Il 29 novembre 2018 è stato convertito in legge (la n.132 del 2018) il cosiddetto Decreto Immigrazione e Sicurezza, contenente nuove disposizioni in materia di protezione internazionale e immigrazione.
L’iter parlamentare si è distinto per una sostanziale assenza di dibattito interno alla maggioranza, e per la completa mancanza di interlocuzione con tutti gli attori coinvolti nella gestione del sistema di accoglienza, da quelli della società civile a quelli istituzionali.
La fiducia è stata posta sia al Senato sia alla Camera e quasi nessuna delle numerosissime richieste di emendamento presentate è stata accolta.
Poche settimane prima, il 7 novembre, erano state pronunciate le nuove Linee Guida relative ai bandi per i Centri di Accoglienza Straordinaria, che dimezzano tutti i servizi per l’integrazione, compreso l’insegnamento dell’italiano, elevando a norma la peggiore delle prassi: i grandi centri dormitorio.
Innanzitutto è bene ricordare brevemente le novità introdotte dalla legge n° 132/2018 e le sue più macroscopiche criticità. Non è questa la sede per elencare i numerosi profili di incostituzionalità, né per effettuare una disamina delle tante previsioni che caratterizzano questa norma come un atto fortemente discriminatorio nei confronti dei migranti in generale e dei richiedenti asilo in particolare, tanto che si può agevolmente parlare di apartheid giuridico.
Ci interessa qui capire l’impatto sul sistema di accoglienza.
Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (meglio conosciuto con l’acronimo SPRAR), concepito nel 2002 per essere l’unico sistema di accoglienza nazionale, gestito dai Comuni e basato su una rigida rendicontazione che garantisce trasparenza nell’uso dei fondi, viene sostanzialmente depotenziato: d’ora in avanti non potrà più accogliere richiedenti asilo, ma solo persone già titolari di protezione (asilo o sussidiaria) e minori soli.
Oltre alla riduzione dei fondi e di conseguenza dei posti disponibili, perderanno di efficacia soprattutto i percorsi di integrazione che ne costituivano il fulcro.
Se i nuovi bandi CAS di cui accennavamo poc’anzi, non prevederanno nemmeno i minimi servizi per l’integrazione, i pochi fortunati che arriveranno allo SPRAR, dopo l’ottenimento di una forma di protezione, non potranno fare affidamento su nessun corso (neppure di lingua italiana) e non sapranno più nulla su come funzionano i servizi del nostro paese.
Non si comprende come persone di un altro continente che hanno dovuto confrontarsi con situazioni tragiche, disumane e che hanno rischiato la vita ben più di una volta, possano riuscire ad integrarsi in una società che tende ad isolarli e ad allontanarli da ogni contesto pubblico.
Il perno del sistema di accoglienza, per un assurdo paradosso, spetterà proprio ai centri straordinari a gestione prefettizia, che a questo punto di straordinario non avranno più nulla se non l’incapacità di rispondere ai più elementari bisogni di orientamento, sostegno e protezione dei richiedenti accolti. I nuovi bandi prefettizi, tuttavia, come vedremo tra poco, non consentiranno l’erogazione di nessun servizio per l’integrazione (nemmeno l’insegnamento della lingua italiana), incentivando così la nascita di grandi, grandissimi centri, poiché, con le risorse stanziate dal Ministero dell’Interno, solamente giocando su economie di larga scala, potranno essere sostenibili i tagli previsti.
Va da sé che la nuova legge e i nuovi indirizzi governativi faranno un enorme regalo a tutte le cooperative che nell’accoglienza vedono solo un business, proprio quelle che lo stesso Ministro dell’Interno diceva di voler colpire.
L’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari si tradurrà in un aumento consistente dei dinieghi in sede di Commissione Territoriale, non certo dovuti alle minori esigenze di protezione di chi arriverà, ma al fatto che il titolo di soggiorno che consentiva di garantire protezione a una varia casistica di persone vulnerabili non sarà più erogabile.
I permessi ora ottenibili in sua sostituzione non coprono che una casistica residuale.
Inoltre, in molti casi, questi prevedono una presenza temporanea nel nostro paese: scadranno al massimo nel giro di un anno, senza poter essere convertiti in permessi di studio o lavoro, consegnando i loro titolari a una condizione di irregolarità. Tra l’altro, alcuni di questi permessi (c.d. protezione speciale, per le persone a rischio di persecuzione o di trattamenti inumani e degradanti in caso di rientro nel paese d’origine) non danno diritto a nessuna forma di accoglienza, né in CAS né in SPRAR: appare quantomeno singolare riconoscere a una persona un rischio effettivo di persecuzione o di tortura, per poi lasciarla per la strada.
Ovviamente tra i titolari di protezione umanitaria accolti nei CAS le situazioni possono diversificarsi, ma tutti verranno accomunati dalle difficoltà create da una norma completamente scollegata dalla realtà. Ci sono persone fisicamente debilitate da malattie croniche che devono assumere regolarmente una terapia, e che mai potranno farlo accampati nel sottopassaggio di una stazione o in un dormitorio dell’emergenza freddo. Donne sole con figli piccoli, che dovranno sperare nella carità perché nessuno le farà mai lavorare. Ragazze sottratte a prezzo di enormi fatiche alla rete della tratta, che non potranno far altro che finire di nuovo a prostituirsi per strada, vanificando gli sforzi e gli investimenti, anche economici, fatti nel tempo. Persone sole senza alcun collegamento con il Paese d’origine che si troveranno a dover ricercare le risorse per sopravvivere nei modi più abietti e infimi possibili.
Chi è scappato dal proprio Paese perché vittima di trattamenti inumani, degradanti e persecuzione, si troverà soggiogato ad una nuova forma di “schiavitù sociale” in un territorio semi-sconosciuto.
Senza contare che questo quadro, già allarmante oggi, con gli sbarchi ridotti di oltre l’80% rispetto agli anni precedenti, rischierebbe di diventare semplicemente insostenibile se la situazione politica in Libia dovesse mutare, e gli arrivi ricominciare a un ritmo sostenuto.
Quelli a cavallo tra vecchia e nuova normativa
Gli effetti del decreto andranno a colpire soprattutto le persone che hanno una situazione legale a cavallo tra la vecchia e la nuova normativa.
Gli attuali titolari di protezione umanitaria non posso più essere inviati nello SPRAR, a meno che il trasferimento non fosse stato disposto prima dell’entrata in vigore del decreto, lo scorso 4 ottobre, ma non possono neanche rimanere nei CAS, riservati d’ora in avanti solo ai richiedenti asilo. Due alternative: la strada o la fuga.
In tutta Italia si stanno moltiplicando le segnalazioni di persone, perfettamente regolari e che attendevano risposta dallo SPRAR per completare il loro percorso di integrazione, letteralmente buttate per strada dagli enti gestori dei CAS, che hanno ricevuto dalle Prefetture di competenza misure di cessazione dell’accoglienza.
Parliamo di numeri: si tratta di migliaia di persone.
Basti pensare che tra gennaio e settembre 2018 la protezione umanitaria è stata riconosciuta a circa 18.000 persone (ISMU, 2018). Alcune saranno certamente già transitate verso lo SPRAR (nel 2017 le richieste di trasferimento complessive da CAS a SPRAR erano state 13.000, e le persone ospitate in SPRAR con protezione umanitaria il 36%), ma un sostanzioso numero di soggetti con regolare titolo di soggiorno si troveranno dall’oggi al domani a vagare senza fissa dimora e senza alcuna assistenza per le strade delle nostre città.
Un’accoglienza senza accoglienza
Ma la deriva giuridico-sociale è destinata a non avere fine.
È di queste ultime settimane, infatti, la pubblicazione di bandi da parte delle Prefetture territoriali preceduti dall’emanazione dello “scellerato” capitolato del Ministero dell’Interno che “aggiorna”, anzi stravolge completamente la distribuzione delle risorse per la gestione dell’accoglienza diffusa.
I Centri di Accoglienza Straordinari che ad oggi si trovano ad ospitare un numero elevato di persone, dovranno confrontarsi con l’impossibilità materiale di porre in essere una gestione adeguata dell’accoglienza. Le cifre indicate dal Ministero dell’Interno sulla base delle quali si dovrebbe fornire il servizio ai richiedenti asilo è quanto di più lontano dalla realtà concreta del mercato economico e, pertanto, risulta insostenibile per qualsiasi associazione/cooperativa/ente intenzionato/a a partecipare al bando stesso, in modo professionale e organico.
Si darà, invece, spazio a tutte quelle realtà di falso cooperativismo e associazionismo a scopo di lucro, che si troveranno a “fare accoglienza” con un numero di richiedenti asilo inversamente proporzionale al livello di adeguatezza minimo per un progetto serio e umano.
Senza contare inoltre che, quasi la totalità dei richiedenti asilo che ha ricevuto il provvedimento di diniego dalla Commissione, ha fatto ricorso o farà ricorso al Tribunale competente, il quale, come da prassi attuali, stante l’aumento esponenziale delle impugnazioni, procede a fissare udienza per la trattazione della causa a distanza di 18/24 mesi dal deposito del ricorso!
L’effetto che si otterrà sarà quello di avere richiedenti asilo in attesa di giudizio, privati di quel sistema di accoglienza diffusa che consentirebbe il monitoraggio e l’inclusione nel tessuto sociale, ristretti in un luogo molto simile a un centro di raccolta (che evoca soltanto infausti e tragici ricordi) se non costretti a vagare senza fissa dimora sul nostro territorio, aumentando in maniera rilevante la percezione di disagio sociale nella gente comune.
Risultato: un clima di insicurezza sociale altissimo
Ma v’è di più. È del 19 febbraio u.s. la pronuncia della Corte di Cassazione che ha sancito definitivamente l’irretroattività della L. 132/2018, chiarendo che, per tutte le domande di protezione internazionale formulate prima del 05/10/2018, si dovrà applicare la precedente normativa con la possibilità di vedere riconosciuto il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
A ben vedere, quindi, l’orientamento delle Commissioni di applicare sic et simpliciter la nuova disciplina introdotta dal Decreto di Sicurezza, eliminando la valutazione della possibilità di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari comporta, a tutti gli effetti, solamente un mero rimando alla giustizia ordinaria, di temi che avrebbero potuto essere trattati e definiti proprio con quel procedimento amministrativo per il quale le Commissioni sono state appositamente istituite.
Ciò comporta un notevole spreco di tempo nonché un rilevante aggravio per le casse pubbliche che si trovano a dover far fronte ai costi di un elevato numero di procedimenti civili a dispetto di una procedura amministrativa svuotata di gran parte della sua funzionalità.
Dalla disamina sin qui effettuata emerge, senza possibilità di dubbio, la volontà del Governo di attaccare frontalmente non solo il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati, ma il concetto stesso di protezione internazionale e la cultura, sociale e giuridica, che a tutto questo sottende.
L’effetto che si produrrà sarà diametralmente opposto a quello per cui la normativa governativa è stata pensata.
Incremento esponenziale degli irregolari a fronte di modalità tecnico-burocratiche insufficienti e totalmente inadeguate a soddisfare le richieste di rimpatrio, aumento dell’isolamento di stranieri, paura, insofferenza, diffidenza e odio alimentato da pregiudizi futili e artefatti e da una totale mancanza di informazioni circa il sistema accoglienza.
Risultato: un clima di insicurezza sociale altissimo. Tutti saremo danneggiati.
Costringendo in strada migliaia di persone si pongono le basi per un drammatico incremento del conflitto sociale, della marginalità, del risentimento, della povertà.
Si darà nuova linfa al lavoro nero e alla criminalità organizzata, che avrà gioco facile nel reclutare i più disperati.
Non ci sarà un risparmio, perché l’aumento del disagio sociale avrà un enorme impatto sui bilanci comunali, e perché chi dovrà lavorare al nero o arrangiarsi con piccoli espedienti non produrrà, com’è ovvio, gettito fiscale.
L’unico scopo di queste operazioni è quello di creare profonde fratture culturali e sociali, separando i migranti dagli autoctoni, definendo un’umanità subalterna.
Si vuole comunicare all’elettorato, spaventato dalle dinamiche della globalizzazione, che c’è qualcuno su cui si può impunemente scaricare la propria frustrazione.
E cioè che i migranti sono il capro espiatorio della maggior parte dei problemi del nostro Paese, perché diversi, inferiori, ghettizzabili, anzi, da ghettizzare.
Con l’unico vero vantaggio per gli attuali governanti che, in termini elettorali, potranno fare breccia su una popolazione sempre più mal informata e sempre più spinta all’odio reciproco.
Instillare e acuire il sentore di pericolo nella gente comune per poi ergersi a salvatori della patria, intervenendo con una distrazione delle risorse dello stato per contrastare un’illegalità artatamente creata al solo scopo di raccogliere voti e consensi.
Bisognava invece…
Che il sistema di accoglienza in Italia necessitasse di profonde riforme era opinione condivisa, da tempo, tra tutti i soggetti attivi nel settore.
Ciò che è accaduto in questi ultimi due anni avrebbe potuto rappresentare la chiave di volta per mettere mano a una riforma sostanziale dell’impianto gestionale del fenomeno migratorio, tenuto soprattutto conto dell’esperienza e dei dati ottenuti in concreto dell’esperienza sul campo, interagendo e coinvolgendo soggetti qualificati.
Serviva una forma di controllo serrato, dettagliato e preciso su tutti quegli enti gestori dell’accoglienza, andando a colpire e ad eliminare i soggetti che ponevano come unico scopo preordinato all’accoglienza il fine di lucro. Si sarebbe potuto intervenire, ad esempio, uniformando e innalzando i criteri di assegnazione dei punteggi nei bandi prefettizi, stabilire un limite massimo di posti a struttura per promuovere l’accoglienza diffusa, creare un albo dei soggetti gestori per garantire qualità e trasparenza, assumere personale altamente qualificato, formato e preparato.
Invece, come già accaduto in passato, ad un’organizzazione di controllo tempestiva e severa si è preferito optare per una eliminazione di ogni sorta di sistema di integrazione diffusa, in assoluto spregio non solo delle normative europee ma soprattutto della dignità di altri esseri umani.
Un Paese che colpisce sistematicamente i più vulnerabili è un Paese che non può dare sicurezza a nessuno.
I diritti fondamentali, se non sono di tutti, non sono di nessuno.
Riccardo Morielli, avvocato, operatore legale del Centro di Accoglienza Straordinaria gestito dalla Cooperativa Arcimedia di Savona
Pubblicato giovedì 28 Marzo 2019
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