A due settimane dalle elezioni politiche, si può osare qualcosa in più di una riflessione a caldo.
Senz’altro si è trattato di un voto che ha determinato una svolta strutturale, probabilmente dai tempi dell’approvazione della Costituzione, sicuramente rispetto alla storia della cosiddetta seconda repubblica, cioè dai primi anni 90. È un voto che contiene elementi di protesta, ma che non sembra effimero, perché è il punto di approdo di un percorso di disagio, risentimento e disaffezione andato avanti per molti anni.
Da qualche decennio si dice che siamo nel tempo della globalizzazione e si sostiene che, in conseguenza, essa abbia causato due fenomeni: 1) il declino dei poteri reali degli Stati, poteri sempre più demandati ad organismi sovranazionali, come l’UE, e non sempre pubblici, come il Fondo Monetario Internazionale, né eletti, come la Banca Centrale Europea; 2) lo sviluppo della “società aperta”, un concetto che data da quasi un secolo e che indicherebbe una società incardinata sugli individui, priva di segreti, rispettosa dei diritti umani e delle libertà, che accoglie una molteplicità di prospettive e valori filosofici, religiosi e politici; Bobbio, da colto liberaldemocratico, scriveva: “La democrazia, o è la società aperta, in contrapposto alla società chiusa, o non è nulla”. Oggi a questi significati tradizionali si è aggiunta l’idea di una società che accoglie i migranti e che diventa luogo di scambio di culture, storie, tradizioni, idee.
Lo sviluppo di questi due fenomeni erano anche determinato dal postulato fondamentale della globalizzazione e cioè la libera circolazione dei capitali, delle merci, delle persone.
A datare – grosso modo – dall’inizio della grande crisi economica (fine 2007) questo postulato è stato progressivamente messo in discussione per l’insieme combinato di tre fattori, e cioè la recente spinta protezionistica del presidente Trump e le conseguenti analoghe risposte dei Paesi colpiti dall’aumento dei dazi; la chiusura nazionalista di tanti governi dell’est Europa (a cominciare dal Gruppo di Viesegrad: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) e le spinte analoghe presenti in tutti i Paesi dell’UE, causate dalle paure determinate dai flussi migratori e dal terrorismo di Daesh; lo svuotamento progressivo degli istituti di democrazia liberale assurta dopo la caduta del Muro (1989) a paradigma di buon governo universale, cioè quel fenomeno che chiamiamo comunemente “crisi della democrazia”.
Siamo perciò oggi davanti sia al ritorno, ancora condizionato, del potere degli Stati, sia all’avvento di forme più o meno simili a quelle di una “società chiusa”. Si tratta – certo – di una tendenza. Il tempo dirà quale forma di Stato e di società prevarrà e in particolare che rapporto si determinerà fra Stato, economia e potere.
Il voto italiano, pienamente dentro questa dinamica occidentale ed europea, è stato evidentemente condizionato da una nuova e generalizzata questione sociale, e cioè il declino o la caduta di larga parte dei ceti medi e operai in condizioni di minor benessere o addirittura di povertà; una disoccupazione dilagante; un inedito sfruttamento del lavoro in particolare precario e giovanile, con lo scandalo del lavoro minorile e situazioni specifiche di tipo schiavile; uno stillicidio spesso mortale di incidenti sul lavoro; una crisi di valori e una devastante caduta della moralità civica anche in ragione della caduta del valore del lavoro; una dimensione europea della crisi e della questione sociale; una immagine prevalentemente negativa dell’UE nell’affrontare questi temi sia come metodo (imposizione dall’alto) sia come proposta (austerità); infine una percezione generale di insicurezza a cui ha contribuito il dramma dell’emigrazione, con fenomeni di guerra fra i poveri.
È avvenuto quindi un paradosso, e cioè che la critica al governo della globalizzazione, avanzata dalla sinistra radicale a cavallo del secolo – si ricorderà il fenomeno dei no global – si risolve, in questa fase, nella vittoria di una forza di destra, la Lega, e in quella di una forza che si definisce “né di destra né di sinistra”, i 5Stelle.
Su questo si deve innestare una riflessione sul populismo, categoria di critica politica molto usata negli ultimi anni, qualche volta – forse – in modo improprio o strumentale; infatti è vero che i due “vincitori” presentano forti tratti populisti, ma sono anche forze politiche popolari, cioè hanno un rapporto diretto e permanente con ampie fasce di popolazione (non solo in campagna elettorale).
Un altro paradosso: la vittoria della Lega e dei 5Stelle nasce da un senso comune fortemente ostile ai partiti, indicati come una delle cause principali di crisi, malcostume, questione morale o quant’altro, e ciò è inquietante, perché la polemica antipartito è sempre stata propria, nella storia del 900, delle forze della destra radicale, a cominciare dai fascisti. Ma è anche vero che, al di là delle autodefinizioni, Lega e 5Stelle sono partiti a tutti gli effetti. A ben vedere chi esce sconfitto dalle elezioni non sono “i partiti”, ma il modello di partito della cosiddetta seconda repubblica: il partito “liquido”, il partito “leggero”, il partito personale, il partito “americano”, il partito notabilare, il partito-comitato elettorale, cioè quel modello di partito che aveva sostituito il modello di partito della Prima repubblica, e cioè il partito di massa, per capirci: Pci, Psi, Dc. È perciò ragionevole porsi la seguente domanda: al netto di ogni altra considerazione sulla loro specifica natura, Lega e 5Stelle, pur nelle loro profondissime diversità politiche e organizzative, rappresentano o no nuove forme di partito, e, se sì, con quali caratteristiche? L’unica cosa certa è che tanta parte del voto verso queste formazioni politiche è una richiesta di rappresentanza, ciò che i partiti tradizionali non hanno evidentemente saputo garantire.
Colpisce, sul tema della rappresentanza, la latente contraddizione insita nel risultato elettorale: mentre, a grandi linee, 5Stelle è maggioranza nel meridione, l’alleanza di destra è maggioranza nel settentrione. Ciò rappresenta un potenziale conflitto, ed è interessante notare che nei discorsi di insediamento dei nuovi Presidenti di Camera e Senato sia assente qualsiasi riferimento alla questione meridionale.
Un altro problema messo a nudo dal voto è la crisi della democrazia liberale. Il politologo statunitense Francis Fukuyama nel 1992 sostenne temerariamente che ci si trovava oramai di fronte alla “fine della storia” perché la democrazia liberale era l’ultima forma possibile di Stato in quanto perfetta. Oltre alla ovvietà per cui, essendo la storia una costruzione umana, la sua fine avverrà solo all’atto dell’estinzione dell’umanità, l’attuale crisi dell’occidente dimostra che la democrazia liberale, per come si è storicamente incarnata, non è – o non è più – riconosciuta come la forma migliore di Stato e di governo. Dalla caduta del Muro si era data per scontata la sua supremazia e la sua tendenziale universalità. A quel tempo alla vittoria della democrazia liberale si coniugava la vittoria di un certo tipo di liberismo economico. Il concerto virtuoso fra democrazia liberale e liberismo economico è diventato negli anni successivi dogma e mantra dei governo occidentali, come una sorta di legge naturale che delegittimava qualsiasi altra forma di Stato e di governo. Intanto si svuotava la stessa democrazia liberale.
Ma, a ben vedere, in Europa e in particolare in Italia dal dopoguerra fino alla caduta del Muro aveva prevalso un altro modello, e cioè quello della democrazia sociale, che comprendeva (e valorizzava) sì i principi della democrazia liberale, ma andava oltre, ponendo la questione dei diritti sociali e della partecipazione come forme costituzionali di sovranità popolare. La Costituzione italiana è infatti un modello di democrazia sociale. Dal 1989 diritti sociali e partecipazione sono stati progressivamente derubricati dall’agenda della politica, assieme al principio della rappresentanza nelle sedi istituzionali, a vantaggio esclusivo (peraltro mai pienamente realizzato) della governabilità.
Il progressivo svuotamento della democrazia liberale, ridotta spesso quasi esclusivamente alla sola competizione elettorale e al depauperamento di poteri dei suoi stessi istituti, rivela che il pieno dispiegamento delle potenzialità della democrazia liberale avviene attraverso un sistema di Stato e di governo di democrazia sociale, mentre paradossalmente il sistema economico liberista non garantisce lo stesso sistema politico democratico-liberale.
Dove porterà l’attuale crisi della democrazia liberale? Lo vedremo nei laboratori della storia, e cioè nei Paesi in cui è avvenuto o – come l’Italia – sta avvenendo un “cambio di passo”. La crisi dello Stato liberale in Italia nel 1922 portò, com’è noto, al fascismo. Ma la storia non necessariamente si ripete, anche perché la Lega, pur essendo di estrema destra, non si può certo assimilare al partito fascista, e tantomeno i 5Stelle, che sono un mix del tutto originale, con significative componenti di sinistra e con una dichiarata (anche se contraddittoria) volontà di valorizzazione del parlamento (leggere il discorso di insediamento del Presidente della Camera Roberto Fico). Ad oggi, però, rimane inevasa la domanda di dove porterà l’attuale crisi della democrazia liberale.
Ed infine: si dice che il voto ha cancellato le categorie di destra e sinistra. Da un certo punto di vista è vero, nel senso che hanno perso (o sono state ridimensionate) tutte le forze che si dicono di sinistra ed il partito di Berlusconi. In questo senso le categorie di destra e di sinistra sono state sostituite da altre coppie: la coppia “fuori” e “dentro”, che corrisponde al contrasto fra società aperta e società chiusa, e la coppia “alto” e “basso”, che corrisponde alla critica all’UE e alle élite nazionali, in sostanza il tema della rappresentanza.
Ma allora la sinistra è finita? Non è detto e personalmente non lo credo. La sinistra ha storicamente rappresentato gli interessi dei deboli nelle forme possibili in quella determinata fase. Forse è finito un certo tipo di sinistra. La sinistra – come ogni cosa – è più volte cambiata dai tempi della sua “fondazione” e cioè dagli Stati Generali francesi del 1789. In Italia è passata dalla “sinistra storica”, cioè la sinistra liberale di Agostino De Pretis della seconda metà dell’800, alla sinistra del lavoro dei partiti di massa del 900. Per un secolo nel nostro Paese la sinistra è stata popolare e di progresso nella misura in cui ha rappresentato i più deboli, a partire dall’organizzazione fordista del lavoro. Mi pare che oggi la scommessa sia proprio questa: come tornare a rappresentare un mondo del lavoro così profondamente mutato, come tornare a rappresentare tutte le periferie.
C’è una possibilità in questa direzione, anche tenendo conto che il voto ha sancito – mi scuso per il gioco di parole – la fine della centralità del centro. Il centro, cioè i cosiddetti ceti moderati, si è profondamente ridimensionato, perché i ceti fondamentali del mondo moderato si sono radicalizzati a causa della crisi. L’obiettivo di conquistare la maggioranza attraverso la seduzione del centro, cioè dei moderati, si è rivelato perciò velleitario.
In questo scenario, così profondamente nuovo e complicato, da parte dell’Anpi è inevitabile la prudenza e lo stimolo: la prudenza, perché è doveroso attendere i fatti che l’eventuale nuovo governo – se, quando e con chi si farà – dovrà produrre; lo stimolo, perché è altresì doveroso che l’Anpi chieda a qualsiasi governo la piena attuazione della Costituzione, a cominciare dalla valorizzazione pratica del suo fondamento, il lavoro, e una chiara politica antifascista, come dovrebbe essere proprio e naturale (ma non sempre – ahinoi! – avviene) da parte di tutti i governi della repubblica nata dalla Resistenza. Al primo posto rimane il tema della pace, perché, specie in questi giorni di drammatica tensione, occorre ricordare il disposto dell’art. 11 della Costituzione. A questo si aggiunge un imperativo morale, una richiesta-simbolo, assieme, della difesa dei diritti umani e della dignità nazionale, e cioè l’impegno per la verità e giustizia per Giulio Regeni.
Assieme, l’Anpi dovrà affrontare sia il tema dei nuovi razzismi, in occasione dell’anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938, sia quello della crisi della democrazia.
Oggi però si richiede però qualcosa in più: la carta geografica ci fa vedere diversi Paesi dell’UE incamminati su di una strada strisciante o conclamata di autoritarismo o oscurantismo, a cominciare da Ungheria, Polonia, Austria. Ma è sotto gli occhi di tutti che un vento di destra, spesso di una destra estrema e radicale, spira nella quasi totalità dei Paesi dell’Unione, con una significativa e in molti casi forte presenza di formazioni politiche che si richiamano più o meno esplicitamente al fascismo o al nazismo. In Ungheria, se il partito di Orbàn, Fidesz (Unione Civica Ungherese), ha ottenuto il 49.5% dei voti, il partito nazionalista e di estrema destra Jobbik, di chiara ispirazione neonazista (Movimento per un’Ungheria Migliore), supera il 20 per cento, mentre i socialisti sono sotto il 12.
Tutto ciò pone oggettivamente il tema di un nuovo movimento antifascista e antinazista europeo che, a partire dalle attuali strutture (la Fir, Federazione Internazionale dei Resistenti, e il più recente Forum europeo) possa con maggiore efficacia contrastare il ritorno dell’estrema destra sul continente. Questo motiva l’assoluta modernità dell’antifascismo e ne definisce il carattere: antifascismo non come ideologia, come peraltro non è mai stato, ma come idea che accomuna, e che perciò chiama un grande fronte unitario, un’unità di popolo, di associazioni, di organizzazioni diverse e distinte, ma unite in questa battaglia collettiva.
Pubblicato lunedì 16 Aprile 2018
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