(Imagoeconomica, Sara Minelli)

Si è avviata la raccolta delle firme per indire il referendum sulla legge per l’autonomia differenziata (d’ora in avanti AD): un impegno forte ed intenso, dato che bisognerà raccoglierne almeno 700.000 entro la metà di settembre, ma che ha già raggiunto l’importante quota di 500mila sottoscrizioni (a oggi il 74% sulla piattaforma web). Comitato promotore, modulistica, siti, banchetti, piattaforma per la raccolta online sono il lavoro materiale delle prossime settimane.
Contemporaneamente deve essere lanciato il complesso lavoro per mettere a punto gli argomenti di merito, i contenuti della campagna referendaria. Questa è la parte più difficile perché si tratta di raggiungere molti obiettivi insieme: spiegare le ragioni del giudizio molto negativo sulla AD, convincere gli elettori ad andare a votare quando nella primavera prossima si terrà il referendum e motivare il SÌ alla abrogazione della legge, eliminare dalla scena politica e istituzionale una proposta di regionalismo ingiusto e che divide in tanti pezzi l’Italia. La democrazia e la Costituzione si difendono solo se si afferma una volontà di espansione e allargamento della democrazia stessa, facendo perno su poteri e istituzioni democratiche diffusi e partecipati.

Questa è anche la strada nella quale cercare di far incontrare forze e posizioni diverse – innanzitutto diverse nella collocazione tra governo e opposizione – perché sono in gioco valori costituzionali che certamente non appartengono a una sola parte ma devono invece essere patrimonio di tutti, alla base cioè della collettività nazionale. E non si tratta solo di parti politiche: ben di più si tratta di componenti istituzionali, di parti sociali, di settori dell’economia, della scienza e dell’amministrazione.
Questa prospettiva corrisponde alla funzione nazionale che si deve svolgere – è che è il compito primario, essenziale, genetico addirittura, dell’ANPI – e sta in questo la chiave del successo. Né si può immaginare un diverso significato della Costituzione: così nacque, così deve svilupparsi ed evolvere. Per questo essa non “appartiene”: invece noi – soggetti politici e associativi, cittadini – apparteniamo a essa.

Certo è difficile: per la complessità degli argomenti, per la crisi democratica che stiamo attraversando, di cui l’astensionismo è il segnale più forte, per la necessità di superare gli schemi di un bipolarismo tanto militarizzato quanto forzato e tale da comprimere la stessa dialettica democratica. E tuttavia ci sono da un lato segnali di spazi (ampi, a volerli e saperli utilizzare) nelle posizioni di Comuni e Regioni pur governati dal centrodestra e dall’altro forti e incisive critiche e osservazioni di contrarietà che non hanno avuto risposta dalla maggioranza e anche poca attenzione dall’opposizione, pur se espresse da autorevolissime voci, dalla Banca d’Italia a Confindustria alle associazioni delle categorie economiche all’ANCI, perfino l’autorevolissimo Ufficio Parlamentare del Bilancio.

Roma. Il Palazzo della Consulta, come anche è chiamata la Corte Costituzionale

Con l’attenzione e il rispetto dovuti a questi fattori, un primo – e non breve – elenco di questioni di merito può essere messo a disposizione, a partire dai contenuti della legge sulla AD che contrastano con la Costituzione. Ed anzi, questo approccio può essere utile fin da subito sia quale sostegno alla raccolta delle firme sia perché le Regioni possono rivolgersi alla Corte Costituzionale, proprio perché i soggetti istituzionali vanno sempre ricondotti al ruolo di “Costituzione vivente ed operante” che hanno e sulla quale, peraltro, giurano. Molti contenuti della legge sulla AD contrastano il senso generale della Costituzione e sue specifiche previsioni, ne mettono in discussione ed addirittura in tensione aspetti essenziali. Giudice di questi aspetti è la Corte Costituzionale ma è compito di ciascuno segnalare, indicare, suggerire strade e piste di ricerca: gli esperti e le Regioni poi provvederanno, se lo riterranno, a fare i ricorsi formali. I cittadini, invece, potranno farsene una opinione diretta e – anche in base a quella – giudicare in libertà.

Moltissimi i giovani che hanno firmato per il referendum

Una questione preliminare. L’art. 127 Cost stabilisce la possibilità delle Regioni di chiedere alla Corte Costituzionale di giudicare se una legge dello Stato invade o colpisce la sfera di competenza della Regione: è un ricorso alla Corte che, per evidenziarne il carattere di incisività, è definito ricorso in via principale. In secondo luogo, la Corte giudica – come dice l’art. 134 – sui conflitti di attribuzione tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni.

Naturalmente, può sembrare strano che una legge che si propone di aggiungere poteri alle Regioni possa colpire le sue competenze e certo, se ci si ferma alla superficie, può sembrare così. Ma la competenza della Regione non è solo il perimetro delle leggi ma – per così dire e ancora di più – l’area compresa al suo interno, cioè la sfera degli interessi attuali e potenziali, i temi dello svolgimento delle funzioni della vita quotidiana e della prospettiva di intere aree territoriali e di schiere di cittadini di ogni età e condizione. Anzi: proprio il Titolo V, cui la legge sulla AD vorrebbe dare attuazione, stabilisce (art. 114) che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Regioni e dallo Stato. E ciò significa che tanto lo Stato quanto gli altri Enti sono egualmente tenuti a svolgere le funzioni e tendere agli obiettivi che la Costituzione afferma e pone alla base del Paese.
Peraltro, si può immaginare che Parlamento e Regioni siano esattamente sullo stesso piano oppure c’è una questione sempre aperta di equilibrio tra i poteri dello Stato? E la Corte Cost. è esattamente l’organo che non solo è chiamato a decidere sui conflitti ma ancor prima deve essere chiamato a pronunciarsi per evitare che i guasti vengano prodotti.

Dunque, si deve verificare – e se una o più Regioni lo ritenessero anche con il ricorso alla Corte – se quanto previsto dalla legge Calderoli permette di raggiungere quegli obiettivi o, al contrario, crei ostacoli perfino nuovi e aggiuntivi a quelli che già da tempo ci limitano, in una miscela di debolezza delle strutture e dei poteri politici e di inadeguatezza dei gruppi dirigenti, nazionali e locali. Di questo nessuno parla e già questo è sorprendente. In senso negativo, sia chiaro.

1. Cosa possono chiedere le Regioni allo Stato? Si dice, magari con la scusa della brevità, che possono chiedere la competenza legislativa esclusiva su un complesso di 23 materie. Già il primo passo pone un problema: l’art. 116 Cost. non specifica se si tratti di tutto ciò che riguarda quelle 23 materie, parti di esse o specifiche funzioni e/o compiti relativi ad esse. Anzi, l’obbligo di motivazione della richiesta è coerente solo con una analisi delle situazioni particolari in base alle quali si chiede allo Stato di trasferire la regolazione di attività di primaria importanza (si pensi all’istruzione o all’energia). In teoria, tutte le Regioni potrebbero chiedere la competenza su tutte le 23 materie: a parte la difficoltà di immaginarne le motivazioni o meglio le particolarità di ciascuna, ci si rende subito conto che tutto il processo andrebbe circondato di cautele e scrupolo. Vero è che il difetto sta nelle formulazioni del Titolo V e che questo andrebbe modificato ma questa non è una buona ragione per attuarlo indiscriminatamente. Peraltro, una proposta di legge di iniziativa popolare in questo senso è stata frettolosamente bocciata dalla maggioranza e occorrerà riprenderla più avanti, anche perché alta è stata la disattenzione anche delle altre forze politiche.

(Imagoeconomica, Saverio De Giglio)

Il tema di fondo è quello della trasformazione dello Stato in aggregato di Regioni, ciascuna delle quali potrebbe prendere indirizzi diversi e perfino contrastanti. Eppure l’art. 5 Cost. parla di indivisibilità della Repubblica e non è una categoria dei sentimenti ma una concreta e materiale realtà. Non c’è bisogno che formalmente “ciascuno vada per conto suo”, è sufficiente che singole Regioni – e più ancora se collegandosi tra loro – per gruppi di materie si muovano in autonomia a prescindere dal resto del Paese. Separati in casa, si potrebbe dire: ma la Corte Cost. sarebbe d’accordo? Non è una buona idea provare a chiederglielo?

2. Secondo problema. Il Titolo V prevede la possibilità che le Regioni stabiliscano intese tra loro, con Stati esteri e con Regioni al loro interno. Nulla prevede per quanto riguarda il coordinamento interno all’Italia: incredibile, vero? La legge Calderoli prevede forme e strumenti ma rimane molto al di sotto del vero e proprio varco che si potrebbe aprire. In teoria, tutte le 20 Regioni potrebbero assumere le competenze per tutte le 23 materie: se non ci fosse una sede istituzionale forte e autorevole che ne sarebbe dell’Italia? E se non tutte le Regioni lo facessero ma si determinasse una situazione mista (alcune sì e altre no; per alcune materie e non per tutte; alcune per le materie sanitarie e altre per quelle educative e così via nelle oltre 450 combinazioni possibili. E se invece si considerassero le funzioni si salirebbe a oltre 2.000!) come potrebbe addirittura esistere una politica nazionale in quei campi? E quali sarebbero gli effetti, in primo luogo, sulla vita quotidiana e concreta, per non parlare dell’equilibrio dei conti pubblici, degli impegni sovranazionali e via elencando. Anche questo sembra poter essere oggetto di una riflessione in primo luogo della Corte. Certo, non si può rimproverare alla legge ordinaria sulla AD un vizio del testo della Costituzione ma ciò che potrebbe essere censurato dalla Corte è il resto, che invece Calderoli fa: l’indifferenza verso la quantità del trasferimento, l’indifferenza rispetto a tempi e modalità, la debolezza delle strutture di coordinamento. E la Corte potrebbe, come spesso ha fatto, censurare una incostituzionalità della legge “per le parti in cui non prevede” misure più incisive di controllo di processi che una volta messi in moto potrebbero diventare autonomamente veloci e incisivi, fino alla separazione di fatto.

3. Altri, proprio in questi giorni, hanno evidenziato gli aspetti critici relativi alla questione della determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni, che sono presentati da molti come la garanzia che non ci saranno sconquassi nel soddisfacimento di diritti costituzionali fondamentali. Tra gli altri è il cavallo di battaglia di Forza Italia. Lucrezia Reichlin e Francesco Drago sul Corriere della Sera, Stefano Fassina in un importante saggio sono un riferimento che va consigliato a tutti per un opportuno approfondimento. E anche qui ci sarebbe materia per la Corte, a esempio per esaminare se sia costituzionalmente corretto parlare di “determinazione” – che al massimo esprime una tendenza, una aspirazione – quando il problema è invece assicurare, realizzare, con il carico immediatamente conseguente di prevedere ed anche garantire risorse finanziarie e soprattutto validi operatori, e questo è oggettivamente in contrasto con la previsione che non vi siano maggiori spese a carico dei bilanci pubblici. Per non parlare del livello essenziale: che vuol dire? Il minimo indispensabile? Ma se fosse indispensabile, si aprirebbe il tema enorme di che dire e che fare per i tanti casi in cui non si raggiungono già oggi quei livelli minimi. In quelle Regioni con quali risorse e con quali politiche si colma il deficit iniziale? La legge nulla dice, chi l’ha scritta e votata nemmeno. E come se ciò non bastasse, Fassina dice cose chiarissime – e gravi – sulla prospettiva che il meccanismo di finanziamento previsto da Calderoli produrrà concentrando le risorse nelle Regioni che… già le hanno! Quelle stesse, per intendersi che stanno già avanzando la richiesta di ricevere l’avanzo fiscale.
Certo deve decidere il Parlamento, con la legge e gli strumenti del bilancio ma qui si sta creando un meccanismo che poi crescerà di sua forza. E se anche le risorse per i LEP venissero stabilite equamente dall’inizio, dato che le intese tra Regioni e Stato avranno durata decennale, le risorse saranno a legislazione vigente (quella fatta dal Parlamento) oppure in coerenza con quella che sarà fatta dalle singole Regioni che chiederanno sempre di più a danno delle politiche – cioè delle necessità – redistributive nazionali?

(Imagoeconomica, Carlo Carino by Ai Mid)

4. Se è vero che l’art. 120 Cost. prevede che lo Stato possa sostituirsi a organi delle Regioni e di altri enti per reagire a violazione di norme e trattati internazionali o anche in caso di pericoli gravi di sicurezza, è altrettanto vero che siamo appena usciti dall’esperienza del Covid. Più emergenza di così, difficile vederne e tranne i nostri nonni, nessuno in Italia ha visto di peggio nella sua vita. Nemmeno per il Covid è stato possibile mettere un freno al protagonismo delle Regioni: suona proprio male che quella triste esperienza non abbia prodotto riflessione proprio per decidere se estendere quelle competenze che per la sanità le Regioni già hanno. Non un gran precedente.
Anche a questo proposito vale il ragionamento fatto più sopra (v. punto 2): quanto più si estende la sfera delle attribuzioni esclusive delle Regioni tanto più cresce la necessità di un centro forte di condivisione, coordinamento e armonizzazione delle scelte politiche strategiche ed anche di gestione. Nel momento in cui si passa – con legge ordinaria anche se speciale – alla attuazione del Titolo V e lo si fa in modo così ampio e sostanzialmente senza possibilità di rientro, diventa indispensabile che lo Stato si dia il potere che solo una diversa revisione costituzionale può dare. Si badi che questo passo è reso indispensabile dal rispetto della collocazione del Paese nell’ambito UE, non fosse che per il fatto che il soggetto eventualmente sanzionato dalla UE non è la Regione inadempiente ma lo Stato di cui fa parte… Scajola direbbe anche a sua insaputa! Anche in questo caso, un eventuale intervento della Corte non potrebbe che essere un invito alle Camere a provvedere in via preliminare e non si vede altra soluzione che istituire una Camera delle Regioni, che richiede una modifica alla Costituzione.

(Imagoeconomica, Marco Ottico)

5. Colpisce la sottovalutazione dei rapporti tra le Regioni e con i Comuni. Si intende bene che nella logica della Lega lo stretto rapporto tra espansione delle competenze e possibilità di intese intraregionali si avvicina molto al sogno antico della frattura secondo grandi aggregati sub nazionali, il vecchio tema di Gianfranco Miglio delle “tre Italie”. Come questo possa piacere a Forza Italia e a Fratelli d’Italia… ce lo spiegheranno. Che possa soddisfare criteri di costituzionalità pare anche più complicato. Non c’è dubbio, ad esempio, che l’art. 116 Cost prevede limiti e condizioni generali di trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni e che nella legge Calderoli semmai si manifesti un processo di lesione di prerogative verso il basso con un forte recupero di centralismo regionale. Si delinea una situazione singolare e caotica: da un lato si allinea una modalità “pattizia” tra le Regioni, facendo verso l’interno del Paese ciò che normalmente si fa verso l’esterno, nel diritto internazionale. Dall’altro si lasciano i Comuni al potere decisionale regionale sul punto delicatissimo delle risorse, non risultando l’esercizio del potere di coordinamento della finanza locale condizionato o anche solo finalizzato con la legge nazionale. E con gli effetti finanziari negativi di cui nei giorni scorsi ha parlato l’Osservatorio sui Conti Pubblici dell’Università Cattolica di Milano. Di nuovo occorre citare l’art. 114 Cost. che fa dei Comuni una delle componenti strutturali della Repubblica. Sembrerebbe indispensabile un’autorevole riflessione, nella sede più alta, sull’equilibrio tra i poteri e il rispetto delle funzioni dell’intero sistema locale che dalla legge Calderoli risultano modificate fino allo stravolgimento. A questo proposito – ma riguarda tutto l’impianto della legge di AD – c’è una sovrana indifferenza verso la questione crucialissima delle strutture amministrative e dei corpi tecnici pubblici. In questi giorni sono uscite le analisi sull’andamento delle misure di rafforzamento della PA che è uno degli obbiettivi del PNRR: gli esiti sono largamente insufficienti e deludenti. Non è qui tempo e luogo per una analisi precisa, anche se questa è una delle ragioni dell’affaticamento della democrazia: se essa non funziona non la si può certo difendere e figuriamoci estenderla. Ma Calderoli fa di più e di peggio: che succede nelle strutture statali in conseguenza del trasferimento di competenze? Se sembra (sembra…) semplice nel caso delle regioni che assumono quelle competenze, cosa invece succederà per quelle che NON le assumeranno? Evidentemente continueranno ad essere svolte funzioni centrali: ma per le sole regioni del secondo caso? E come si farà il coordinamento con quelle del primo caso? E le Regioni ricche di competenze legislative avranno anche – e come troveranno, pagheranno, inquadreranno – il personale adeguato alle funzioni? Il commercio estero non pare nelle corde della Lombardia, lo potrà essere in quelle del Molise o dell’Umbria?

(Imagoeconomica, Carino by Midjourney)

6. Tutto il meccanismo che si vede nella legge sulla AD conduce, infine, ad una situazione di concorrenza tra le Regioni che diventerà materia costante di contrasto. Sul piano generale, la Corte Cost. verrà di continuo richiamata a dirimere conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni. Non è certo inverosimile, poi, che si aprano conflitti analoghi con la UE: se pensiamo, ad esempio, all’esercizio di competenze esclusive in materia di istruzione, formazione professionale, mercato del lavoro e commercio con l’estero, non è difficile immaginare che si creino barriere più o meno formalizzate (ma per la UE non serve la formalizzazione, basta la fattispecie concreta) alla libertà di movimento per ragioni professionali o altro. E non si richiamano qui le puntuali e ricchissime osservazioni di Stefano Fassina sul carico di costi autorizzativi, gestionali e finanziari che pioverà sul sistema delle imprese. Altrettanto incisive saranno le conseguenze sul mercato dei capitali e il costo del denaro, il controllo e dunque la sostenibilità delle politiche di controllo e rientro del debito pubblico (le Regioni chiedono, a loro viene promesso ma nulla viene chiesto: e il debito chi lo ripaga?). Il mercato interno perderà di fluidità e razionalità e sappiamo tutti quanto sia deficitario già oggi: tranquilli, potrà peggiorare. Così come sul piano fiscale – in senso stretto e in senso lato – si aprirà un confronto prevedibilmente al ribasso, cioè al ribasso della dimensione della base impositiva, dei trattamenti di favore marginalizzando sempre più la progressività posta dalla Costituzione alla base del sistema e già oggi ampiamente (e colpevolmente) ridotta. Sono tutte conseguenze che appesantiscono una situazione economica e sociale molto difficile: barriere, ostacoli, costi aggiuntivi, diseguaglianze tra cittadini. La Corte Costituzionale non giudica della bontà delle scelte politiche, ne giudica la coerenza con la Costituzione: ma queste scelte sono largamente negative su entrambi i piani.

(Imagoeconomica, Sara Minelli)

7. Il Parlamento potrebbe forse intervenire su questi aspetti in sede di approvazione delle intese tra Stato e (ogni singola) Regione. Forse: perché in realtà il Parlamento potrà solo “prendere o lasciare”, sostanzialmente con poteri diminuiti nell’indirizzo e (mi permetto di dire inesistenti) nel controllo. Tra le vittime del processo della AD c’è sicuramente anche il Parlamento: perché il processo è tutto nelle mani del governo, perché tendenzialmente c’è la frantumazione dei corpi statali che svolgono funzioni rilevanti ma a causa della AD perderanno la conoscenza della situazione e la capacità di verifica e conduzione. Qualcuno può immaginare che nella politica energetica e in quella delle grandi infrastrutture lo Stato possa esercitare una qualche funzione dopo che una metà (almeno ma potrebbero essere anche più numerose) delle Regioni avrà richiesto e ottenuto il potere esclusiva per le proprie tratte di competenza? Da un lato aumenteranno i costi – che i dotti chiamano “di transazione” ma che sono più prosaicamente le mance con cui comperare il consenso territoriale – e dall’altro non ci saranno più nemmeno i pochi ingegneri di oggi a controllare ponti e ferrovie.

Si sono indicate molte delle ragioni che spingono a ritenere che sarebbe indispensabile un esame attento della Corte Costituzionale della legge per la AD. Ve ne sono altre ancora, a partire da quelle proposte nella discussione parlamentare che, come è noto, si esauriscono rapidamente non dopo una discussione di merito sulla costituzionalità ma dopo un voto che è quello della maggioranza parlamentare.
Le Regioni, ogni singola Regione, è titolare del potere di interpellare la Corte, come abbiamo detto all’inizio: l’autorevolezza istituzionale, il valore dei consulenti giuridici sono la forza e la competenza che possono essere messe in campo. E sarebbe un ruolo importante che le Regioni potrebbero decidere di svolgere proprio nel momento in cui si vorrebbe dare loro maggiori poteri: potrebbero dare una lezione di senso della collettività e della funzione nazionale che pure competerebbe loro già adesso. Il tempo c’è, gli argomenti ci sono: possiamo solo auspicare che cresca l’interesse e la volontà di farlo. Presidenti, Giunte, Consigli: ogni organo può prendere l’iniziativa per promuovere il ricorso alla Corte.
La indicazione di questi argomenti e di tutti gli altri richiamati serve anche a un altro scopo, quello di dotare la attività dei prossimi mesi di tante questioni concrete e di merito che sono le uniche che muovono le persone e creano idee e opinione. Nei referendum non si chiede a nessuno di seguire o abbandonare un partito, anzi non gli si chiede proprio se nemmeno lo abbia, ma si chiede invece di farsi un’opinione a partire dalle proprie conoscenze, condizioni e riflessioni.
Insomma, la Costituzione che cammina e in questo modo cresce, nelle coscienze e nei fatti.

Alessandro Pollio Salimbeni, vicepresidente nazionale Anpi