il contenuto specifico; questo perché al centro della sua attenzione non ci sono gli atti, né i moventi, visto che non può provare che Lucano si sia mosso per interesse, ma le idee che li hanno ispirati.
La procura di Locri legge tutte le attività d’integrazione messe in atto a Riace – le botteghe, il frantoio, il turismo solidale, la riqualificazione urbana, i servizi, ecc. – sotto la luce della distrazione di fondi. Eppure, per anni, Riace era stata un laboratorio di buone pratiche, utile a fornire indicazioni per la costruzione prima, e gli aggiornamenti poi, del sistema Sprar. Se questa sinergia non si fosse spezzata, le sue pratiche di integrazione innovative avrebbero potuto essere usate per mettere a fuoco delle carenze di sistema; in fondo, la solidarietà alla Lucano ha voluto dire un’azione pubblica che si è prefissa di andare oltre quelle carenze, anche sfidando le norme, in nome del principio superiore del rispetto dei diritti delle persone. Perché si è spezzata quella sinergia? Cosa è cambiato negli anni dell’indagine, che ci aiuti a capire perché queste attività possono ora essere presentate come reati? Dal 2017 in poi, è certamente cambiata la politica migratoria, il cui paradigma si è orientato verso i respingimenti, il rifiuto di soccorso in mare, i “porti chiusi”, la criminalizzazione della solidarietà. Cosicché quelle pratiche d’integrazione diventano reato per un effetto retroattivo di questo cambiamento politico, costituiscono cioè dei “reati ex-post”. La ricostruzione della Procura si porta appresso il peso di questa forzatura sugli atti, in nome di idee che pretendono riscriverne il senso. Idee contro idee, dunque. Tocchiamo qui con mano il cuore del problema: il processo contro Lucano e Riace è un processo politico.
Quelle idee di accoglienza e integrazione che avevano costruito a Riace una comunità in cui gli stranieri non sono ospiti, ma parte integrante della comunità, coinvolti negli stessi bisogni, negli stessi destini, vengono ora riscritte come reati penali. Questo spiega anche la spinta poderosa che la campagna di denigrazione di Lucano e del modello Riace ha avuto in questi due anni, come parte integrante della criminalizzazione sfociata nel processo in corso. Campagna mediatica, certo, ancorché stimolata da misteriose fughe di stralci di conversazioni intercettate finiti non si sa come sulle scrivanie di un quotidiano della destra politica. Ma anche una campagna cui, nelle aule del Tribunale, la stessa Procura partecipa attraverso l’uso abbondante delle intercettazioni, peraltro prive di trascrizione ufficiale. Il Presidente ha un bel dire che le intercettazioni non possono essere trattate come prove, ma solo per favorire il riconoscimento dei soggetti coinvolti, o che sono sempre soggette a diverse interpretazioni, per questo le prove devono venire da altre fonti. L’accusa in realtà ne legge stralci su stralci, che interpreta in modo da dare un senso alla documentazione di cui dispone visto che, come deve lei stessa riconoscere, da soli i documenti non forniscono prove certe né sulle distrazioni, né sulle destinazioni finali dei fondi. Si ha insomma l’impressione di un circolo vizioso che rimanda dai documenti agli stralci di conversazioni intercettate e viceversa, in un ragionamento predittivo del tipo “come volevasi dimostrare” che nella premessa anticipa esiti dati come inevitabili.
Le intercettazioni hanno anche altre fragilità, non dicono se, dopo aver detto qualcosa, lo si è effettivamente messo in pratica. Sennò diventa un processo alle intenzioni! Come nel caso della conversazione in cui Lucano parla al fratello dell’idea di candidarsi alle elezioni politiche del 2018, su cui l’accusa fonda l’ipotesi di un movente politico-elettorale di cui ho detto più su, e che però finisce nel nulla, perché Lucano poi non si candida. E infatti l’ipotesi del movente politico viene abbandonata, anche se di tanto in tanto l’accusa prova ad evocarla. Molto, nel processo, si gioca in effetti sul piano del linguaggio con cui le ipotesi accusatorie vengono illustrate: un linguaggio spesso impreciso, che non evita di tornare a più riprese sugli stessi argomenti, che volentieri scivola verso l’insinuazione e che, se non può provare che ci sia un vantaggio personale, non disdegna di suggerire a mezza voce che potrebbe pure esserci. Come per esempio quando il colonnello Sportelli, parlando delle “economie” realizzate da Lucano sui fondi pubblici, dice “sono soldi che non ha speso, cioè un gruzzolo di denaro a sua disposizione”, oppure “un guadagno pulito, soldi non spesi per i migranti ma per altro”. Come se non si sapesse cosa ci ha poi fatto; nel rifiuto di considerarne la specifica finalità d’integrazione, resta solo un gruzzolo come un altro. E così si arriva al paradosso che in un paese come il nostro, che ha visto crescere sull’accoglienza dei migranti “profitti più alti della droga”, come ebbe a dire un noto criminale dedito al business dell’accoglienza, si può presentare come un reato grave l’aver voluto destinare tutte le “economie” all’integrazione.
Così quando la Procura illustra il reato di associazione a delinquere vediamo precisarsi il quadro che tiene insieme la rappresentazione che la Procura propone di Riace: Lucano e altri suoi collaboratori si sarebbero associati allo scopo di commettere un numero indeterminato di reati, che qui però prendono una consistenza diversa, quella del progetto criminale. Per usare le parole di Sportelli, “per fini diversi, di lucro o elettorali, si è voluto portare avanti un progetto, che era il modello Riace, nato in maniera egregia, che però pian piano è andato alla deriva”. Una deriva che non sarebbe imputabile ad errori, anomalie, o incapacità di gestione di numeri cresciuti a dismisura, ma alla volontà collettiva di un gruppo di persone, con Lucano in testa, che insieme si sarebbero organizzati per realizzare truffe, falsi, abusi e via dicendo. L’accusa legge l’esperienza di Riace come un piano preordinato per distrarre fondi e truffare lo Stato; certo, riconosce Sportelli, i rifugiati erano trattati bene, ma all’interno di un disegno criminale.
Cosicché le due strategie della Procura, negare l’anomalia di Riace e demolire il sindaco che l’aveva costruita, mettendo il suo impegno creativo al servizio dei suoi ideali di solidarietà e umanità, si rivelano come le due facce del tentativo di colpire al cuore la diversità di Riace e del modello di integrazione che vi si perseguiva, per evitare che quell’anomalia possa essere vista come laboratorio di buone pratiche, come rivelatrice di carenze di sistema nell’organizzazione dell’accoglienza in Italia, come esempio di convivenza pacifica fra comunità diverse. Inquadrare Riace in un progetto criminale consente che, dolo o non dolo, movente o non movente, sia ormai Riace stessa il reato. Il reato è l’idea di comunità, di sviluppo, di integrazione fra i popoli che Riace rappresenta. Per questo il processo politico in corso a Locri contro Lucano ci riguarda tutti, e ci sfida a resistere, per Riace e per tutti noi.
Giovanna Procacci, sociologa e docente universitaria milanese
Pubblicato lunedì 30 Novembre 2020
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