Roma. Durante l’occupazione tedesca avvenuta a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 furono molti i vigili del fuoco che presero parte alla guerra di Liberazione. Antonio Nardi fu uno di loro. Apparteneva al Movimento Comunista d’Italia, meglio conosciuto con il nome del suo periodico, Bandiera Rossa, che fu la formazione più perseguitata dai nazifascisti per la capillare presenza nel tessuto sociale romano. Lo confermerà drammaticamente il massacro del 24 marzo 1944 di 335 persone nelle cave Ardeatine, dove furono 52 le vittime aderenti al Movimento Comunista. L’eccidio avvenne in rappresaglia all’azione di via Rasella da parte dei partigiani che causò la morte di 33 militari tedeschi. La ritorsione del 10 a 1 venne addirittura superata. Sarà proprio la cellula dei vigili del fuoco di Bandiera Rossa a fotografare e denunciare questo orrore.
Antonio Nardi svolgeva servizio volontario come autista presso il Comando di via Genova. È una delle poche informazioni pervenute sino a noi: un allagamento dell’archivio all’interno dello stesso Comando ha reso gran parte della documentazione inaccessibile. I dati su Nardi restano quindi frammentari e relativi alla sua corrispondenza con i familiari e a poche altre testimonianze informali. «Essendo Nardi un ottimo meccanico, Venerio lo portava sempre con sé quando, per lavoro come responsabile dello spaccio e della mensa di via Genova, doveva uscire con il mezzo del corpo per rifornirsi di scorte e di generi alimentari» scriveva Armando Ianelli, vigile del fuoco, in una lettera destinata al figlio del brigadiere Venerio Ranieri, compagno di lavoro e di scelta politica di Nardi, a cui il Pci, dopo la Liberazione di Roma, intitolerà un nucleo di combattenti.
Nardi verrà arrestato per una delazione il 10 dicembre 1943 e recluso nelle prigioni di Regina Coeli. «Carcere preventivo» è scritto sulla scheda di custodia firmata da un sergente delle SS. Da qui, verrà condotto il 7 marzo 1944 al Forte Bravetta per essere fucilato, condannato senza processo. Con lui, altre dieci persone, tra cui Giorgio Labò, l’artificiere della Resistenza romana. Furono i capri espiatori che i tedeschi scelsero come ritorsione ad un’azione compiuta da altri partigiani il 5 marzo al Quarticciolo, periferia est di Roma. Nel 1946 la Presidenza del Consiglio dei ministri dichiarerà Nardi partigiano combattente Caduto. Queste sono le uniche informazioni che conosciamo del vigile del fuoco partigiano.
«Per questo abbiamo deciso di dedicargli questa sezione» spiega Claudio Garibaldi, già vigile del fuoco e fondatore della sezione Anpi Antonio Nardi, inaugurata a Roma il 25 giugno. «I volontari erano preziosissimi per il Corpo perché ne accrescevano il numero, in prospettiva dei bombardamenti. Ma ce ne sono due particolarmente dimenticati: Nardi, appunto, e Aldo Angelai, vittima delle Fosse Ardeatine e militante del Partito Socialista di Unità Proletaria. Entrambi erano volontari, il primo autista e il secondo macellaio. Per entrambi si ha una documentazione esigua. Ma mentre Angelai è presente sulla lapide dei partigiani di piazza Santa Maria in Trastevere (e il suo nome viene pronunciato ogni anno in occasione della cerimonia ufficiale alle Fosse Ardeatine), il nome del partigiano Nardi non figura da nessuna parte, se non sulla lapide dove si ricorda la sua uccisione. È stato di certo quello più dimenticato tra i due. Sono entrambi figli di un dio minore, nel senso che si trovano schiacciati da una macchina molto grande. Nessuno dei due di fatto viene processato e vengono uccisi perché serviva un colpevole» continua Garibaldi.
Il Corpo dei vigili del fuoco nasce dall’unione dei Civici Corpi Provinciali, quando, con l’incedere della seconda guerra mondiale, fu indispensabile uniformare le azioni di soccorso a livello nazionale per l’incombente pericolo dei bombardamenti. Fino alla mattina del 19 luglio 1943 in pochi pensavano che Roma sarebbe stata bombardata: il Vaticano poteva conferirle il privilegio di città santa e la peculiarità del suo vasto patrimonio artistico-archeologico la potevano rendere intoccabile. Ma non andò così. “Cadevano le bombe come neve, il 19 luglio a San Lorenzo” cantava Francesco De Gregori. Quel giorno le forze alleate colpirono la zona est della Capitale. L’obiettivo fu la stazione Tiburtina, secondo snodo ferroviario romano e colonna portante dell’Italia dei trasporti su ferro. Distruggerla avrebbe significato paralizzare i nazisti e aprire la strada alla Quinta Armata che sarebbe dovuta giungere a Roma di lì a qualche mese. Da questo momento Roma sarà bombardata altre 51 volte e non servì averla dichiarata città aperta dal Comando Supremo italiano: le batterie antiaeree non avrebbero reagito in caso di passaggio di aerei nemici, le fabbriche di armi e gli stabilimenti militari sarebbero stati trasferiti e i nodi ferroviari non più utilizzati per scopi militari. Tutto inutile. La dichiarazione non venne riconosciuta dagli Alleati e la Capitale fu bombardata fino al 3 maggio 1944, quando colpì i quartieri della Magliana e del Quadraro. Di lì a un mese, il 4 giugno, la città sarebbe stata liberata. Il 5 giugno cadde l’ultimo partigiano combattendo contro i tedeschi in ritirata: Ugo Forno, detto Ughetto, un bambino di 12 anni.
Furono sganciate 4mila bombe che provocarono circa 3mila morti e 11mila feriti, di cui la metà solo nel quartiere San Lorenzo. Il Parco dei Caduti, un percorso rasoterra di lastre di cristallo retroilluminate, ricorda i nomi delle 1674 vittime. Ma molte non furono mai identificate.
In questa cornice, i pompieri partigiani non ebbero il solo ruolo canonico di soccorritori: veicolavano altresì persone clandestinamente, vestendole della loro divisa e spostandole con i mezzi del Corpo. Non solo. «Uscivano di notte, andavano dove volevano. Bastava una scusa per uscire, un intervento, e poi erano liberi di girare la città. Trasferivano armi. Hanno spostato una delle due radio romane clandestine, quella di Bandiera Rossa sul Lungotevere. Abbiamo delle lettere di altre organizzazioni che dicono “meno male che ci sono i vigili del fuoco che fanno questi spostamenti”. È un lavoro molto basso, di copertura, ma essenziale» chiosa Garibaldi.
Molti edifici civili e militari del centro di Roma vengono adibiti a comandi e uffici delle SS, trasformando il centro della città nel loro quartier generale. Anche la caserma centrale di via Genova viene occupata. «All’interno, però, venivano custodite delle armi. Questa politica del “tanto qui non se ne accorgerà mai nessuno perché troppo sfacciata” ci ha colpiti. Non potevano compiere atti di sabotaggio perché se fosse successo qualcosa i colpevoli erano lì, all’interno del comando. In quella sede non entrava nessun altro. Ma spesso non riuscivano a rimanere inerti: ogni mattina c’erano due o tre vetture tedesche che stentavano a partire, o avevano un pezzo rotto. Erano iniziative personali, ma stavano attenti a non esagerare perché qualche volta i tedeschi si insospettivano e si lasciavano accompagnare da persone per loro fidate che invece erano proprio gli organizzatori di queste azioni di sabotaggio!» continua compiaciuto Garibaldi.
Nel febbraio 1944 vengono chiamati i pompieri per un incendio “ad un treno carico di munizioni nella zona di piazza Zama e la stazione Ostiense” riporta il sottufficiale Venerio Ranieri nella stessa relazione in cui menziona Nardi. “Saputo però che detto incendio fu causato da una nostra banda di partigiani e precisamente la banda di Bruno, sabotai con altri lo spegnimento, tagliando tubi e danneggiando le pompe in modo che andasse tutto distrutto”.
Il livello di clandestinità era tale che «anche sul posto di lavoro, colleghi di due formazioni antifasciste diverse agivano per la stessa causa senza saperlo. Allo stesso tempo convivono con organizzazioni fasciste all’interno del comando» spiega Gabriele Miele, presidente della sezione dedicata a Nardi. Gran parte dei “clandestini” non portava a conoscenza della loro doppia vita i familiari per proteggerne l’incolumità. «Questo è dettato anche dal fatto che in quegli anni a Roma i pompieri svolgevano 72 ore di servizio continuative, con una pausa di 24 ore. Difficilmente riuscivano a tornare a casa per le condizioni della viabilità che il conflitto aveva reso difficoltose. Ma erano dei privilegiati perché nella carestia della città, loro non avevano problemi di cibo e quello avanzato dalle mense potevano portarlo alle famiglie. Erano nel cuore del fascismo» aggiunge Miele. I vigili del fuoco furono uno dei corpi militari che ebbe maggiore attenzione da parte del regime fascista. Benito Mussolini non mancava mai di elogiarne la preziosa opera e presenziò, nel 1939, alla cerimonia di inaugurazione delle Scuole Centrali Antincendi di Roma. E fu ancora il Duce che con un decreto legge, in conformità degli italianizzanti programmi, nel 1938 abolì il termine pompiere, di derivazione francese, in favore di vigile del fuoco, in memoria dei vigiles dell’antica Roma a cui il fascismo spesso si ispirava.
Il 10 settembre 1943 i tedeschi occuparono Roma, dopo la drammatica battaglia di Porta San Paolo, disperato tentativo di militari e civili italiani di opporsi all’invasore nazista, già avviato alla periferia sud di Roma fin dall’annuncio dell’armistizio, la sera dell’8. Morirono oltre quattrocento civili. All’alba del 9, il re Vittorio Emanuele III, il capo del Governo Pietro Badoglio e le autorità militari avevano abbandonato Roma senza impartire nessuna direttiva precisa, lasciando l’esercito nella più assoluta incertezza. «Tra le vittime di quei giorni ci furono anche due vigili del fuoco: Gianbattista Pasini, di La Spezia e di cui non ci sono note le circostanze della morte, e Alberto De Jacobis ucciso da un colpo di pistola alla tempia da un paracadutista tedesco mentre era uscito dalla caserma di via Marmorata per vedere cosa stesse accadendo» spiega Claudio Garibaldi. Dal 1994, la sede dove De Jacobis trovò la morte, porta il suo nome.
È difficile stimare quanti fossero i pompieri partigiani per l’esigua disponibilità delle fonti utili a ricostruire queste vicende storiche. «Nell’archivio della sezione Anpi provinciale di Roma ne risultano 65 e ci sono relazioni non ufficiali di persone che hanno raccontato cosa hanno fatto, ma molte memorie sono sfilacciate. Nell’immediato dopoguerra dichiararsi partigiani qualche beneficio lo dava, principalmente a livello sociale. Per un certo periodo, però, è stato anche controproducente, per cui molti hanno fatto un passo indietro» dice Garibaldi. Nel 1946, infatti, l’amnistia promulgata da Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, venne applicata in modo estensivo o parziale dai giudici rimasti per la quasi totalità gli stessi del Ventennio: gran parte dei gerarchi del regime fascista verranno graziati e, al contrario, i partigiani verranno processati e reclusi. Questo fenomeno ha l’apice nel 1947, dopo la caduta del terzo governo De Gasperi, quando gli Stati Uniti impongono la cacciata dei comunisti e dei socialisti dal governo e ancor di più dopo la vittoria della Democrazia cristiana nelle elezioni del 18 aprile 1948. L’oscuramento della Resistenza e della sua storia venne bandita dalle scuole fino agli anni Settanta.
«La memoria è indispensabile e ti dirò di più: quando mi chiedono che cos’è la storia, che cos’è la memoria, io racconto sempre che mio nonno quando camminava si guardava continuamente indietro. Una volta gli chiesi: “Nonno perché vi voltate sempre indietro?”. Lui mi rispose: “Bisogna, perché è da lì che viene il modo per andare avanti”. Quindi è giusto che un popolo, che una persona, che un Paese tenga conto di quello che hanno dato quelli venuti prima di loro» diceva lo scrittore e sceneggiatore Tonino Guerra in una delle sue ultime interviste prima di morire, nel 2012. Guerra fu antifascista e per questo nel 1944 venne prima detenuto nel campo di concentramento di Fossoli, in provincia di Modena, e poi deportato nel campo di internamento di Troisdorf, in Germania.
La memoria della Resistenza di Roma è stata impreziosita dal recente conferimento alla città della Medaglia d’Oro al Valor Militare da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un riconoscimento importante, a molti anni di distanza, che riconnette passato e presente e riconosce alla città il suo carattere combattente rispetto alle politiche discriminatorie e di sterminio che l’occupazione nazifascista imponeva.
La sezione Nardi «nasce proprio dalla volontà di dare uno stimolo alla nostra memoria che è sempre più simile a quella dei criceti: se non vengono sottoposti a uno stimolo per molte volte, dimenticano. Questo problema lo ha anche l’Italia» commenta Gabriele Miele. Una nascita che «saprà dare impulso alla ricostruzione delle travagliate vicende di questa importante categoria di lavoratori» aggiunge Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi Roma, perché «al di là delle vicende politiche, aprire una sezione Anpi è un atto rivoluzionario e vorremo essere il volano affinché se ne aprano altre» gli fa eco Garibaldi.
Mariangela Di Marco
Pubblicato mercoledì 27 Novembre 2019
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