La Regione Umbria, attraverso la Presidente Donatella Tesei, ha stabilito che “relativamente al metodo farmacologico RU486 si dispone il superamento delle indicazioni previste dal DGR 1417 del 4 dicembre 2018 ‘interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico’ relativamente all’opportunità di somministrare la RU 486 in regime di ricovero in day hospital”.
Il senso della delibera è molto chiaro: ripristino dell’obbligo di un ricovero ospedaliero di almeno tre giorni per le donne intenzionate a sottoporsi a un’interruzione volontaria di gravidanza e impossibilità di ricorrere all’aborto farmacologico in regime di day hospital.
Si tratta di un provvedimento molto grave che viola il diritto alla privacy e lede la possibilità delle donne di decidere liberamente e che si pone in netto contrasto con la delibera adottata il 4 dicembre 2018 dalla precedente Giunta regionale umbra che, seppure arrivata in ritardo rispetto ad altre regioni, aveva comunque introdotto l’aborto farmacologico in regime di day hospital.
Per precisione, occorre sottolineare che l’aborto farmacologico viene praticato da molti anni in quasi tutti i Paesi europei; in Italia è dal 2009 che esiste tale possibilità, anche se le Regioni l’hanno attuata in tempi differenti.
Nel trattare questo argomento così delicato non può certo essere omesso il faticoso iter legislativo che caratterizzò l’applicazione della legge 194, denominata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.
La generazione delle donne che ha vissuto le battaglie degli anni 70 non può certo dimenticare l’importanza che ebbe quella legge, arrivata dopo quella sul divorzio e il relativo referendum, dopo la riforma sul diritto di famiglia e dopo la legge che istituì i consultori familiari, né tantomeno, il referendum del 1981 con il quale la legge 194 venne confermata.
Ciò che non va dimenticato è che quella legge venne approvata sulla spinta del movimento delle donne che vollero a gran voce far uscire dalla clandestinità un fenomeno – quello dell’aborto – praticato con mezzi di fortuna, in alcuni casi da persone poco scrupolose e in strutture insalubri, con il rischio di compromettere per sempre la salute della donna, se non addirittura la vita.
Il senso di quella battaglia fu proprio questo: tutela della salute e, finalmente, il riconoscimento di un problema che non poteva essere più taciuto. Non a caso, la legge è intitolata “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, a significare che con quelle norme si garantiva alle donne che dovevano abortire la massima sicurezza e, nel contempo, si promuovevano tutta una serie di misure volte a diffondere la cultura della prevenzione, nonché la diffusione di servizi come i consultori familiari a cui venivano demandati ulteriori compiti, oltre quelli già previsti con la legge istitutiva.
La genesi di questa legge, nata in un periodo molto fecondo della lotta delle donne, non dovrebbe mai essere dimenticata e fa parte di quel patrimonio di memoria di progresso civile di cui l’Anpi è custode e promotrice.
L’applicazione della 194, frutto di aspre battaglie, è stata purtroppo resa in molti casi difficile e tortuosa e, in diverse occasioni, è stata rimessa in discussione proprio da chi, in nome della famiglia e della salute delle donne, tenta di ricacciare indietro diritti, come l’autodeterminazione, che le donne hanno ottenuto tanto faticosamente.
Quanto fatto dall’attuale Giunta della Regione Umbria va purtroppo in questa direzione ed é una battuta d’arresto, un pesante ritorno indietro fatto proprio sul corpo delle donne, ancora una volta “oggetto” su cui certa politica misogina intende misurare il proprio potere e la propria forza.
Quanto fatto in Umbria è inaccettabile e deve trasformarsi in occasione per le forze democratiche e progressiste di unirsi e, insieme, combattere perché i diritti, conquistati con tanta difficoltà, non solo non vengano calpestati ma vengano accresciuti.
Coordinamento Anpi Umbria
Pubblicato giovedì 18 Giugno 2020
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