L’8 aprile 1948, pochi giorni prima delle elezioni politiche fissate per il 18 del mese, il Consiglio dei ministri approvò, su proposta del presidente De Gasperi, il decreto legislativo “Foggia ed uso dell’emblema dello Stato” che, pubblicato pochi giorni dopo sulla Gazzetta Ufficiale, avrebbe preso il numero 535 e la data del 5 maggio 1948.
L’articolo 1 descriveva il nuovo emblema della Repubblica (anche se l’intitolazione del provvedimento preferiva utilizzare il termine “Stato”), «composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale ‘Repubblica italiana’», come effigiato nella tavola annessa al provvedimento. I successivi articoli disponevano che il nuovo emblema avrebbe gradualmente sostituito stemmi e sigilli fino ad allora in uso, confermando inoltre la prescrizione dell’articolo 7 del Decreto Legislativo Presidenziale 19 giugno 1946, n. 1 (Nuove formule per l’emanazione dei decreti ed altre disposizioni conseguenti alla mutata forma istituzionale dello Stato), che, con apprezzabile spirito di parsimonia, aveva «consentito, fino ad esaurimento delle scorte, l’uso delle carte valori, degli stampati e dei moduli già esistenti», avendo in precedenza il Decreto legislativo luogotenenziale 26 ottobre 1944, n. 313 (Soppressione del fascio littorio dallo stemma dello Stato e dai sigilli delle pubbliche amministrazioni e dei notai) provveduto, sia pure con scarsa tempestività, alla rimozione legale del fascio littorio dallo stemma dello Stato e dai sigilli delle pubbliche amministrazioni e dei notai. Peraltro, l’attuazione del provvedimento era stata lacunosa, e i simboli fascisti continuarono ad apparire nella corrispondenza ufficiale dello Stato anche dopo l’ottobre del 1944, al punto che l’11 dicembre 1946, il capo della Commissione alleata di controllo, ammiraglio Ellery W. Stone, dopo avere ricevuto due telegrammi con gli stemmi della Casa Reale e del partito fascista, segnalò la cosa al presidente del Consiglio De Gasperi in una lettera, nella quale affermava, tra l’altro: «mentre ritengo che la opportunità o meno di fare apparire su un modulo telegrafico dello Stato le insegne reali rientri puramente nella competenza del Governo Italiano, credo che il continuato uso dello stemma fascista costituisca una violazione, anche se dovuta a trascuratezza, delle condizioni di armistizio».
Già sei mesi prima della lettera di Stone, peraltro, il citato articolo 7 del decreto presidenziale n. 1 del 1946 aveva tracciato il percorso procedurale attraverso il quale si sarebbe dovuto pervenire all’elaborazione del nuovo emblema repubblicano: il presidente del Consiglio avrebbe nominato una Commissione incaricata di studiarne il modello, da sottoporre poi, come proposta dell’Esecutivo, all’Assemblea Costituente per l’approvazione definitiva.
La Commissione fu nominata, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri 27 ottobre 1946: oltre a Ivanoe Bonomi, chiamato a presiederla, ne facevano parte Pietro Toesca, professore di storia dell’arte nell’Università di Roma e presidente dell’Istituto di archeologia e storia dell’arte; Duilio Cambellotti, scultore; Liborio Patri, ispettore superiore del tesoro reggente la Zecca; Emilio Re, direttore degli Archivi di Stato; Giuseppe Romagnoli, scultore; Oliviero Savini-Nicci, presidente di sezione del Consiglio di Stato, esperto in materia araldica e due membri dell’Assemblea Costituente, Florestano Di Fausto (Dc) e Enrico Minio (Pci).
Nella prima seduta, il 5 novembre 1946, la Commissione decise di ricorrere a un concorso a premi fra gli artisti italiani, riservandosi di scegliere cinque progetti fra quelli presentati, premiati ciascuno con 10mila lire. I cinque artisti prescelti avrebbero poi dovuto presentare un nuovo elaborato, per la scelta definitiva. La Commissione diede anche delle indicazioni di carattere contenutistico, raccomandando anzitutto la semplicità, l’esclusione di simboli già adottati dai partiti e, in positivo, l’inserimento nel progetto grafico della stella d’Italia, simbolo del pianeta Venere (guida, secondo la tradizione, del viaggio di Enea, figlio della dea Venere, da Troia verso l’Italia) ed elemento iconografico ricorrente nelle rappresentazioni della nazione, sin dal Risorgimento, inserito anche nello stemma di casa Savoia.
Al concorso presero parte 341 candidati, che presentarono 687 bozzetti in bianco e nero. Malgrado l’ampiezza della partecipazione, i risultati furono deludenti, anche per la mancata adesione di artisti e incisori esperti, e la relazione al presidente del Consiglio sulla conclusione dei lavori della Commissione, firmata da Bonomi ma redatta da Emilio Re, non faceva sconti nel giudizio sulla qualità delle opere sottoposte: «inutile dire che la maggior parte dei tali disegni rappresentavano elucubrazioni di “candidi” dilettanti: pochissimi indicavano la mano dell’artista vero e quel minimo di qualità tecniche indispensabile per essere anche solo presi in considerazione. Nessuno a ogni modo mostrò di aver penetrato l’argomento e di averne saputo ideare l’interpretazione geniale che la Commissione aveva sperato di ottenere dalla collaborazione degli artisti italiani».
Nonostante questo impietoso giudizio, la Commissione non volle sottrarsi al compito affidatole e, da una rosa di candidati già ristretta a venticinque artisti, trasse il nome dei cinque vincitori: si trattava di Alfredo Lalia, grafico pubblicitario, Cafiero Luperini, incisore, proveniente, insieme a Duilio Cambellotti, dalla scuola di Adolfo De Carolis, maestro del simbolismo italiano di fine Ottocento; Publio Morbiducci, esperto in bozzetti per medaglie; Virgilio Retrosi, incisore e ceramista, allievo di Cambellotti e Paolo Paschetto, pittore e incisore di Torre Pelice, che sarebbe risultato vincitore del concorso. In una lettera del 14 dicembre 1946, la Commissione specificò ulteriormente quali elementi iconografici avrebbero dovuto fare parte dell’emblema: tra la stella in alto e il mare («in omaggio alla posizione e al destino naturale della penisola italiana») in basso, al centro avrebbe dovuto campeggiare «una cinta turrita con porta aperta che abbia forma di corona, ma apparenza anche di nobile edificio», simbolo della sovranità e immagine viva delle attitudini costruttive e delle tradizioni della civiltà»” accompagnata dalla parole «Unità, libertà», «che rappresentarono il programma del Risorgimento che, come tali, sono iscritte sul fronte del Vittoriano, ma che non sono oggi di minore attualità». Occorre peraltro ricordare che la cinta di torri non era una novità nell’iconografia istituzionale, dato che proprio la Repubblica era stata rappresentata nella scheda per il referendum istituzionale – secondo la decisione adottata dal Consiglio dei ministri nelle sedute del 28 e 29 marzo 1946 – con la testa femminile dell’Italia turrita circondata da due fronde di alloro e di quercia, contrapposta al simbolo monarchico della corona sovrapposto allo stemma di casa Savoia.
Risultò alla fine prescelto uno dei tre bozzetti di Paolo Paschetto, al quale furono impartite ulteriori istruzioni per la versione definitiva, della quale, dopo l’approvazione da parte della Commissione, il 3 febbraio 1947, veniva fornita la seguente descrizione araldica:
«Campo di cielo alla corona di otto torri, al naturale, accompagnata in capo dalla stella d’Italia, raggiante, d’oro, e in punta dal mare ondoso. Il tutto incorniciato da due rami d’olivo con le scritte in basso (sinistra) Libertà (destra) Unità».
La simbologia politica del bozzetto veniva invece così illustrata nella relazione conclusiva della Commissione che, tra l’altro, conteneva uno dei primi riferimenti alla Resistenza come secondo Risorgimento presenti in un documento ufficiale:
«L’olivo che incornicia lo stemma dice anzitutto la volontà di pace del popolo italiano, ma la cinta turrita, a forma di corona, che ne costituisce la figura principale indica la forza di resistenza, anche eroica, di cui questo stesso popolo è capace, e insieme la dignità da cui l’Italia non può, per nessuna vicenda e per nessun motivo, decadere giammai. Quanto alla stella, essa sta ad indicare la speranza nella nostra Resurrezione, e le parole UNITÀ e LIBERTÀ, che si sono pure volute inserire, congiungeranno il primo al secondo Risorgimento e rammenteranno agli immemori il messaggio che Giuseppe Mazzini ha affidato al Popolo Italiano perché lo adempia nei confini ad esso segnati – tra le Alpi e il mare – da Dio».
La scelta della Commissione non risultò convincente: esposto con i bozzetti degli altri finalisti in una mostra appositamente organizzata a Roma, presso l’Associazione artistica internazionale in via Margutta, l’elaborato prescelto fu oggetto di critiche ironiche e impietose da parte del pubblico e della stampa (non mancò chi definì una «tinozza» il bozzetto vincitore), critiche peraltro condivise, nella sostanza, anche dal presidente del Consiglio che, in una lettera del 25 luglio 1947, indirizzata a Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea costituente, si espresse dubbiosamente sull’opportunità che il Governo assumesse la responsabilità di dare ulteriore corso all’emblema prendendo “l’iniziativa di proporre un simbolo non certo molto ben riuscito e rappresentativo”. La proposta di Terracini, di affidare un incarico ex novo a Duilio Cambellotti non fu però accolta da De Gasperi, dato che Cambellotti stesso era stato un sostenitore dell’elaborato di Paolo Paschetto, risultato alla fine vincitore.
Non restava altra strada che sottoporre l’intera questione all’Assemblea costituente, come peraltro era previsto dal citato articolo 7 del decreto legislativo presidenziale n. 1 del 1946. Nella seduta del 19 gennaio 1948, il presidente Terracini informò l’Assemblea dell’intervenuta trasmissione, da parte del Governo, dell’elaborato prescelto dalla Commissione Bonomi, e degli altri bozzetti già selezionati dalla Commissione stessa, al momento esposti in una sala del palazzo di Montecitorio. I deputati costituenti accolsero quindi la proposta del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, di prendere in considerazione anche altri elaborati grafici pervenuti fuori dei termini del concorso a suo tempo bandito, dato che, secondo le parole del rappresentante dell’Esecutivo, «il bozzetto premiato dall’apposita Commissione presieduta dall’onorevole Bonomi è stato presentato alla Costituente, ma senza convinzione da parte del Governo che fosse tale da poter essere poi prescelto come stemma della Repubblica». Si deliberò pertanto di dare vita a una Commissione ad hoc, dando mandato al Presidente dell’Assemblea di procedere alla nomina. La Commissione risultò poi così costituita: Giovanni Conti (Pri), presidente, Fabrizio Maffi (Pci), Emilio Lussu (Autonomista), Angela Guidi Cingolani (Dc), Mario Cevolotto (Democrazia del lavoro), Guglielmo Giannini (Uomo qualunque), Orazio Condorelli (Liberale), Gino Pieri (Psi), Nino Mazzoni (Psli), Giuseppe Candela (Unione democratica nazionale) e Guido Russo Perez (Unione nazionale).
La Commissione lavorò celermente, considerato anche che si era nella fase conclusiva dei lavori dell’Assemblea: ritenendosi inadeguati tutti gli elaborati presentati, il 21 gennaio fu bandito un nuovo concorso, pubblicizzato per radio e sulla stampa. Giunsero 197 disegni, opera di 96 autori, raggruppabili, secondo la relazione conclusiva presentata dal presidente Conti all’Assemblea il 30 gennaio, sulla base di alcuni concetti: “api, scudo con corona turrita, ruota dentata con stella, aquila, torre con faro, stella”. Risultò prescelta la stella su ruota dentata, circondata da due rami di ulivo e di quercia, con la scritta Repubblica italiana in basso, opera del pittore Paolo Paschetto, che risultava così per la seconda volta il vincitore della selezione: la stella d’Italia, rappresentava l’unico elemento grafico di continuità rispetto al passato, mentre la ruota dentata richiamava il tema del lavoro, quale fondamento dell’ordinamento democratico repubblicano, e l’ulivo e la quercia, piante tipiche della penisola, erano chiamata a rappresentare, rispettivamente, la volontà di pace del popolo italiano nonché la sua forza e la sua dignità. Tacitamente, era scomparso il riferimento alla cinta turrita e ad altri elementi grafici che avessero potuto evocare una tematica guerresca, mentre venivano valorizzati i simboli repubblicani della pace e del lavoro, stabilendo, per questo aspetto, una significativa frattura iconografica con lo stemma sabaudo, ispirato invece allo schema del trofeo militare.
Le conclusioni della Commissione furono sottoposte all’Assemblea costituente nella sua penultima seduta, la mattina del 31 gennaio: era però ancora una strada in salita. Alle perplessità del democristiano Enrico Medi sulla qualità dell’elaborato prescelto, si aggiunsero quelle del suo compagno di partito Florestano Di Fausto, già membro della Commissione Bonomi, il quale propose di demandare al futuro Parlamento la decisione ultima. Alla proposta di rinvio si associarono il comunista Olindo Cremaschi, il liberale Tommaso Corsini, il repubblicano Aldo Spallicci, nonché il comunista Concetto Marchesi che, suscitando l’ilarità dell’Assemblea, ironizzò su un emblema «così copiosamente ghiandifero». Il repubblicano Tomaso Perassi, pur condividendo le perplessità dei colleghi, ricordò che la problematica dell’emblema avrebbe dovuto essere considerata separatamente dall’altro e ben più rilevante e visibile simbolo nazionale, la bandiera, che i costituenti avevano stabilito fosse il tricolore bianco, rosso e verde (articolo 12 della Costituzione), senza le aggiunte che avevano caratterizzato la bandiera monarchica, mentre il democristiano Giuseppe Bettiol fece presente che, nel caso di un rinvio della decisione, l’Assemblea avrebbe dovuto comunque dettare i criteri ai quali avrebbero dovuto attenersi gli artisti che avessero voluto nuovamente cimentarsi con il tema dell’emblema repubblicano.
A tutti replicò uno spazientito Presidente dell’Assemblea. Umberto Terracini espresse comprensione per la delusione manifestata dai suoi colleghi sull’esito insoddisfacente di un lavoro che si trascinava da mesi, ma sottolineò anche la difficoltà di pervenire a una soluzione che desse soddisfazione a tutte le diverse istanze artistiche e politiche che si erano manifestate a proposito del tema in discussione. Occorreva, aggiunse il Presidente, privilegiare il dato politico: «L’importante – disse – è che vi sia la Repubblica. Ma è anche necessario che la Repubblica abbia un proprio simbolo» per cui, mettendo da parte aspettative eccessive, sarebbe stato bene pervenire comunque a una deliberazione sulla questione. In sintonia con il Presidente dell’Assemblea si espresse anche Giovanni Conti, il quale, per sostenere la necessità di pervenire comunque a una deliberazione, ricordò il rifiuto pregiudiziale opposto dalla Commissione da lui presieduta alla proposta ventilata da alcuni deputati monarchici, di continuare a utilizzare gli emblemi in uso durante il regno d’Italia.
Convinta dalle argomentazioni del Presidente, l’Assemblea approvò quindi l’emblema repubblicano, secondo la proposta della Commissione.
Subito dopo la deliberazione, l’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea costituente indicò, su parere dello stesso Paschetto, i colori da adottare, poiché il disegno approvato era stato presentato in bianco e nero, mentre l’Ufficio araldico della Presidenza del Consiglio, incaricato di formulare la descrizione ufficiale dell’emblema, manifestò l’opinione che fosse preferibile sostituire l’alloro con l’ulivo, poiché secondo il cancelliere della Consulta araldica, conte Tosi, la presenza della quercia, simbolo di durata nel tempo e dell’ulivo, simbolo di pace, avrebbe potuto costituire un funereo richiamo alla pace eterna, mentre l’alloro era da sempre simbolo di gloria.
Anche queste obiezioni vennero superate, e alla fine l’emblema repubblicano venne finalmente reso definitivo con l’approvazione del decreto legislativo 5 maggio 1948. N. 535.
Il percorso non era stato facile, ma, a distanza di settant’anni, non si può non dare ragione a quanto Umberto Terracini aveva affermato durante la discussione alla Costituente: «Credo – aveva detto il Presidente – che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo riprodotto, finirà con l’apparirci caro; e questa è la cosa importante». Di certo, al di là di ogni considerazione estetica, negli anni l’emblema repubblicano ha costituito una presenza silenziosa, il più delle volte inavvertita, ma costante, nella vita quotidiana degli italiani, e, come tutti i simboli, primo fra tutti, ovviamente, la bandiera nazionale, ha contribuito ad assolvere alla funzione non secondaria di rappresentare tangibilmente un sentimento di appartenenza non arroccato su anacronistiche posizioni identitarie, ma fondato su una visione aperta della cittadinanza, alimentata dai valori democratici che la Costituzione repubblicana pone alla base della convivenza civile.
Pubblicato venerdì 1 Giugno 2018
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