Alcune settimane or sono il New York Times ha pubblicato, suscitando un immediato scalpore, un editoriale anonimo a firma di un alto funzionario della Casa Bianca, nel quale si denunciano le gravi carenze dell’amministrazione Trump, giudicata incerta, ondivaga, emotiva ed estranea ai principi del Partito Repubblicano e agli stessi ideali della democrazia americana; ma il fatto più grave e più significativo è costituito dell’autodenuncia dell’autore, che ammette di essere uno dei membri dello staff che, per evitare conseguenze pregiudizievoli per il Paese, è giunto a porre in essere iniziative ostruzionistiche dell’attività del Presidente, per scongiurare i rischi derivanti dall’assunzione da parte di quest’ultimo di decisioni avventate e pericolose per l’intera Nazione.
Per i non pochi avversari della politica di Donald Trump, l’editoriale, giunto in un momento in cui la Casa Bianca si trova in difficoltà su più fronti, costituisce l’ennesima conferma dei timori sulle possibili conseguenze di una gestione della cosa pubblica non solo apertamente reazionaria, ma anche contraddittoria, avventata e dominata dall’imprevedibile personalità del Presidente, di cui l’anonimo editorialista sottolinea la mancanza di senso morale. Al tempo stesso, esso suona anche come un campanello d’allarme sul funzionamento della democrazia statunitense: è singolare e preoccupante, infatti, che in un ordinamento in cui il balance of power è una regola fondante, l’azione di contenimento di una condotta presidenziale quanto meno inadeguata, per non dire di peggio, trovi come attore principale un anonimo (anche se non isolato, a detta dell’articolo) membro dello staff (peraltro, tutto di nomina presidenziale), impegnato a salvaguardare, a suo dire, valori e principi della democrazia statunitense, attraverso quello che in ultima analisi è un occulto sabotaggio dell’attività di un’autorità comunque legittimata dal voto popolare. Al di là di qualsiasi giudizio sulla presidenza Trump, l’episodio è il sintomo di una paralisi dei meccanismi che sono chiamati ad attivarsi nei casi in cui si verifichino deviazioni gravi nell’ordine costituzionale dei poteri, tanto più grave quando ciò investa la presidenza, in ragione dell’ampiezza dei poteri ad essa assegnati dalla costituzione.
Questa vicenda, in altre parole, è rivelatrice di un aspetto della crisi dei moderni sistemi democratici, che non investe soltanto l’ordinamento statunitense e riguarda i modi della formazione e del concreto esercizio della funzione di indirizzo politico da parte degli organi di vertice dello Stato che ne sono titolari (in sostanza, potere legislativo e potere esecutivo). Da molti anni e da più parti, si è puntato, a questo proposito, sull’opzione “decisionista”, nel presupposto che se le moderne democrazie non acquisiscono capacità di decisione all’altezza dei problemi che sono chiamate ad affrontare, il deficit di operatività delle istituzioni è destinato ad allargare inevitabilmente lo iato con i cittadini, fino a mettere a rischio la coesione dell’intero sistema. Pertanto, la soluzione più frequentemente proposta – da ultimo, in Italia, con la riforma costituzionale bocciata dal referendum del 16 dicembre di due anni fa – è consistita nel rafforzamento dell’esecutivo, a scapito del legislativo, in nome della necessità di privilegiare la tempestività della decisione rispetto alle garanzie e alle procedure attraverso le quali essa si forma (spesso polemicamente liquidate come “lungaggini”), con un conseguente ridisegno dell’equilibrio dei poteri.
In questa prospettiva, l’editoriale del NYT deve essere letto non solo come un episodio, peraltro eclatante, di lotta politica, ma anche come un monito sulla effettiva fragilità del decisionismo istituzionale, di cui la Presidenza degli Stati Uniti, per l’ampiezza dei poteri e delle prerogative, costituisce un modello a suo tempo ammirato e vagheggiato da uomini politici e costituzionalisti nostrani (chi non ricorda gli estenuanti dibattiti sul presidenzialismo?). La constatazione che un potere monocratico apparentemente così forte possa trovare limiti e condizionamenti nell’azione informale di contrasto messa in essere da soggetti non legittimati e che si sostituiscono ai rimedi previsti dall’ordinamento, dovrebbe fare riflettere non solo sulla debolezza del decisionismo come modello istituzionale, ma anche e soprattutto sulle prospettive generali dei sistemi democratici, e sulla necessità che i processi di formazione della volontà politica avvengano in contesti di maggiore equilibrio e collaborazione tra i diversi soggetti istituzionali, proprio ai fini dell’efficacia della decisione e della sua adeguatezza.
Sotto questo profilo, la situazione che si sta delineando nel nostro Paese presenta non pochi motivi di preoccupazione. Al di là delle incertezze sui contenuti dell’azione di governo e dell’ossessiva denuncia di nemici veri o immaginari contro cui orientare un’opinione pubblica sempre più frastornata, lo squilibrio tra i poteri dello Stato si manifesta attualmente nella forma di una diarchia interna all’Esecutivo priva di regole, nella quale l’azione di ciascuno dei due vice premier è condizionata dall’esigenza di ampliare la propria base di consenso, anche evocando una strumentale contrapposizione tra la sovranità popolare e i principi e i vincoli sui quali si fonda lo Stato di diritto. Da ciò derivano le dichiarazioni e gli impegni mossi dall’emotività del momento e destinati a rivelarsi di improbabile realizzabilità, mentre si accavallano i casi di sconfinamento nell’ambito di competenza di altri soggetti istituzionali e i comportamenti al limite della legalità, se non oltre. Tutto ciò in aperta violazione del principio di collegialità dell’azione di governo, e del principio costituzionale per cui la direzione della politica generale del governo, il coordinamento dell’attività dei ministeri e l’omogeneità dell’indirizzo politico e amministrativo spetta al Presidente del Consiglio, che, nell’attuale contingenza, è invece una figura quanto meno evanescente: un aspetto solo apparentemente secondario, in quanto alimenta la paradossale situazione di un’azione di governo che, come rivela una recente indagine di Openpolis, si caratterizza nella realtà per inerzia e incertezza, quanto più tende a presentarsi decisionista e muscolare alla pubblica opinione.
In questo clima di destrutturazione dell’assetto costituzionale dei poteri, non è infrequente che coloro che lo stanno determinando si presentino come i suggeritori dei rimedi. Le esternazioni estive di Grillo e Casaleggio sul superamento della democrazia rappresentativa e sulla sostituzione del sorteggio all’elezione dei parlamentari sono evidentemente dei ballon d’essai che hanno però di mira un obiettivo che l’attuale governo sta perseguendo con fermezza. L’ipotesi di sostituire al circuito istituzionale della decisione politica, il pronunciamento popolare online sulle proposte alternativamente avanzate da uno o più leader (a questo si riducono infatti le proposte dei due personaggi) non è solo il canovaccio di un mediocre film di fantascienza, ma si propone di suggerire un modello istituzionale nel quale ogni forma di responsabilità dei governanti verso i governati viene meno. Paradossalmente, proprio chi ha costruito la propria fortuna politica stigmatizzando l’assenza di trasparenza nell’azione dei pubblici poteri, opera oggi attivamente per demolire il semplice e fondamentale principio in base al quale il governo e il parlamento rispondono agli elettori del loro operato attraverso i meccanismi preordinati dalla Costituzione. Quale responsabilità può infatti farsi mai valere, qualora i governanti si considerino legittimati ad agire (o, meglio, ad esternare) in base a una mera presunzione di consenso del corpo elettorale (molto più probabilmente di una frazione di esso), mentre vengono depotenziati procedure e istituti che li obbligano a rendere conto delle scelte compiute o delle azioni intraprese? In verità, mentre gli esponenti del governo rivendicano la loro fedeltà alla volontà popolare, altri fatti e dichiarazioni lasciano trasparire l’opposta volontà di eludere il dovere di rispondere pubblicamente del proprio operato, tanto più nel momento in cui si palesano le difficoltà a concretizzare un programma di governo fatto di una serie di promesse demagogiche e contraddittorie.
Oggi più che mai occorre riflettere seriamente sul significato e sul valore etico ancor prima che politico delle regole costituzionali poste a presidio della democraticità del rapporto tra cittadini e istituzioni. Le pose gladiatorie, la ricerca dei capri espiatori, le false notizie e i falsi allarmi, le accuse generiche fanno parte di una politica che – per riprendere le parole pronunciate da Barak Obama nell’elogio funebre del senatore McCain – pretende di ostentare determinazione e forza, ma in realtà è lambita dalla paura e dall’incertezza.
Pubblicato venerdì 28 Settembre 2018
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