Il tribunale del lavoro ha dato ragione alla professoressa Rosa Maria Dell’Aria, sospesa lo scorso anno per un lavoro dei suoi studenti che paragonava le leggi razziali del ’38 ai decreti sicurezza sui migranti dell’ex ministro Salvini. E la sanzione comminata alla docente è stata, finalmente, revocata.
Nel maggio 2019 il provvedimento irrogato dal dirigente dell’area di Palermo su zelante relazione del preside del Vittorio Emanuele III, venne giustamente vissuta dall’opinione pubblica democratica come un inquietante segnale del tentativo di Salvini e dell’allora maggioranza di governo di esercitare un controllo diretto e sistematico sulla scuola, ovvero sull’istituzione più delicata e strategica della società civile.
L’impressione era più che fondata, ma il fatto che lo sdegno di molti fosse accompagnato da una sorta di sorpresa per una così palese violazione di diritti costituzionalmente garantiti (libertà di pensiero, libertà d’insegnamento) rivela la disattenzione con cui in Italia si guarda alla scuola e alle vicende la riguardano; ci saremmo altrimenti accorti che proprio la scuola è da almeno tre decenni uno dei territori più contesi dagli schieramenti politici che si sono alternati al governo del Paese.
Trent’anni segnati da riforme che hanno assoggettato il percorso formativo dei cittadini-studenti alle richieste e alle attese della produzione e del mercato; da leggi che hanno configurato sempre più l’organizzazione e l’amministrazione scolastica sul modello della scuola-azienda e che a dispetto del veto costituzionale hanno potenziato e finanziato la scuola privata a danno di quella pubblica. Un percorso accidentato e involutivo, che in barba alle intenzioni dichiarate, ha visto la moltiplicazione insensata di indirizzi e sottoindirizzi dei vari ordinamenti, la legittimazione del potere discrezionale dei dirigenti-manager e la spietata competizione tra gli istituti per aggiudicarsi l’ultimo alunno-cliente con promesse e gadget spesso più adatti alla pubblicità di un resort o di una ludoteca che di una scuola.
Le conseguenze si ritrovano in fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti: dalla perdita verticale di prestigio sociale e culturale della categoria dei docenti, all’atteggiamento pretenzioso e rivendicativo assunto dai genitori nei confronti degli insegnanti (fino a farne una categoria “a rischio”), per finire con la regolamentazione minuziosa e soffocante di una valanga di adempimenti e di obblighi che hanno ridotto le scuole a elefanti burocratici e l’autonomia degli istituti a ridicola e tristissima finzione.
Dal decreto Brunetta alla Legge 107 Giannini-Renzi, dalla riforma Gelmini fino ai provvedimenti illusori dei tempi del covid, la storia della scuola italiana è la cronaca di una débacle, di un assoggettamento a finalità che poco hanno a che vedere con gli obiettivi di consolidamento culturale e di formazione della coscienza civile, arginata soltanto dalla resistenza di manipoli di insegnanti che, in condizioni stressanti di lavoro (pagati con la crescita verticale di casi di burnout), continuano a perseguire obiettivi educativi e culturali per i quali rischiano di essere sgraditi ad alunni impigriti, a presidi in carriera e a colleghi assuefatti alla piaggeria nei confronti dell’autorità o semplicemente amanti del quieto vivere.
Sappiamo che non mancano realtà più serene, dove dirigenti e docenti collaborano per affrontare le vere emergenze educative e sociali di questo nostro tempo; ad esse fanno tuttavia da contraltare troppe scuole dove chi insegna è costretto a negoziare quotidianamente attenzione e rispetto in cambio della banalizzazione dei contenuti e dell’allargamento delle maglie valutazione, richiesta dalle famiglie e strenuamente imposta da non pochi presidi, convinti che il cliente ha sempre ragione e che quello che alla fine conta, esattamente come in un megastore, è la “customer satisfaction” (quella che assicura le iscrizioni e la conseguente tenuta dei cosiddetti “parametri di complessità”).
In questo clima è maturato quello che è accaduto al Vittorio Emanuele III di Palermo o, come sembra ormai accertato, nella scuola primaria di Scordia, nel catanese, dove l’accusa formulata da un genitore, pur smentita dalle testimonianze, diede comunque luogo a un provvedimento disciplinare.
Episodi che è lecito considerare come la punta di un iceberg, e che colpiscono ovviamente i docenti più consapevoli della funzione sociale della scuola e delle connesse responsabilità dell’insegnamento a medio e lungo termine.
Quanto al merito delle questioni, al di là dei comportamenti di burocrati ossequienti e buoni per tutte le stagioni, nelle pieghe degli eventi e delle dichiarazioni di un anno e mezzo fa si nascondono questioni più di fondo e atteggiamenti che fanno ormai parte del modo di pensare comune: il primo di questi ha a che fare con l’idea, già di per sé antidemocratica, che la politica a scuola sia un pericoloso strumento di manipolazione delle giovani menti degli alunni. Un’opinione che nasce da scarsa coscienza civile e da grossolanità pedagogica e che fa il paio con la convinzione – frutto questa di inequivocabile ignoranza – che la storia consista nell’elencazione asettica di fatti e opinioni piuttosto che nella formazione di una coscienza critica capace di riconoscere e distinguere negli eventi di ieri e di oggi la crescita della libertà e dei diritti o i segnali dell’inciviltà, dell’involuzione e della paura.
In questa conformistica regressione della cultura democratica e nel venir meno della tensione pedagogica e dell’autonomia didattica, gli spazi per la libertà di insegnamento si sono ristretti da tempo, ed episodi come quelli della professoressa di Palermo ne sono solo un segnale, dovuto alla mediocrità di pavidi travet, arrivati a cariche dirigenziali in grazia della loro affidabilità e condiscendenza nei confronti del potere. Dietro allo zelo dei burocrati, direbbe la Harendt, si nasconde sempre la banalità del male, ed è necessario individuarne la genesi e i processi nell’apparente “normalità” dei comportamenti quotidiani, che creano un costume fatto, una rete di abitudini, e modi di pensare e di agire che preparano il terreno alla stravolgimento delle regole democratiche.
In questa prospettiva l’attacco alla libertà di insegnamento di cui è stata vittima la professoressa Dell’Aria non è tanto un’inquietante premessa dell’attacco alla libertà di opinione, quanto una sua conseguenza, e bene ha fatto l’Anpi siciliana a riconoscere nella vicenda della docente palermitana l’inquietante segnale di una prevaricazione dei diritti e ad assegnarle la tessera ad honorem dell’Associazione.
Quell’attacco è stato sferrato infatti molto tempo addietro, quando sono state sdoganati i linguaggi dell’intolleranza e l’arroganza del potere prendendo di mira magistratura, giornalisti, intellettuali, accomunati nell’appellativo di “comunisti”, quello con cui Berlusconi e i suoi gregari e alleati, fin dal 1994, vollero intimidire l’elettorato alimentando il grumo di diffidenze, paure e insicurezze di un Paese disorientato e sfiduciato dallo scadimento della politica e dalle rivelazioni di “mani pulite”. Quel clima ha dato i suoi frutti, e sfiducia, disprezzo, indifferenza e menzogne circolano di fatto indisturbati sulle tribune virtuali del web, sui giornali e nei talk-show televisivi, arrivando persino a Bergoglio, intruppato anche lui, dalle sue stesse file, nella schiera dei non graditi al rigurgito acido, bieco e ignorante dei nuovi “uomini forti” (e furbi) che alimentano e cavalcano, con cinica spregiudicatezza, la sottocultura politica di massa.
Fausto Clemente, dirigente Comitato provinciale Anpi Messina
Pubblicato giovedì 17 Dicembre 2020
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