Il cambiamento politico e culturale consumatosi in questi ultimi trent’anni in Italia, ma anche in una parte importante del resto d’Europa, è stato segnato dal ritorno di temi e di motivi che sono transitati, dal loro originario costituire patrimonio di piccole nicchie, quindi ai margini della scena politica, ad oggetto di discussione e di considerazione nell’agenda di alcuni governi e di una parte rilevante dell’opinione pubblica generalista.

I movimenti, i partiti, le associazioni politiche che si rifanno al populismo come anche a modi di pensare, se non a vere e proprie ideologie, variamente definite come «identitarie» e «sovraniste», ne sono i principali strumenti e vettori di diffusione. Non è infrequente – infatti – che questi incapsulino, in una veste altrimenti più presentabile, alcuni tra i vecchi, ricorrenti e solidi motivi del neofascismo continentale. Il populismo finge che ogni virtù riposi nella volontà di un non meglio identificato «popolo», a prescindere da qualsiasi concreto riscontro di fatto. Il popolo costituirebbe, per il solo fatto di esistere, il depositario di verità incontrovertibili: basterebbe quindi interrogarlo per avere da subito le risposte giuste.

Ad esprimerne le istanze si incarica poi il leader carismatico, che assume la veste di oracolo insindacabile (ducismo), in quanto in rapporto di identità diretta, immediata con il comune sentire che promana dalla collettività. Il capo, in questo caso, non è solo colui che concentra su di sé tutto il potere ma anche il soggetto che sancisce l’inessenzialità delle mediazioni nei percorsi di rappresentanza. Può sembrare un paradosso e tuttavia c’è sempre una netta continuità tra certi rimandi alla democrazia diretta («uno vale uno», ossia ognuno ha pari diritto di scelta su qualsiasi materia, senza dovere delegare la sua decisione ad altri) e la sua risoluzione nella figura di un soggetto carismatico che, per le sue intrinseche qualità, più e meglio di qualunque altro raccoglierebbe il “comune sentire” espresso dalla moltitudine popolare. Se il sogno della democrazia diretta è l’abrogazione della rappresentanza, il ducismo ne realizza alcune aspetti, quanto meno sul piano simbolico. Poiché ribadisce che nel rapporto “diretto” tra folla e leader si esprimerebbe la veracità e l’autenticità del comune sentire, altrimenti influenzato, se non manipolato, dall’azione dei corpi intermedi, costituti da partiti, istituzioni, sindacati e quant’altro, tutti accomunati dal volere conculcare la volontà popolare.

L’identitarismo, in questo quadro, rimanda all’esistenza di un’«identità» profonda, immutabile, indiscutibile, che si accompagnerebbe ai caratteri di una nazione o comunque di una comunità coesa: si tratta della versione di poco più aggiornata delle teorie razziali e razziste novecentesche, quelle che postulano la fissità dei caratteri etnici in quanto espressione di una costituzione biogenetica immutabile, dalla quale fare derivare il diritto “naturale” alla sopraffazione del gruppo più forte e come tale da considerarsi “superiore” (suprematismo).

Il sovranismo, infine, nell’età della globalizzazione più spinta, dove la ricchezza è il prodotto di una circolazione continua, soprattutto dei capitali, si pone l’obiettivo di fissare una volta per sempre nel territorio, attraverso una sua presunta protezione capillare, in genere esercitata attraverso il ricorso alle armi, l’edificazione di confini tangibili e con il presidio politico delle «forze sane della nazione», le basi per garantire la prosperità sociale: da ciò, il rifiuto dei processi migratori, le fantasie ripetute sull’«invasione dello straniero» ma anche un profondo autoritarismo, che attribuisce alle autorità pubbliche funzioni prevalentemente repressive nei confronti di tutto ciò che non sia uniformabile ad un non meglio precisato «interesse comune».

Neonazisti (da https://3.bp.blogspot.com/-4L2pYLpGPww/WlEESInnbbI/ AAAAAAAHP4s/r6bPIdbKl5IOXB7F88jJn1lDoX3edB-cgCLcBGAs/ s1600/neonazisti2.jpg)

Populismo, identitarismo, sovranismo, radicalismi alimentano incessantemente, a proprio beneficio, una percezione diffusa e condivisa di «panico identitario e morale». Che cosa vuole dire? Indicando nel cambiamento sociale, economico, culturale in atto una minaccia alla continuità esistenziale degli individui, come delle società di cui sono parte, offrono dei bersagli contro i quali indirizzare la propria angoscia, che così si fa rabbia e poi furore. Al medesimo tempo, per incentivare questo comportamento, alimentano l’ansia da spossessamento, quella per cui sempre più spesso molte persone si sentono messe in discussione, a partire da uno status sociale declinante, nel loro ruolo e nella identità che ritenevano di avere consolidato una volta per sempre. Detto questo, va ribadito che in una tale circostanza, più ad un ritorno del “fascismo” classico, si ha semmai a che fare con uno spostamento collettivo dell’asse politico verso alcune sensibilità tipiche della destra radicale.

Il linguaggio adottato nella discussione pubblica ne è un indice rilevante: si tratta dello “sdoganamento” di parole dietro alle quali si cela un universo mentale che si fa in qualche modo proposta politica.

Un fatto che ha investito una parte sia dell’Europa che degli Stati Uniti. Con riflessi anche in altre parti del mondo (l’India hindu, ad esempio), laddove i processi di globalizzazione hanno ulteriormente agevolato l’espansione e il consolidamento di atteggiamenti, pensieri e condotte basate sull’intolleranza sistematica. Poiché alla dilatazione degli spazi della circolazione delle merci e dei capitali corrisponde, in molte società, la sensazione di essere privati di un orizzonte esistenziale certo. È come se tutto si muovesse senza garantire più dei punti fermi.

Il radicalismo di destra, ovunque si manifesti, cerca di rispondere a questa paura diffusa, offrendo qualcosa a cui ancorarsi, dando forma e sostanza a paure altrimenti senza oggetto. Dire che gli effetti problematici di una complessa trasformazione economica siano da imputare agli immigrati, ad esempio, si inscrive dentro un tale tipo di lettura del presente: è completamente falsa sul piano dei riscontri di fatto ma è rassicurante sul versante degli umori collettivi. E premia elettoralmente chi fa ad essa abbondante ricorso. Fermo restando che una facile e diretta equazione tra fondamentalismi, neofascismi e intolleranza, da sé spiega molto poco, dovremmo tuttavia interrogarci sul perché gli accentuati autoritarismi, profondamente illiberali, raccolgano, così come era già avvenuto nel passato, di nuovo un crescente seguito. Non solo di militanza ma, più in generale, di consenso pubblico. Tacito o sotterraneo finché occorre, poi manifesto quando se ne creino le condizioni per la sua emersione. È infatti netto e indiscutibile il nesso tra questo andamento (che si intreccia alla dirompenza dei sovranismi e degli identitarismi), con la persistente egemonia culturale di un discorso politico dominante che – invece – impone agli individui, nei momenti del bisogno, nessun altro riparo che non consista nel rifugiarsi in se stessi.

La permanenza e il lievitare dei radicalismi sono fenomeni non a caso interconnessi alla crisi dei sistemi di protezione sociale e, più in generale, al declino della funzione redistributiva dello Stato e delle amministrazioni pubbliche. Quand’essa si ricollega e si annoda alla trasformazione che il lavoro sta subendo, oramai da almeno tre decenni a questa parte, con la disintegrazione del sistema dei diritti, è la stessa idea di cittadinanza sociale che viene a rarefarsi, fino a ripiegare su di sé, in attesa che intervenga qualche forza “provvidenzialistica”, capace di colmare un vuoto nei confronti del quali gli individui sono completamente disarmati. Non meno che impauriti. Il ritorno della tentazione fascista, quindi, sta nel fatto che essa offre di sé un’immagine protettiva. E come se dicesse ad una folla di individui angosciati, interpellandoli individualmente: “se ti senti abbandonato dalle istituzioni, se ti ritieni leso nei tuoi diritti, se temi di essere espropriato di ciò che già hai ma che pensi possa esserti ingiustamente sottratto, noi potremmo essere la tua soluzione”. Poiché il fascismo, trascorso come presente, veste da sempre i panni sia della distruzione del “nemico” sia della tutela degli omologhi a sé. Sono le sue due polarità fondamentali: eliminazione di ciò che è visto come diverso (ossia lo stesso pluralismo politico, culturale e sociale) e, quindi, presentato in quanto minaccia; offerta di riconoscimento ai soggetti “obbedienti”, destinati ad allinearsi e a comportarsi in omaggio al canone dominante. Non a caso, quindi, ricorre continuamente ai discorsi sull’«identità», sulla «terra» (intesa come «sangue e suolo»), sullo «straniero», sull’«invasione» e sulla «minaccia», sul «popolo e la morale» (soprattutto nel senso di una ipotetica rottura dell’ordine naturale, sul quale si fonderebbe qualsiasi etica pubblica, e della funzione delle autorità carismatiche come strumento per ripristinarlo), sull’«élite traditrice contro il popolo autentico» (ovvero della falsa lotta dal basso contro l’alto), quindi sulla «prossimità» tra «identici» e la «distanza» rispetto ai «diversi».

Il transito è allora quello del capovolgimento della lotta sociale: non più dei “poveri” contro i “ricchi” ma dei “meno poveri” contro i “più poveri” e non per distribuire le risorse esistenti in maniera più equa ma, piuttosto, per accaparrarsene il maggiore numero possibile, a danno degli altri. Il declino della democrazia partecipativa ne è il suggello, insieme al riaffermarsi della liceità delle diseguaglianze più esasperate come paradigma di fondo delle nostre società. Affermare che questi disequilibri strutturali siano il prodotto di una presunta naturalità dei meccanismi di «mercato» equivale all’antica affermazione per cui, dinanzi ad un massacro di indifesi, ci si rassicurava dicendo: «Dio lo vuole!».

Da http://www.scmoth1804osmtj.org/ 2011/09/deus-lo-volt.html

È questo, senz’altro, il punto dolente: si ha a che fare con un neofascismo da salotto buono, la cui funzione è di rendere non solo culturalmente leciti ma anche socialmente plausibili esercizi di autoritarismo della cui traduzione in atti concreti si incaricano poi forze politiche definite «moderate». Più che un agire di sponda tra gruppi radicali e forze parlamentari si è semmai in presenza di una deriva dei significati politici e di un’accettazione di temi che un tempo, invece, non avrebbero trovato spazio nel proscenio politico, rimanendo ancorati al settarismo rancoroso dal quale derivavano. Oggi, invece, le cose sono ben diversamente orientate. Ancora una volta l’Ungheria di Orbán ha qualcosa da insegnare, al riguardo. È una dinamica di reciprocità tra destre estreme e partiti «centristi», che sta producendo i suoi effetti a livello continentale. Pari traiettoria, al netto delle differenze nazionali, la si può misurare anche in Polonia. Tra le altre cose, l’introduzione qualche mese fa nella legislazione penale di quel Paese di una norma che di fatto rimuove il coinvolgimento nella politica nazista di sterminio non risponde alla necessità – pur male soddisfatta – di censurare definitivamente il «male assoluto», bensì di dichiararsene esenti a priori, per poi assolvere il proprio nazionalismo da qualsiasi responsabilità presente e a venire. La destra radicale europea vive peraltro la crisi di rappresentanza delle sinistre, riformiste e non, come un’opportunità senza pari. Può carpirne una parte del suo elettorato, smarrito dai cambiamenti e in crisi di ruolo. Fondamentale è, per il suo programma, rielaborare i legami sociali da un punto di vista etnico. Il suo punto di forza è che parla ad un’intera collettività, rilevandone e denunciandone i problemi comuni (sempre più spesso trascurati dalla politica, in evidente affanno rispetto alle risposte da dare) ma offrendo ad essi una soluzione dichiaratamente regressiva. Alla società sostituisce il concetto di «comunità», quest’ultima costituita da soggetti affratellati da vincoli di sangue e di reciprocità etnica; ai percorsi di spaesamento e di smarrimento della soggettività contrappone l’idea di una «identità» forte, basata sul binomio tra «sangue e suolo»; contro il senso di espropriazione materiale e di subalternità economica statuisce l’idea che la difesa degli interessi sia prerogativa di un tradizionalismo che trova nella cristallizzazione feudale delle appartenenze di ruoli, ceti e identità la sua falsa realizzazione; alla farraginosità dei sistemi rappresentativi risponde con il ricorso all’autorità carismatica e l’insofferenza verso i diritti.

Da https://www.buongiornoslovacchia.sk/index.php/ archives/76397

Tre sono quindi i fattori di maggiore tensione, allo stato attuale delle cose: il declino della democrazia partecipativa, la crisi dei sistemi di Welfare e gli effetti continentali delle immigrazioni. Tutti e tre segnalano la grande movimentazione che ha coinvolto le società a sviluppo avanzato, inserendosi a pieno titolo dentro le logiche di mutamento che ne accompagnano l’evoluzione. Dall’insicurezza che da essi deriva, così come dal mutamento di statuto sociale del lavoro, oramai retrocesso a figura ancillare nella creazione delle identità collettive, il radicalismo politico sta traendo un significativo giovamento. Ha saputo infatti rilanciare la carta della socialità, abbandonata oramai da una parte della stessa sinistra (ripiegata sul mero riconoscimento dei diritti civili, disgiunti da una riflessione sugli indirizzi di fondo della società), declinandola però sul versante delle appartenenze etno-razziali. E alla crisi del capitalismo industriale risponde indicando la necessità di una guerra senza quartiere a quello finanziario, al quale dà il volto del «mondialismo» giudaico (o «sionista»).

Non è una destra che non si confronti con la modernità, semmai incorporandone numerosi aspetti, a partire dalla dimensione tecnologica. La presenza sul web, così come il ricorso alla musica come fattore di aggregazione e di proselitismo, sono due indici significativi della capacità pervasiva dei suoi messaggi. Ma se in questo caso propende ad occupare e colonizzare culturalmente la parte più giovane di una società altrimenti in via di veloce invecchiamento, il recupero in chiave fobica di due temi quali l’omosessualità (intesa come manifestazione di perversione della «natura umana») e l’immigrazione (segno di contaminazione) diventano i cavalli di Troia del binomio «legge ed ordine», da rivolgere indistintamente a tutti. Il neofascismo si presenta quindi, nella sua essenzialità, come un discorso sulla necessità di rimoralizzare una società che avrebbe perso i suoi autentici «valori»: in campo pubblico, dove tutto sarebbe malaffare, latrocinio, pandemonio, confusione e distruzione; in campo privato, dove sarebbero prevalse le spinte “contro-natura”, indirizzate a disgregare, attraverso le politiche dei diritti civili, la “naturale gerarchia” tra aristocrazie morali e subalterni. Ciò che il radicalismo fascistizzante prefigura non è quindi la restaurazione di qualcosa che è già stato ma la distruzione di ciò che c’è e che avrebbe fallito: la democrazia sociale e liberale. Di fatto, professando queste posizioni, ambisce a portare a compimento lo smantellamento brutale dello Stato dei diritti per sostituirlo con la condizione dell’eccezione permanente, quella che deriva dal doversi opporre ad un nemico, chiunque esso sia, rimanendo in una condizione di mobilitazione spasmodica. Una società che si senta perennemente sotto pressione, risulterà comunque meno disponibile a tutelare le proprie libertà, semmai negoziandole e poi cedendole a favore di quanti dovessero presentarsi come coloro che la sanno tutelare, ossia proteggere, dalla minaccia pervasiva e incombente del rischio di un’ecatombe collettiva. In tale modo, il radicalismo di destra, si candida a rappresentare e a governare parti delle nostre società abbandonate a sé. Non torna il fascismo storico ma senz’altro declinano la democrazia sociale e il pluralismo. È questo il vero problema.

Il risultato elettorale consegnatoci dalle urne il 4 marzo scorso allinea, per così dire, l’Italia al trend che sta accompagnando buona parte dei Paesi a sviluppo avanzato, Stati Uniti compresi. C’è oramai un blocco continentale, che trova oltre Atlantico, nella presidenza statunitense un qualche elemento di corrispondenza e che si connota per alcune caratteristiche specifiche: enfatizzazione delle sovranità nazionali, richiamo alle identità etnico-territoriali, protezionismo economico, rifiuto dei processi migratori o, quanto meno, di una parte dei loro effetti. Il pensare e l’agire in termini “populistici”, quindi, in una tale circostanza storica sono delle modalità di vivere la politica nel momento in cui essa ha perso di rilevanza nell’arena delle decisioni. Oggi, infatti, i luoghi e gli attori del potere sono altrove, essendo stati ridefiniti e ricollocati dai percorsi di globalizzazione che da circa quarant’anni accompagnano lo scenario internazionale. Le democrazie nazionali – quindi – ne risultano svuotate, dovendo perlopiù subire fenomeni complessi, che intervengono sulle collettività, ne determinano gli indirizzi di fondo, ne mutano anche la composizione sociale senza che gli organismi elettivi della rappresentanza, a partire dai parlamenti, possano a loro volta intervenire con decisioni di chiaro impatto e di sicuro effetto. Anche da ciò l’avanzare del fenomeno delle «democrature»: sistemi politici sì elettivi, e in parte ancora rappresentativi, ma senza i contrappesi costituzionali del pluralismo democratico ed istituzionale. Soprattutto, nazioni dove la funzione politica è concentrata di fatto negli esecutivi.

Ancora una volta va ribadito che il voto alle formazioni politiche nazionaliste e sovraniste non deriva necessariamente solo da un mero disagio economico ma da una più complessa condizione di percezione di perdita del proprio status e delle certezze, così come delle prevedibilità, che ad esso si accompagnavano fino ad un certo numero di anni fa. Ne fanno testo la Germania e l’Austria, per intenderci, dove le forze radicali che hanno vinto o potrebbero vincere non operano in paesi in crisi sociale. Quello che si può senz’altro affermare in una età – la nostra – dove il malcontento e l’incertezza sono due elementi dominanti (e motivanti sul piano della scelta elettorale), è che nessuna battaglia politica che prescinda da una piena riconsiderazione dei diritti sociali può avere qualche chance di successo. Diritti politici, civili e sociali devono costantemente intrecciarsi. Poiché gli uni non possono esistere in assenza degli altri e tanto meno surrogarli. Se i diritti civili rimandano anche all’identità individuale, quelli sociali sono più strettamente legati al ruolo redistributivo della ricchezza collettivamente prodotta dalle comunità nazionali. Senza agire su quest’ultimo perno, che a sua volta richiama un orizzonte continentale se non internazionale, sarà inevitabile il continuare a registrare i successi di quelle formazioni politiche che al conflitto sociale sostituiscono quello etnico.

Claudio Vercelli, storico – Università cattolica del Sacro Cuore