L’inquinamento del discorso pubblico si misura anche dal livello di riduzione della storia a mito. Non è forse nell’infuriare della guerra che Marc Bloch ha sentito più forte l’urgenza di realizzare l’Apologia della storia? Lui che, ormai non più giovane, e veterano d’un altro fronte, s’era fatto partigiano?
Nazismo, Liberazione, Resistenza, Guerra di Spagna sono i luoghi retorici a cui si attinge per esasperare la partecipazione emotiva alla guerra in atto. L’evocare a fini contingenti la Resistenza (quella che scriviamo con la maiuscola reverenziale), non è certo una novità di questi giorni. Tuttavia, è curiosa – ma ovviamente non inspiegabile – l’inversione di tendenza. Dopo un ventennio e più in cui ha dominato la mitografia antipartigiana à la carte dei Gianpaolo Pansa e dei Bruno Vespa, gli epigoni dei Montanelli e dei Longanesi, la Resistenza è divenuta un mito mobilitante d’improvviso buono anche a destra: un sacrario dell’Occidente a cui fare visita per rinfocolare lo spirito dello scontro di civiltà.
La Resistenza è insieme storia e mito, questo è innegabile. È dubbio se, al netto delle petizioni di principio, e cioè guardando non alla Costituzione formale ma a quella materiale, sia ancora generalmente percepita come il mito fondativo della repubblica. Ma per l’ANPI è, soprattutto, l’evento costituente. Come possiamo noi essere fedeli all’evento? Il che significa, anche: come possiamo sottrarlo agli usi propagandistici che di volta in volta se ne vogliono fare? La risposta credo debba essere: restituendogli la sua materialità storica, che è un insieme di nessi causali, dunque un processo. E per di più un processo pluridecennale, non solo l’evento dei venti mesi.
Esclusa la denigrazione, che è affare dei nostalgici dell’Asse o dei dilettanti della storiografia, attorno alla Resistenza sono possibili due discorsi: quello agiografico e quello problematizzante. Il discorso agiografico elimina le contraddizioni, il discorso problematizzante se ne fa carico. Il primo edifica, il secondo spiega. Il primo pretende adesione morale, il secondo mette in scena una storia fatta di uomini e donne in carne e ossa, che hanno conosciuto sia esitazioni sia slanci, che hanno sia commesso errori sia compiuto imprese: una storia che è insieme sia quella della Resistenza perfetta raccontata da Giovanni De Luna, sia quella della Resistenza difficile (e grande proprio perché difficile) raccontata da Santo Peli.
Se a comporre un canone letterario sulla guerra partigiana sono i Fenoglio e i Calvino, i Pavese e i Meneghello, è perché questi narratori hanno saputo raccontare una Resistenza esistenziale e politica, anche troppo umana, e perciò a noi più vicina di una raffigurazione oleografica (Walter Siti direbbe “pantografata”). Se il Saggio sulla moralità nella Resistenza è il grande libro che conosciamo, è perché Claudio Pavone ha saputo decifrare meglio di chiunque altro la complessità di una guerra che è stata a un tempo unica e (almeno) triplice.
Queste sono considerazioni di buon senso, sulle quali non è il caso d’insistere oltre. Mi auspico, avendole ripercorse sommariamente, di poggiare su argomenti non troppo fragili la tesi che vorrei ora sostenere. La tesi è che il nostro messaggio non deve peccare di eccessiva semplificazione. Ormai ho doppiato il capo dei trent’anni, perciò sono una “giovane promessa” forse solo per lo standard italiano. Potrei ricordare, ad esempio, che Gabriel Boric, il neoeletto presidente cileno (e proprio in quest’importante stagione costituzionale), ha 36 anni. O che Bhaskar Sunkara, il neo-presidente di The Nation, ha 32 anni: esattamente la mia età. Come che sia, me ne approfitto: mi aggrappo al credito di giovinezza che ancora mi è concesso per dire che il tema del coinvolgimento delle giovani generazioni, a cui è improntato anche il documento approvato dal XVII congresso dell’ANPI, non dev’essere impostato a partire da un possibile fraintendimento. Sono ricorrenti, anche tra noi, le doglianze sul disinteresse dei giovani alla cosa pubblica. Se ne induce una sorta di deficit generazionale, che nelle invettive più spinte – ma non infrequenti – sfocia in sentenza di condanna d’una mentalità imbelle quasi irrecuperabile. Tuttavia, queste posture sono in fondo autoconsolatorie, e soprattutto esimono chi le assume dal compito, ben più difficile d’un comodo ‘o tempora!’, d’indagare la diversità dei codici e dei riferimenti culturali, vale a dire delle enciclopedie, che sempre ha marcato i passaggi di generazione.
È indubbio che la formazione – vorrei dire etica prima ancora che politica – di chi è nato dopo la metà degli anni 80, dunque anche la mia, sconta la crisi dell’antifascismo di cui il pamphlet di Sergio Luzzatto apparso da Einaudi quasi vent’anni fa è la diagnosi lucida e impietosa. Ma ho l’impressione che da questa premessa discenda la tentazione di recuperare il terreno perduto confezionando un messaggio che postula un destinatario molto più ingenuo, molto meno smaliziato di quanto non sia in realtà. Un messaggio che per il timore dell’incomprensione incappa nel difetto opposto, ossia banalizzare, e dunque rendere inservibile il repertorio complesso che è la storia dell’antifascismo.
Il discorso persuasivo, dicevano i maestri dell’oratoria latina, ha tre funzioni: docere, delectare, mouere; insegnare, suscitare emozioni, essere piacevole. Un antifascismo troppo semplice non docet, non insegna, e perciò corre il rischio di passare per irrilevante. Il “timore di rettorica” che angustiava l’intellettuale partigiano Emanuele Artom era proprio questo: che la celebrazione degli eroi (che, si sa, son tutti giovani e belli) prendesse il posto della complessità, addirittura della contraddittorietà del gesto di prendere la via dei monti.
Per concludere: l’ANPI è perfettamente in grado d’impadronirsi dei codici della contemporaneità: per farlo, bisogna pensare i giovani non come oggetto della nostra comunicazione, ma come soggetto fra i soggetti della nostra azione. Non solo mettersi in ascolto, ma anche dare parola. Dare voce in capitolo a chi fa “osservazione partecipata” della contemporaneità, parlandone il linguaggio sia culturale sia politico: la politica è, anche, una questione di stile. E l’ANPI che esce dalla stagione congressuale deve essere questo: un luogo di elaborazione della complessità del presente, che dà profondità storica e critica al suo pensiero.
Luca Casarotti, Anpi Pavia
PS: questo articolo riprende, con alcune modifiche e l’aggiunta di qualche link, il testo dell’intervento svolto, il 25 marzo scorso, al XVII congresso nazionale ANPI. Ringrazio le molte persone che nei giorni dell’assise hanno voluto discuterne con me.
Pubblicato giovedì 7 Aprile 2022
Stampato il 22/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/per-un-antifascismo-complesso-allaltezza-del-presente/