Molti sono gli interventi, adesivi o critici, sulla proposta dell’attuale governo e della maggioranza politica che lo sostiene, di modificare la Costituzione della Repubblica introducendo l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e altre norme che si vorrebbe rendessero più efficace l’operato di tale carica istituzionale. La motivazione di tale proposta starebbe nel fatto di rendere più incisiva e stabile l’azione del governo, al riparo dalla dialettica politica, pur sempre esistente tra i partiti presenti in Parlamento. Non si vuole in questa sede esporre più dettagliatamente i particolari della proposta, né commentarli. Vi saranno altre sedi e altre occasioni per farlo. Sarà invece utile, e perfino necessario, spostare le nostre considerazioni al tema di quale possa essere l’interesse, culturale, giuridico, politico, ma soprattutto economico-sociale, che tale proposta di modifica costituzionale susciterà nei cittadini italiani e in tutti coloro che in questo Paese risiedono e operano.
In altri termini ci si deve porre la quasi scontata domanda: ma cosa cambia per i cittadini comuni, cioè per coloro che vogliono rimanere estranei al dibattito politico e ne sono perciò del tutto indifferenti? Come tale proposta potrebbe ricadere sulle loro condizioni di vita e di esistenza; quale vantaggio potrebbe derivare alla stragrande maggioranza del popolo italiano che vive del proprio lavoro? La risposta a tali interrogativi potrebbe anche riguardare fatti di notevole interesse, come la propensione ad andare a votare nel caso di referendum confermativo della proposta che, a prima vista, potrebbe non avere il voto favorevole dei 2/3 del Parlamento e dovrebbe dunque essere sottoposta al voto popolare, ma, ancor più, su quanti cittadini eventualmente sarebbero propensi a votarla.
Si tratta dunque di svolgere il ragionamento secondo cui, in parole povere, un cittadino potrebbe chiedere: cosa cambia per me? Che benefici ne avrei io? Domande che, lungi dall’essere ispirate da egoismo e opportunismo, risultano essere legittime in una repubblica “fondata sul lavoro” come afferma il primo articolo della vigente Costituzione, e in una situazione di perdurante difficoltà economica, di grande concorrenza internazionale, di forte inflazione e rincaro di tutti i prezzi, di occupazione precaria e bassi salari. Alla luce di tali considerazioni è più che probabile che la prima domanda che si farebbe un cittadino è se quella questione lo riguardi, o meno. E la risposta potrebbe trovarsi in un’altra domanda. Si tratta di una riforma che dà più diritti, o aspettative di benefici, ai cittadini? Avrebbero gli stessi nuovi benefici o maggiori diritti dal fatto che il Presidente del Consiglio goda del consenso di una certa parte dell’elettorato?
Qui si apre subito un interrogativo. Quale e quanta parte dell’elettorato? E qui, rispetto al Paese (gli Usa) che ha inventato l’elezione diretta del Presidente (in Italia sarebbe una cosa un po’ diversa), il problema diviene quello del quorum per la validità dell’elezione e dell’assenteismo elettorale, che è in costante e preoccupante crescita. Ma, al di là del pur reale problema della legittimazione, se ne apre un altro.
È ragionevole che il candidato Presidente del Consiglio debba proporre la propria candidatura come collegata a un programma di governo. Ma, qualora il programma, anche per cause non dipendenti dal candidato, non venisse attuato, o addirittura venisse modificato in corso d’opera, il Presidente eletto dovrebbe dimettersi o potrebbe continuare indisturbato il proprio mandato? Cioè, il voto popolare elettorale è un mandato in bianco per l’eligendo Presidente del Consiglio o lo impegna a rispettare il programma che si è impegnato a realizzare? Riteniamo che la seconda ipotesi sia quella che, quasi indiscutibilmente, sarà ritenuta più possibile e legittima, anche perché il candidato Presidente è anche eletto come parlamentare, e perciò è sciolto da ogni vincolo di mandato, ai sensi dell’art. 67 Costituzione.
Dunque, in tale caso il problema non sarebbe quello di avere un Presidente che ha il diritto di ricoprire la propria carica, auspicabilmente, per tutta la legislatura in forza del mandato popolare, bensì delle scelte politiche che egli in concreto assumerà. In altri termini, qualora il programma sul quale ha ottenuto il consenso elettorale venga rispettato, allora la coerenza del personaggio politico costituirà il titolo per la sua permanenza a capo del Governo, ma qualora il programma non venisse rispettato, egli si troverebbe comunque a rivestire, fino a termine del mandato, una carica per la quale non avrebbe più l’impegno a onorare il sostegno popolare.
Dunque tale esempio chiarisce due cose: la prima è che la garanzia della stabilità della nomina per cinque anni non è sempre una garanzia di coerenza con gli impegni presi in campagna elettorale; la seconda è che la stabilità del Governo non dipende dalla norma costituzionale, ma dalle scelte politiche del “premier”. Cioè la mitica “governabilità”, di cui si parla dagli anni ’80 dello scorso secolo, è un problema di coerenza politica e di capacità di tenere coesa una maggioranza parlamentare su un programma di azione di governo che non dipende, e non può certo dipendere, dalle norme costituzionali, bensì dalla credibilità politica di coloro che ci condurranno alla guida del Paese.
Ma è proprio della coerenza politica di chi ha sostenuto la candidatura dell’aspirante “premier” che sembra si abbia un atavico terrore! Infatti, qualora le insidie vengano dal “fuoco amico”, come sembrano temere i proponenti della riforma costituzionale, in realtà bisognerebbe esprimere una o più conferme elettorali in corso del medesimo mandato. Il che non è certamente possibile, perché bisognerebbe indire nuove elezioni entro il quinquennio; il che contrasterebbe a sua volta con l’articolo 60 della Costituzione.
E allora balza all’occhio, con evidenza, il fatto che la stabilità politica del governo è una questione meramente politica, e non costituzional-giuridica, come la proposta modifica della Carta costituzionale vorrebbe fare credere. Ma, allora, in cosa si risolverebbe tale modifica della legge fondamentale dello Stato? La risposta è palese: solo a legittimare una permanenza al potere, indipendentemente dal raggiungimento degli obbiettivi programmatici e dai successi politici governativi. Tale blindatura per cinque anni del potere di “un uomo (inteso come entrambi i generi) solo al comando” dello Stato, sarebbe ulteriormente assicurata dal premio di maggioranza, sancito in Costituzione nonostante la legge elettorale sia materia di legislazione ordinaria, che assicurerebbe, salvo clamorosi scivoloni, la fiducia del Parlamento nel “premier”.
Ma, se i nostri attuali governanti leggessero bene la vigente normativa costituzionale, si renderebbero conto che i meccanismi di garanzia della continuità del potere politico esistono già, e sono pure belli evidenti! E ciò senza alterare con maggioranze artificiose le scelte elettorali! Esiste infatti l’istituto della fiducia, del quale già gli attuali governi si avvalgono a piene mani, specialmente per la conversione dei decreti legge, e che è divenuta pressoché il modo ordinario di legiferare.
Vi è comunque un compito di controllo del Presidente della Repubblica sia sul funzionamento delle Camere come del Governo. Vi è lo scioglimento anticipato delle Camere, sempre a opera del Presidente della Repubblica se le Camere non trovano più una maggioranza e il Governo non ha più base fiduciaria. Dunque i cittadini possono stare tranquilli sul fatto che i governanti abbiano tutti gli strumenti per trovare la stabilità politica e per potere sostenere il potere politico esecutivo con serenità e forza, dato che i meccanismi istituzionali del caso ci sono, e funzionano. È dunque solo un problema di coerenza e responsabilità delle forze politiche presenti in Parlamento. La Costituzione non c’entra perché la stabilità è compito e onere dei partiti scelti e legittimati dal voto dei cittadini.
Pertanto la riforma costituzionale proposta risponde solo alla preoccupazione delle forze politiche di non avere campo libero a fronte delle proprie eventuali difficoltà politiche, della propria inadeguatezza, e della propria abnorme brama di potere. Si tratta di un escamotage per poter avere la certezza di poter gestire il potere continuativamente per almeno 5 anni, e senza neppure il pericolo dei cosiddetti “ribaltoni”, perché la nuova normativa previene e regolamenta rigidamente tale residuale ipotesi, nell’ossessivo timore che il “premier” possa essere cambiato durante il proprio mandato di ben cinque anni! Il che, è un evidente auto denunzia di una gestione politica irresponsabile, che però vuole certo perpetuarsi, magari per un altro esecrabile ventennio!
Dunque al cittadino non viene in tasca nulla nell’assicurare all’aspirante premier il potere per tutta la legislatura, anche perché in quel periodo vi sarebbe, per estrema ipotesi, ampio modo di svuotare le casse dello Stato e malgovernare in ogni maniera possibile, se il “premier” non sarà stato retto e illuminato. Correndo tale rischio, non sarebbe preferibile per il cittadino un po’ meno di ferrea stabilità e “governabilità”?
I sostenitori della riforma per il premierato affermano che il nostro Paese ha cambiato troppi governi (sono 68 da quando è entrata in vigore la Costituzione, ma molti di essi sotto la guida di un unico partito e dunque in sostanziale continuità) ma ignorano che in Francia, con un assetto costituzionale molto simile a quello ora in discussione, e in molto meno tempo, i governi che si sono avvicendati sono ben 41! Ignorano altresì che quando si sono fatte le grandi scelte per il Paese (scuola media unica, statuto dei lavoratori, equiparazione dei figli nati dentro e fuori dal matrimonio, liquidazione delle partecipazioni statali e privatizzazioni ecc.) esse sono avvenute anche se i governi non erano così stabili, perché il Parlamento può sempre continuare a svolgere la funzione legislativa, anche, in teoria e per assurdo, senza un governo in carica.
Dunque, pur ritenendo, beninteso, che la stabilità governativa sia un fatto positivo e apprezzabile per il pur sempre valente motivo della sua serenità e continuità, si può però affermare che tale circostanza, allo stato, comporta un vantaggio esclusivo per le forze politiche, piuttosto che per i cittadini. Ed è per tale motivo che si potrà dire che, con tale riforma i problemi del lavoro, sia dipendente che autonomo, ma anche imprenditoriale, non saranno risolti. Forse sarebbe il caso di occuparci d’altro e che il governo pensasse alla propria stabilità politica guadagnandosi i propri meriti nei confronti dei cittadini che lavorano.
Un ruolo importante, in tal senso dovrebbero averlo i partiti politici, i quali dovrebbero concorrere, anziché competere, al governo della cosa pubblica rivolgendo la loro attenzione a tutti i cittadini, e non solo ai propri elettori, effettivi o potenziali che siano. In tal senso, un rilancio dei partiti politici, magari emanando una normativa quadro che fissi le loro funzioni costituzionali (non certo le priorità politiche o ideologiche) e i rapporti con la cittadinanza, sarebbe auspicabile, perché se all’interno delle forze politiche si instaurasse una profonda cultura civica di solidarietà e responsabilità, non solo ne avrebbe giovamento il popolo, ma anche la stessa stabilità politica del Paese.
Pietro Garbarino, avvocato cassazionista, iscritto Anpi e socio di Libertà e Giustizia
Pubblicato domenica 3 Marzo 2024
Stampato il 21/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/premierato-perche-ai-cittadini-non-verra-in-tasca-niente-anzi-hanno-tutto-da-perdere/