I migliori disegnatori satirici hanno il dono di condensare in rapidi tratti e in poche parole il senso e le implicazioni dei fatti di cronaca. In una vignetta di Mauro Biani apparsa su la Repubblica del 4 febbraio, la sagoma di un uomo fa capolino fra due tende di colore nero e recita la seguente battuta: «Intollerabili le discriminazioni tra studenti vaccinati e non vaccinati. Botte a tutti».
Il testo contiene una duplice allusione: alla dissociazione dei ministri della Lega dalle misure di prevenzione e di contenimento dei contagi nelle scuole, adottate dall’esecutivo due giorni prima, e al comportamento tenuto dalle forze dell’ordine in occasione delle proteste studentesche seguite alla morte in una fabbrica del giovane Lorenzo Parelli, al termine di un percorso di formazione professionale. Biani ironizza sulla grottesca coerenza del partito di Salvini, che in nome del principio di uguaglianza e della lotta a ogni forma di discriminazione si oppone ai criteri di regolazione della presenza degli studenti nelle aule scolastiche in questa fase dell’emergenza sanitaria, e approva tacitamente le manganellate a loro equamente distribuite dalla polizia.
Il ricorso ingiustificato all’uso della forza contro i giovani manifestanti ha suscitato indignazione in tantissimi cittadini ed è stato stigmatizzato, oltre che da autorevoli opinionisti e da alcune forze politiche, anche dalla nostra Associazione. In più, il comunicato diffuso qualche giorno fa dalla Segreteria nazionale Anpi denuncia la difformità delle linee di condotta praticate negli ultimi mesi dalle autorità preposte alla tutela dell’ordine pubblico. La prudenza dimostrata a fronte di cortei e assembramenti palesemente pericolosi per il numero e l’aggressività dei partecipanti (quelli dei No Vax e dei No Green Pass, per intendersi), e, per converso, l’inflessibilità esibita verso adunanze magari rumorose ma sostanzialmente inoffensive (quelle degli studenti), non possono essere sempre attribuite a difetti della catena di comando; riesce difficile sottrarsi al sospetto che la cautela nasconda una benevola tolleranza, l’intransigenza sia dettata da livore e pregiudizio. Perciò è necessario che il titolare del dicastero degli Interni fornisca formali rassicurazioni sulla volontà di garantire in maniera imparziale l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti quali la libertà di riunione e quella di espressione del dissenso.
La vignetta di Biani è uscita a poche ore dal discorso pronunciato alla Camera dei Deputati dal Presidente Mattarella durante la cerimonia del giuramento, e nella stessa data dell’annunciata mobilitazione nazionale degli studenti, che si è fortunatamente svolta senza inconvenienti. Nella sua allocuzione, il Capo dello Stato ha richiamato Parlamento e governo al dovere di «ascoltare la voce degli studenti, che avvertono tutte le difficoltà del loro domani e cercano di esprimere esigenze, domande volte a superare squilibri e contraddizioni».
Non c’è nulla di paternalistico in questa frase; in essa si può forse cogliere una velata censura nei confronti dei responsabili della gestione dell’ordine pubblico, ma sicuramente vi risuonano una sincera preoccupazione e un severo monito. Se guardiamo oltre l’angusto orizzonte della cronaca, comprenderemo che la terribile sciagura di cui è restato vittima Lorenzo Parelli ha funzionato come detonatore della condizione di malessere, di disagio, di sofferenza in cui è sprofondato il mondo giovanile, e sulla quale legioni di sociologi, psicologi e pedagogisti hanno prodotto, soprattutto negli ultimi tempi, una copiosa letteratura.
Da essa emerge il profilo di una generazione disorientata, spesso preda dello sconforto perché espropriata di prospettive. Quale domani possono, del resto, immaginarsi ragazze e ragazzi che sono consapevoli della difficoltà di trovare sbocchi occupazionali, che si sentono condannati – nel migliore dei casi – a un lavoro precario, mal retribuito, privo di diritti e di tutele, che avvertono l’impossibilità di elaborare un qualsiasi progetto di vita? Inoltre, la presa d’atto della svalutazione dei titoli di studio agisce come un fattore di demotivazione, provoca le dimissioni dall’impegno scolastico; la constatazione dell’esaurimento della funzione di “ascensore sociale” in passato esercitata dall’istruzione superiore invoglia all’abbandono, induce alla rassegnazione.
Anche queste sono “botte”, neppure tanto metaforiche, inflitte agli studenti. Così decine di migliaia di giovani, ogni anno, cercano all’estero le opportunità e le gratificazioni che si vedono negate in patria, impoverendo ulteriormente le risorse umane di un Paese già alle prese con un vistoso calo demografico.
I segni dell’insicurezza dei giovani sono peraltro molteplici, ed eloquenti. Gli studenti contestano anche la decisione del Ministro competente di reintrodurre due prove scritte nell’esame di maturità; dicono di non essere preparati ad affrontare l’ostacolo, dopo un triennio in cui la prevalenza della didattica a distanza, oltre a impedire il normale svolgimento dei programmi, ha causato seri danni alla qualità dell’apprendimento. Per converso, docenti, dirigenti scolastici e prestigiosi intellettuali sostengono che la serietà dell’esame impone l’accertamento di determinate abilità, prima fra tutte quella di esprimere chiaramente e ordinatamente le idee nel discorso scritto.
Confesso l’imbarazzo a schierarmi in questa disputa, perché riconosco ragioni valide a entrambe le posizioni, e perché ritengo che l’oggetto del contendere sia oltremodo enfatizzato; gli studenti sembrano rappresentarsi l’esame di maturità come un “giudizio di Dio”, come una “roulette russa”, in cui il caso la fa da padrone, gli altri – i loro interlocutori – paiono equipararlo a un “rito di passaggio”, a un cimento decisivo a ottenere il lasciapassare per l’età adulta. Peraltro, gli studenti dovrebbero ricordare che a valutarli saranno i loro docenti, i quali ne conoscono pregi e difetti, hanno essi pure sperimentato le deficienze dell’insegnamento da remoto, e dunque sapranno giudicare con saggezza; raffigurarseli nelle vesti di altrettanti Minosse danteschi significa diffidarne, e la mancanza di fiducia negli educatori è l’aspetto più inquietante di questa strana controversia.
Ma torniamo al motivo principale della protesta studentesca. Il mortale incidente occorso a Lorenzo Parelli ha riacceso le polemiche sull’alternanza scuola-lavoro (ora chiamata Pcto), sulle sue modalità e sul suo stesso valore formativo. È noto che molti imprenditori rifiutano le richieste presentate dalle scuole perché non vogliono impicci e non gradiscono che “estranei” siano messi a parte del funzionamento delle loro aziende, e che altri imprenditori le accettano soltanto perché vi scorgono il vantaggio di poter disporre di manodopera a costo zero.
Nelle aree in cui il tessuto produttivo è meno sviluppato, poi, i dirigenti scolastici devono letteralmente inventarsi progetti per ottemperare all’obbligo di legge, pur nella convinzione della loro totale vacuità. Questo è, in termini sommari, il bilancio di una innovazione – l’alternanza, appunto – che voleva rappresentare il simbolo di una “buona scuola”, fondata su una concezione utilitaristica, ovvero sul primato della cultura del fare sul sapere astratto, delle competenze sulle conoscenze: una concezione che abbiamo già criticato nel nostro documento congressuale.
Conforta che il Presidente Mattarella, nel discorso in precedenza citato, abbia esortato a realizzare «una scuola che sappia accogliere e trasmettere preparazione e cultura, come complesso dei valori e dei principi che fondano le ragioni del nostro stare insieme; volta ad assicurare parità di condizioni e di opportunità». L’auspicio è che questo appello non cada nel vuoto; perché la mobilitazione degli studenti cesserà, ma i problemi che ha sollevato, se non verranno affrontati e risolti, peseranno come un macigno sul futuro del Paese.
Ferdinando Pappalardo, vicepresidente nazionale Anpi, presidente onorario Comitato provinciale Anpi Bari
Pubblicato mercoledì 9 Febbraio 2022
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