Ero lì sabato 5 settembre. Lì, davanti al cippo che ricorda la Brigata Proletaria, operai dei cantieri navali di Monfalcone e contadini che, uniti, dal 10 settembre 1943 costituirono la prima brigata partigiana in Italia e contrastarono immediatamente il dominio tedesco in quel territorio dando vita alla lunghissima battaglia di Gorizia. Ero lì a Selz, località di Ronchi dei Legionari, a qualche chilometro dalle acque dell’alto Adriatico, durante la celebrazione di quelle donne (c’era nella Brigata la leggendaria staffetta Ondina Peteani) e di quegli uomini di lingua italiana e slovena, molti dei quali persero la vita. La Brigata Proletaria nacque nei pressi di quel cippo ove sono ricordati coloro che presero le armi “per ridare dignità, onore e indipendenza al nostro Paese”. Chissà perché, mi viene in mente l’art. 54 della Costituzione, dove si legge “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. E penso alla politica e all’antipolitica del tempo che viviamo, al sacrificio di coloro che caddero a Gorizia e in tutta Italia, ed alla necessità assoluta di restituire al nostro Paese un sistema politico incardinato sulle parole servizio, rappresentanza, responsabilità. Una necessità assoluta per la salvezza dell’Italia e per il rispetto che dobbiamo a chi ce l’ha riconsegnata libera e liberata.
La decisione di dar vita alla Brigata Proletaria si prende nella notte fra l’8 e il 9 settembre 1943. Poi il comizio di Ferdinando Marega ai cantieri navali il 10 settembre, con l’invito agli operai ad unirsi ai partigiani. Erano ben oltre 1.000 quando si incamminano verso il centro di raccolta a Selz. Lungo la strada attaccano il presidio dell’aeroporto di Ronchi mettendo in fuga un corpo di guardia tedesco. E poi ancora, sempre a Selz, la nascita vera e propria della Brigata fra il 10 e l’11 settembre.
Immediatamente dopo quei partigiani di lingua italiana e slovena si recano tutti a Gorizia, con i partigiani sloveni, per contrastare l’arrivo delle truppe naziste. La Brigata occupa la stazione ferroviaria, l’aeroporto di Merna ed altre postazioni strategiche mentre altre zone della città sono presidiate dal IX Corpus sloveno. E c’è la battaglia, lunga, epica, con la sconfitta della Brigata attaccata da un certo momento in poi persino dall’aviazione del Terzo Reich; si va via da Gorizia con pesantissime perdite, ma ci si trincera sulle alture circostanti con l’ultimo combattimento il 28 settembre. Infine il ripiegamento e di fatto lo scioglimento della Brigata. Ma è l’Araba fenice che risorge dalle ceneri; i suoi uomini successivamente danno vita sul Carso al Battaglione Triestino formato da italiani e sloveni, nei paesi ai Gap, sempre con italiani e sloveni, alcuni sul Collio, altri ancora tornano a lavorare ai Cantieri.
Si tratta di un’esperienza unica, come unica per molti aspetti fu la costituzione dell’Intendenza Montes, grazie all’operaio Silvio Marcuzzi, che, dando vita a una vastissima organizzazione, mette a disposizione il proprio casale a Redipuglia come deposito e foresteria per gli approvvigionamenti dei garibaldini e del IX Korpus sloveno, “per armare e vettovagliare i combattenti” come si legge nella motivazione della Medaglia d’Oro. Silvio fu assassinato il 2 novembre 1944 nella caserma Piave di Palmanova.
Tutto questo abbiamo ricordato il 5 settembre a Selz davanti a quella lapide; ne ha parlato il sindaco di Ronchi, la vicesindaco di Doberdò (che ha parlato in sloveno e in italiano), il presidente dell’Anpi provinciale di Gorizia, la presidente dell’Anpi di Ronchi, io stesso. Le disposizioni relative al Covid 19 impediscono il tradizionale grande corteo. Eppure in prima fila c’è lo striscione Fim Fiom Uilm Fincantieri Monfalcone, la fabbrica che una volta si chiamava Cantieri Riuniti dell’Adriatico di Monfalcone, la fabbrica della Brigata Proletaria.
Ecco, una breve cronaca. Che però deve suggerire una non breve riflessione.
La Resistenza e la guerra di Liberazione in Friuli Venezia Giulia hanno assunto tratti unici e irripetibili rispetto al territorio nazionale. Eppure la vicenda del confine è quasi del tutto sconosciuta, non divulgata, rimossa, e la memoria pubblica è stata costruita in particolare negli ultimi anni esclusivamente su due eventi drammatici: le foibe e Porzus. La narrazione dei media e di una parte rilevante della politica – di tutta la destra, ma non solo – è incardinata su questi eventi con una voluta e chirurgica decontestualizzazione, grazie a cui si smarrisce l’intera storia del confine dagli anni venti in poi. Solo di recente sono avvenute circostanze in parziale controtendenza: la restituzione dello stabile del Narodni Dom, incendiato a Trieste dai fascisti il 13 luglio 1920, ai legittimi proprietari, e cioè la comunità slovena, alla presenza del Presidente della Repubblica che si è poi recato, per la prima volta nella storia, a rendere omaggio alla stele che ricorda i quattro partigiani sloveni assassinati dai nazifascisti il 6 settembre 1930.
Per il resto, hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato memoria: si ignora nella narrazione nazional-popolare la politica di snazionalizzazione degli sloveni e dei croati portata avanti con la violenza dal fascismo di confine, le barbarie contro le minoranze linguistiche e gli antifascisti italiani negli anni del rogo del Narodni Dom, il discorso del 22 settembre 1920 a Pola quando Mussolini disse: “Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”, le sue parole il 18 settembre 1938 a Trieste quando annunciando le leggi razziali affermò che “l’ebraismo è il nemico irriconciliabile”, l’invasione del 1941 della Jugoslavia dei fascisti e dei nazisti (l’anno prossimo è l’80° anniversario), le atrocità inaudite commesse dai fascisti in terra jugoslava e specificamente slovena, la perversa ferocia superiore a qualsiasi immaginazione da parte del regime fascista croato di Ante Pavelic e dei suoi ustascia. Si ignora che le vittime dell’aggressione nazifascista in quella terra furono 1.200.000 su di una popolazione di 15.400.000 abitanti, con la più alta percentuale di morti, assieme all’Unione Sovietica.
Nella notte in cui tutte le memorie sono nere scompare la straordinaria esperienza delle repubbliche partigiane e delle Zone libere della Carnia e del Friuli, l’occupazione della Carnia da parte dei cosacchi al servizio del Reich, le efferatezze della X Mas, ricorrentemente celebrata a Gorizia persino dalle istituzioni pubbliche, e – ultime e non ultime – la straordinaria esperienza della Brigata Proletaria e la battaglia di Gorizia che, iniziata l’11 settembre del 43, si concluse di fatto alla fine del mese.
In questi ultimi anni – ma a ben pensare sono oramai decenni – si è fatto il possibile per avvelenare i pozzi della memoria cercando di inculcare la rasserenante litania di una sostanziale equipollenza (“Sì, è vero, ma anche i partigiani…”) fra oppressi e oppressori, vittime e carnefici. Nel minestrone di rimozioni, decontestualizzazioni, enfatizzazioni, falsi storici, è cresciuta – e come poteva non essere? – la presenza di gruppi e gruppetti di natura fascista e oggi anche di esplicita natura nazista, cercando di rimuovere la concausalità fra Resistenza, Repubblica, Costituzione, e cioè la ragione di fondo che ci fa liberi e uniti, cittadini di una patria pacifica e solidale perché antifascista.
Anche per questo viviamo una rinnovata modernità dell’antifascismo. Sia chiaro che non è una possibilità, una eventualità, ma una necessità prioritaria ed indifferibile davanti allo scenario politico-sociale che viviamo ogni giorno. Non si tratta solo di contrastare le insorgenze fascistoidi che appestano le cronache. Si tratta di difendere il fondamento storico e ideale che fa dell’Italia una repubblica una e indivisibile (art. 114 Cost.), fondata sul lavoro, in cui la sovranità appartiene al popolo “che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 Cost.), cioè attraverso meccanismi di rappresentanza il cui massimo livello è dato dal Parlamento. Si è detto spesso che l’antifascismo è una religione civile, cioè un credo civico comune al di sopra dei partiti e delle confessioni propriamente religiose, che rende coeso, unito, un popolo e un Paese che in quel credo laico si riconosce in base ai suoi miti fondativi, e cioè il Risorgimento e la Resistenza. Ebbene, ciò che si vuole sconnettere è esattamente questo credo civico e laico comune che ci fa popolo unito e Paese libero.
Non solo: l’antifascismo non è una ideologia, ma una comune visione che unisce opinioni politiche, orientamenti religiosi, generazioni, provenienze territoriali diverse, in una carta di valori condivisi che è esattamente la Costituzione della Repubblica. Chi rompe tale visione infrange una delle ragioni essenziali della coesione della comunità nazionale. Dunque l’antifascismo come base ideale della tenuta dell’unità nazionale. Se tutto ciò ha fondamento, ne consegue la necessità e urgenza di contrastare la deriva fascista, afascista o qualunquista che indebolisce i cardini ideali dell’unità nazionale e inesorabilmente ne corrode le istituzioni. Da ciò la centralità delle ragioni della Resistenza e la necessità di contrastare ogni revisionismo, con una particolare attenzione alla memoria dei luoghi, delle situazioni e delle persone che hanno operato nel teatro più difficile e doloroso della lotta di Liberazione: la terra di confine.
Anche per questo la memoria della Brigata Proletaria e della battaglia di Gorizia non può essere affidata soltanto a peraltro meritorie iniziative locali o alla ricerca degli studiosi. C’è ancora in alcuni settori delle destre sovraniste una inespressa (o alle volte espressa) propensione irredentista e una volontà di rivincita, che rivela un pericolosissimo nazionalismo di ritorno. Occorre una nuova centralità di questi temi per ricordare che il confine non è una barriera o una trincea, ma una finestra sul mondo, e che lingue e culture diverse che affondano nella storia di un popolo sono un’ulteriore, straordinaria risorsa di una civiltà che, invece di declinare chiudendosi incattivita su se stessa, si fa sempre più comunità umana.
Pubblicato lunedì 7 Settembre 2020
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