Antifascismo e scuola, antifascismo a scuola, scuola di antifascismo… è un tema che ritorna e ritorna perché non risolto. Pare infatti che i movimenti di estrema destra e le loro emanazioni giovanili facciano incetta di consensi tra i banchi, certo non in tutte le scuole e non tra tutti gli studenti, ma è troppo comodo limitarsi a considerare coloro che per educazione o formazione possono dirsi antifascisti, non si risolve così il problema.
Già, perché dal mio punto di vista tale consenso rappresenta un problema ma mi rendo anche conto che questo potrebbe risolversi nel momento stesso in cui spiegassi efficacemente perché lo considero tale.
Invece nella mia esperienza di insegnante a volte mi sono trovata in difficoltà di fronte a chi sapevo (o presumevo) essere in disaccordo: non sopportavo da un lato il rischio di essere accusata di sfruttare l’asimmetria dei ruoli, di essere cioè la “docente” che vuole imporre una verità così come assegna voti e compiti; dall’altro mi pareva una perdita di tempo assurda spiegare l’evidente superiorità civile (vorrei dire morale, ma la “morale” non piace a nessuno, meno che mai a 16-17 anni) dell’antifascismo e della Resistenza a chi si ostinava a non capirla.
I miei nervi e la mia pazienza erano messi in crisi dai luoghi comuni con cui alcuni ragazzi facevano fronte, per esempio quando si discuteva sulla Giornata della Memoria: “Sì, ma i partigiani assassini? E le foibe? E i comunisti? Il fascismo ha fatto anche cose buone”. Spesso mi lasciavo prendere dalla rabbia, alzavo la voce, costruivo la mia – di barricata – e da lì cominciavo la mia sassaiola di parole contro le loro. E così l’asimmetria dei ruoli, tanto necessaria e prolifica per andare avanti se ben sfruttata, era spazzata via, trascinata io stessa nella rissa verbale. Voi direte che un’insegnante non dovrebbe scendere a quei livelli, e avete ragione, ma ho ancora molto da imparare.
Dopo episodi simili, in un’ora buca o a ricreazione, mi sfogavo alla macchinetta del caffè con un collega. Però capitava che le sue risposte mi irritassero ulteriormente: mi capiva, ma sosteneva che occorresse continuare a dialogare (non litigando, è chiaro) e discutere proprio con quelli che più contestavano valori per me indiscutibili. Occorreva confrontarsi a fondo. Senza dogmi, con molta pazienza.
Sbuffavo: come si può parlare con questi fascistelli in erba? Come glieli spiego l’antifascismo e la Resistenza? Coi fascisti non si parla, punto.
Mi sbagliavo. Questo caro amico e bravo collega, che conosce la virtù della pazienza e sa che la fretta di rado porta alla comprensione (dei programmi da parte degli studenti, degli studenti da parte dei professori), ha ragione. A scuola parlare anche – e soprattutto – con i ragazzi infatuati del fascismo non è una possibilità, è un dovere. È già questo antifascismo: confrontarsi, non arrendersi all’incomprensione, non opporre dogma a dogma; se – come scrive Umberto Eco – per l’Ur-fascismo «il disaccordo è tradimento», ecco che per l’antifascismo invece il disaccordo e la critica sono strumento di crescita ed evoluzione. In questo senso l’antifascismo mostra la sua natura metodologica prima che contenutistica, oltre che insegnare, l’antifascismo si deve applicare.
E così, per esempio, la Costituzione si può raccontare non solo come insieme di principi fondamentali e indiscutibili, ma anche e prima come processo di discussione e accordo tra pensieri e posizioni diversi che ha portato all’“alto compromesso” dei 139 articoli. Ma non solo, il metodo antifascista del confronto che non si arrende mai all’incomprensione (o quasi, perché esistono soglie che non si oltrepassano, quella della violenza, per esempio) trova applicazione in tutti i campi ed è per tutte le età, non solo per l’ora di storia al triennio: ogni volta che si ascolta un ragazzo, che si dà retta alle sue domande e ai suoi bisogni, che si prova a rispondere con serietà, ogni volta che si tenta di comporre un conflitto in classe tra alunni e alunni o tra alunni e docenti, ogni volta che si prova a trovare insieme la soluzione si fa pratica di antifascismo.
Riconoscere questo non significa rinunciare a contrastare la presenza di liste di estrema destra a scuola, ma significa mantenere la speranza che i ragazzi che le supportano e votano possano tornare alla “civiltà”, possano essere riguadagnati, convinti e non costretti, al principio democratico.
È chiaro che questo non basta, anche i ragazzi già convintamente antifascisti devono fare la loro parte e interrogarsi sui risultati che il neofascismo miete nelle scuole, ma credo sia responsabilità anche dei docenti aiutarli a fare in modo che le elezioni studentesche non siano delle farse ma delle autentiche occasioni di confronto e partecipazione, in cui il principio di realtà non deve mai mancare.
Occorrono fiducia, pazienza e preparazione.
Fiducia in loro (penso a quella che il Rettore Marchesi riservò ai giovani tutti nel suo celebre appello) e nelle nostre argomentazioni, pazienza a spiegare e attendere risultati non immediati, preparazione per rispondere ad ogni domanda, ad ogni critica.
L’appello di Concetto Marchesi
Nell’inverno del 1943, in occasione dell’apertura dell’Anno Accademico il Rettore dell’Università di Padova Concetto Marchesi lanciò agli studenti dell’Ateneo e a tutti i giovani italiani un appello a prendere le armi contro il fascismo e contro l’oppressione nazista. Il suo gesto ebbe enorme risonanza in tutte le Università dell’Italia occupata. Riparato in Svizzera per sottrarsi alla reazione nazifascista, Marchesi rientrò nell’ottobre del ’44 in Italia. Militante socialista fin dal 1893, fu tra i fondatori del Pcdi nel 1921. Nel dopoguerra fu membro del Comitato centrale del Pci, deputato alla Costituente e poi nelle legislature che iniziarono nel 1948 e nel 1953. Ecco il testo dell’appello.
“Studenti dell’Università di Padova! Sono rimasto a capo della vostra Università finché speravo di mantenerla immune dall’offesa fascista e dalla minaccia germanica; fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari e di proteggere con la mia fede pubblicamente professata la vostra fede costretta al silenzio e al segreto. Tale proposito mi ha fatto resistere, contro il malessere che sempre più mi invadeva nel restare a un posto che ai lontani e agli estranei poteva apparire di pacifica convivenza mentre era un posto di ininterrotto combattimento.
Oggi il dovere mi chiama altrove. Oggi non è più possibile sperare che l’Università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose, mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che – per la defezione di un vecchio complice – ardisce chiamarsi repubblicano vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori.
Nel giorno inaugurale dell’anno accademico avete veduto un manipolo di questi sciagurati, violatori dell’Aula Magna, travolti sotto la immensa ondata del vostro irrefrenabile sdegno. Ed io, o giovani studenti, ho atteso questo giorno in cui avreste riconsacrato il vostro tempio per più di vent’anni profanato; e benedico il destino di avermi dato la gioia di una così solenne comunione con l’anima vostra. Ma quelli, che per un ventennio hanno vilipeso ogni onorevole cosa e mentito e calunniato, hanno tramutato in vanteria la disfatta e nei loro annunci mendaci hanno soffocato il vostro grido e si sono appropriata la vostra parola.
Studenti: non posso lasciare l’ufficio del Rettore dell’Università di Padova senza rivolgervi un ultimo appello. Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra patria. Traditi dalla frode, dalla violenza, dall’ignavia, dalla servilità criminosa, voi insieme con la gioventù operaia e contadina, dovete rifare la storia dell’Italia e costituire il popolo italiano. Non frugate nelle memorie o nei nascondigli del passato i soli responsabili di episodi delittuosi; dietro ai sicari c’è tutta una moltitudine che quei delitti ha voluto e ha coperto con il silenzio e la codarda rassegnazione; c’è tutta la classe dirigente italiana sospinta dalla inettitudine e dalla colpa verso la sua totale rovina. Studenti: mi allontano da voi con la speranza di ritornare a voi maestro e compagno, dopo la fraternità di una lotta assieme combattuta. Per la fede che vi illumina, per lo sdegno che vi accende, non lasciate che l’oppressore disponga della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla schiavitù e dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra Università la gloria di una nuova più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace nel mondo”.
Pubblicato giovedì 22 Febbraio 2018
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