Dopo molti anni di esperienze nella “celebrazione” del Giorno della Memoria nelle scuole, ritengo che possa essere utile il racconto dell’esperienza vissuta con l’Anpi di Cascina (PI) nel 2023 e nel 2024, e fare qualche considerazione sul futuro di queste iniziative.
Le Staffette della Memoria
Nei primi anni dall’istituzione del Giorno della Memoria, in Italia nel 2000, e poi estesa a livello internazionale dall’Onu nel 2005, erano ancora vivi alcuni testimoni diretti di quegli anni e delle lotte partigiane. I loro racconti nelle scuole erano particolarmente toccanti e colpivano molto i ragazzi, come di nonni a cui erano capitate cose terribili. Poi, il passare del tempo e il venir meno di quei testimoni diretti ha imposto di raccontare quelle vicende in modo diverso: con film, letture, lezioni più o meno interattive, e più o meno riuscite, in qualche caso con visite a musei o ai campi di sterminio, che però corrono il rischio di trasformarsi in una sorta di rito, che come tutti i riti può alla lunga risultare noioso, ripetitivo, quasi un dovere accanto ad altri doveri stagionali.
La distanza anagrafica tra noi testimoni di seconda o terza generazione e i ragazzi e i bambini di oggi cresce ineluttabilmente, e si pone l’esigenza di un ripensamento complessivo dei linguaggi e delle modalità comunicative con cui affrontare ciò che non è solo una questione storica o storiografica, ma un punto capitale e nevralgico di un’educazione civile e morale autenticamente democratica.
Nel gennaio 2023 un gruppo di insegnanti ha dunque proposto su base volontaria agli studenti delle ultime classi di una scuola superiore (l’IIS “Antonio Pesenti” di Cascina) di formare una squadra di “Staffette della Memoria” che si documentassero con qualche lettura e raccontassero ai loro compagni di classe il senso che per loro avevano avuto quelle letture e soprattutto il senso che ha oggi, se ce l’ha, il tramandare, proprio come delle staffette di atletica o di nuoto, questa particolare memoria, che non può certo essere paragonata alla memoria di tanti altri eventi storici (che pure sarebbe bene non dimenticare).
Abbiamo a tal fine creato una biblioteca, consultabile online, di testi che spaziano dai classici come Primo Levi o Elie Wiesel a testi memorialistici come il diario delle sorelle Bucci o quello di Italo Geloni, dalle migliori opere di narrativa (Campo del sangue di Affinati, 16 ottobre 1943 di Debenedetti, Essere senza destino di Kertesz) a quelle più propriamente storiografiche (come I volenterosi carnefici di Hitler di Goldhagen, La nostra Shoah di Carlo Greppi, Ausmerzen di Marco Paolini), e anche a testi più impegnativi che propongono una riflessione in senso lato filosofica sul significato della Shoah (come le opere di Agamben, Bensoussan, Bauman, Todorov, o La banalità del male della Arendt): ma sono solo alcuni esempi tra le varie decine che abbiamo selezionato e proposto.
È stato un successo
L’esperimento è riuscito molto bene: i ragazzi che si sono offerti come Staffette hanno trovato molto interessanti le letture che si erano scelte, e le loro considerazioni sono state tutt’altro che banali e di circostanza. Le Staffette hanno svolto i loro interventi dalla sala della Biblioteca Comunale, collegati online con le rispettive classi, che potevano alla fine porre domande, fare libere osservazioni.
Quest’anno abbiamo perciò deciso di ripetere questa esperienza, aggiungendovi però un’altra scommessa: quella di creare delle “Staffette junior” che facessero degli interventi nelle classi quarte e quinte delle scuole primarie del territorio. Non si tratta cioè di raccontare cose imparate e le relative riflessioni a propri coetanei, ma di porsi il problema, per le Staffette diciottenni-ventenni, di relazionarsi con i bambini di 9-10 anni. Anche le letture proposte sono state naturalmente diverse: a partire da un testo di eccezionale chiarezza e sintesi come Auschwitz spiegato a mia figlia di A. Wieviorka, o il Diario di Anna Frank, senza contare diversi siti che affrontano molto bene la “didattica della Shoah” per i giovanissimi.
I tre incontri con le classi delle Staffette junior sono stati dei momenti molto belli e utili, con una grande partecipazione e curiosità da parte dei bambini, che hanno probabilmente capito che non si tratta di “argomenti da vecchi”, ma che anche i ventenni possono avere un ruolo attivo in questo “passaggio di consegne”. Al termine di questi incontri con le Staffette, ogni classe ha elaborato un cartellone con disegni, pensieri, racconti dei figli dei testimoni di quelle vicende; i cartelloni, molto belli, creativi e originali, sono stati esposti in una mostra alla Biblioteca Comunale.
L’esperienza sembra funzionare. Si potrebbe addirittura ipotizzare che possa essere la strada maestra per una costante “riattualizzazione” della Memoria, ma anche per stabilire nuove, interessanti relazioni tra i diversi strati generazionali: la Shoah raccontata da ventenni di oggi, che se la sono sentita raccontare dagli adulti e dagli anziani, a bambini di 9-10 anni, assume un altro “sapore”, perde quell’aria di argomento “antico” che rischia di avere se la distanza anagrafica tra i “docenti” e i “discenti” è troppo grande, perché i linguaggi, le modalità comunicative inevitabilmente cambiano con il passare del tempo.
Potremmo anche considerarla come un’attività di “Peer education”, cioè di un’educazione tra pari, ma al di là di questo aspetto eminentemente didattico, si tratta di una questione etica fondamentale, vale a dire chiedersi che cosa del passato, del sapere storico, meriti davvero, e in che misura, di essere tramandato, e gettare le basi perché i destinatari – le giovani generazioni – assumano con la necessaria gradualità la prospettiva di essere appunto i partecipanti di un testimone di staffetta che non va lasciato cadere.
Qualche riflessione
Le esperienze che ho appena presentato, sicuramente molto riuscite, non possono tuttavia evitare di porci alcuni interrogativi, circa il senso del Giorno della Memoria negli anni a venire. Cerchiamo di sintetizzarne alcuni, ben consapevoli che i problemi sono tanti, e afferiscono all’uso pubblico della storia, su cui molto si è dibattuto negli ultimi anni.
Il rischio della ritualizzazione
Ogni rito, nella società di oggi e con la crescente invadenza delle modalità comunicative social, rischia di essere banalizzato, di ingenerare stanchezza, di essere vissuto come una liturgia dovuta, ma non più capace di trasmettere il senso di qualcosa che abbia una validità etica e politica permanente. Non possiamo nasconderci che il Giorno della Memoria può essere scambiato come una delle tante, troppe Giornate Internazionali, dedicate a temi importanti, meno importanti, talvolta francamente futili. Chiediamoci allora, seriamente, che cosa ci insegna ancora la Shoah, in che cosa risieda la sua unicità.
Il rischio della saturazione
Sappiamo che, nei primi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sulla Shoah è sceso un velo di relativo oblio, che naturalmente ha tante ragioni storico-politiche, ma anche di psicologia sociale, come di un lutto troppo grande che si riusciva a stento a elaborare, e che tornava comodo rimuovere, non solo nelle nazioni, Germania in testa, che ne erano state responsabili.
Il processo Eichmann, nei primi Anni Sessanta, fu indubbiamente un punto di svolta, che contribuì in misura decisiva a un “fare i conti con la memoria”, che ha prodotto negli ultimi decenni del secolo scorso una notevole mole di libri e di film, i quali hanno portato in un modo o nell’altro all’istituzione del Giorno della Memoria. Peraltro, questa profluvie di materiali ha generato anche dubbi, come di uno sfruttamento commerciale del tema, come acutamente denunciato da Norman G. Finkelstein in un libro “scabroso” come L’industria dell’olocausto (2002).
I primi due decenni del secolo presente hanno visto una proliferazione di opere, anche molto notevoli, ma al tempo stesso emerge, a ben vedere, una sorta di stanchezza, come di un accanirsi su un fatto storico sempre più lontano nel tempo, e di cui si stentano a capire le ragioni del suo permanente significato etico-politico complessivo.
Senza contare che, come ben sa chiunque si occupa professionalmente dello studio storico della Shoah, questo è un argomento che “avvelena chi se ne occupa”, come ha scritto Alberto Cavaglion. Mi è capitato di sentire frasi del tipo “Della Memoria bisognerebbe occuparsi tutto l’anno, non solo il 27 gennaio”: ecco, questo luogo comune, sia pure mosso da nobili intenzioni, mi sembra francamente sbagliato. Dei crimini del genocidio nazifascista, bisogna continuare a farsi carico, ma la Shoah non deve diventare un Museo dell’Orrore, né tantomeno indurre a pensare che la Storia sia solo un cumulo di errori ed orrori, ma semmai far intravedere che, anche in un secolo di straordinarie conquiste e processi emancipativi, si annida una potenzialità distruttiva contro la quale occorre erigere opportuni argini razionali.
Il rischio della relativizzazione
Perché allora insistere ancora sul dovere di ricordare la Shoah, in un mondo così lontano da quello del 1945, in cui emergono nuovi conflitti, nuovi crimini, nuovi orrori, ai quali la Shoah può essere accostata, a mio avviso, solo compiendo un’indebita strumentalizzazione, come ad esempio nell’uso fin troppo disinvolto del termine “genocidio”? Il 900, come sappiamo, è stato definito “il secolo dei genocidi”: allora, perché ricordarne solo uno? Solo per ragioni “quantitative” del numero di vittime? Si torna ancora una volta a questo punto essenziale: in che cosa risiede l’”unicità” della Shoah? Bisogna capire e far capire che la Shoah ha un carattere paradigmatico, perché è stata la prima e unica volta che lo sterminio di un intero popolo è stato compiuto non in modo per così dire preterintenzionale, ma sulla base di un’ideologia esplicita, su base apertamente razzista, e applicando le più “moderne” tecniche di riduzione di esseri umani in stato di schiavitù e poi della loro “eliminazione”. Su questo carattere scandalosamente “moderno” della Shoah rimane ancora imprescindibile il contributo di Zygmunt Bauman (Modernità e Olocausto, 1989): né il genocidio degli Armeni nel 1915, né l’autogenocidio cambogiano degli Anni Settanta, né quello dei Tutsi ruandesi nel 1994 possono esservi comparati, senza perciò nulla togliere al loro carattere tragico e criminale.
Il rischio della mitizzazione
Al tempo stesso, proprio nella sede didattica del racconto della Shoah, si corre costantemente il rischio di trasformarlo in un mito. Certo, basato su fatti storici inequivocabili, ma a lungo andare ogni fatto storico può trasformarsi in mito. E i miti, si sa, sono ambigui: evocano al contempo orrore e una inconfessabile attrazione: una torva, inizialmente inconfessabile fascinazione.
Il già citato Alberto Cavaglion, in un notevole articolo di qualche anno fa (Piccoli consigli al ventenne che in Italia studia la Shoah, 2007), ha messo giustamente in guardia dal pericolo di puntare troppo sulle emozioni, in cui si incorre facilmente in sede didattica. Occorre cioè un approccio razionale, propriamente storico (la storia non va confusa con la memoria individuale). È una specie di acrobazia parlare della Shoah come di un evento storico come tanti altri, e al tempo stesso conservarne il senso dell’unicità.
Si può in questo senso richiamare anche l’indimenticabile lezione di Primo Levi, che ci ammoniva sulla distinzione tra mostri e uomini comuni: “I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Höss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka….”.
Questa straordinaria riflessione di Primo Levi ci suggerisce almeno due riflessioni: ci ammonisce sulla pericolosità di ogni potere carismatico, di ogni “culto del Capo”, che ci scagiona dalla responsabilità della coscienza individuale, ma al tempo stesso ci fa pensare al carattere “mostruoso” di certe conseguenze dell’obbedienza cieca. Il fatto è che oggi i mostri possono anche piacere, affascinare. Bisogna vigilare con estrema attenzione a non suscitare questo “fascino del male”. Molto semplicemente, quando raccontiamo o facciamo raccontare ai bambini delle camere a gas, o dei forni crematori, o degli esperimenti medici sui deportati, dobbiamo stare attenti a non dare a questi fatti spaventosi una curvatura “horror”, che in certe fasi dell’età evolutiva può perfino sedurre.
Il rischio della banalizzazione
La Shoah, come siamo andati argomentando in queste osservazioni senza pretese di sistematicità, è una questione delicata. Non può e non deve essere strumentalizzata, non può e non deve dar luogo a inammissibili comparazioni con il presente. Quel che è stato è stato, e tutto ciò che è tecnicamente possibile può ripetersi, al di là del ricordarlo o meno. Affrontarlo seriamente, criticamente, razionalmente significa accantonare le facili emozioni, le condanne di prammatica: azzardiamo perfino che essa ci insegna l’esistenza di componenti malvagie nella natura umana, che possono riemergere in determinate condizioni, se non si vigila attentamente.
Pensiamo all’inquietante quantità di siti negazionisti o riduzionisti, quando non apertamente simpatizzanti col nazifascismo; pensiamo come, accanto alle grandi capacità di documentazione e di formazione, la Rete presenta anche il rischio di una volatilizzazione e di una banalizzazione del sapere condiviso, in cui anche la Shoah viene affrontata come un argomento tra infiniti altri. Forse, tornare a leggere e far leggere pochi testi-base, le testimonianze autentiche, può essere una strada da percorrere, che resista all’usura del tempo (questo è il senso dell’operazione delle Staffette, che abbiamo presentato).
Perché, ci chiediamo infine, dopo tanti decenni di educazione antifascista nelle scuole, dopo tante “celebrazioni” del Giorno della Memoria, si ripresentano ancora scene disgustose come striscioni negli stadi che inneggiano ai forni crematori, o che insultano Anna Frank, o come masnade di tipacci che esibiscono il saluto romano, e via dicendo? Solo il “frutto dell’ignoranza”, come qualcuno continua a ripetere?
Non credo. Semmai mi viene da suggerire che il fulcro dell’azione educativa debba essere concentrato nell’educazione al pensiero individuale, al rifiuto di ogni logica di branco, che accomuna, a ben vedere, il conformismo delle adunate oceaniche dei regimi fascisti, e la presunta irresponsabilità dei carnefici, a fenomeni che oggi i ragazzi e i bambini capiscono benissimo, come le forme più o meno efferate di bullismo e di cyberbullismo. Occorre cioè tornare a rivitalizzare i sacri principi su cui dovrebbe fondarsi ogni consorzio civile: la libertà, l’eguaglianza, la fraternità, semplicemente la capacità di vedere nell’altro, nel diverso, un nostro simile.
Senza retorica
Il problema è come non farlo in modo retorico, con il richiamo a principi astratti, ma inventando forme comunicative efficaci, che utilizzino i nuovi linguaggi e che soprattutto mobilitino le potenzialità creative e interattive delle giovani generazioni. Anche i nuovi massmedia possono essere fruiti in modo passivo, e anzi indurre perfino a più sofisticate forme di gregarismo: l’obiettivo dev’essere quello di ripensare alla Memoria della Shoah con una sempre rinnovata consapevolezza della sua unicità e del suo carattere paradigmatico.
Roberto Colombo, docente, iscritto Anpi
Pubblicato domenica 1 Dicembre 2024
Stampato il 02/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/le-staffette-della-memoria-la-shoah-raccontata-dai-giovani-ai-giovanissimi/